“Un’ estate da sola” di Elizabeth Von Arnim edito da Bollati Boringhieri.Estratto

Sinossi

«Ho letto tutti i libri di Elizabeth von Arnim … Straordinaria.»
Edmund de Waal, autore di Un’eredità di avorio e ambra

«Una folla di raffinati lettori ha scoperto a poco a poco i romanzi di questa scrittrice ironica, spregiudicata, fuori da ogni corrente letteraria, spesso crudelissima nel descrivere una società boriosa, superficiale, vecchia, ingiusta soprattutto verso le donne.»
la Repubblica – Natalia Aspesi

«Cattiva, spiritosa, anticonvenzionale, lungimirante, Elizabeth von Arnim… racconta con verve e un acuto occhio sociale i tic e i tabù della buona società.»
Vanity Fair – Irene Bignardi

«La donna più intelligente della sua epoca, capace di confliggere, attraverso il dono di una grazia urticante, con il durissimo velluto della società che la circonda.»
TTL – La Stampa – Mirella Appiotti

«Irresistibile per humour, sottigliezza psicologica, fini descrizioni d’ambiente.»
Corriere della Sera – Serena Zoli

2 maggio. Ieri sera dopo cena dissi: «Voglio restare da sola per l’intera estate… Voglio impigrirmi perché la mia anima abbia il tempo e l’agio di crescere… Trascorrerò i mesi sui prati e nei boschi… Sarò felice, nessuno verrà a disturbarmi… Dove c’è silenzio, ho scoperto, c’è la pace». «Attenta a non bagnarti i piedi» disse l’Uomo di Rabbia. 
Così inizia questo divertente seguito del Giardino di Elizabeth, resoconto di quella che dovrebbe essere un’estate rigenerante. Non un libro sulla solitudine, però, quanto un diario sul desiderio di solitudine di chi si ritrova costantemente invaso dalla presenza altrui. Le ore, infatti, non sono mai solitarie come la protagonista aveva pianificato: c’è l’Uomo di Rabbia con cui pacificarsi, le bambine che esigono attenzione, i domestici in attesa di istruzioni. Molte giornate iniziano con riflessioni sul giardino, che poi si evolvono in digressioni ironiche vuoi sulla debolezza umana, vuoi su indesiderati incontri sociali, sul sonno o sul tempo, con scambi satiri-ci e ciniche conversazioni su Dio, paradiso e inferno tra Elizabeth e l’Uo-mo di Rabbia, cui le tre figlie partecipano nel loro sincopato linguaggio infantile. Il libro riprende il tema conduttore della produzione di Elizabeth von Arnim, la fuga. Tutte le sue eroine fuggono – dalla ricchezza verso la semplicità, da una vita casalinga convenzionale verso un viaggio all’estero, da una casa comoda a un’avventura in carrozza – e soprattutto fuggono, o sentono il bisogno di fuggire, dai mariti e dalla tirannia del matrimonio. Qui, come nel Giardino di Elizabeth, la fuga è semplicemente in un giardino da cui si gode un paesaggio più ampio, e che diventa sinonimo di gioia.

Estratto

Un’estate da sola

Nature nous a estrenez d’une large faculté à nous entretenir à part, et nous y appelle souvent pour nous apprendre que nous nous devons en partie à la société, mais en la meilleure partie à nous.
Montaigne, Essais, II, 18

All’Uomo di Rabbia
con
qualche scusa
e
tanto amore

Maggio

2 maggio. Ieri sera dopo cena, mentre eravamo in giardino, dissi: «Voglio restare da sola per l’intera estate, e giungere all’essenza della vita. Voglio impigrirmi quanto più possibile, perché la mia anima abbia il tempo e l’agio di crescere. Non inviterò nessuno, e se qualcuno verrà a trovarmi gli si risponderà che sono fuori, lontana, o indisposta. Trascorrerò i mesi sui prati e nei boschi. Osserverò le cose che accadono in giardino e vedrò se e dove ho sbagliato. Nei giorni di pioggia mi addentrerò nel fitto della pineta, dove gli aghi sempreverdi rimangono asciutti, e nei giorni di sole mi sdraierò sulla brughiera per vedere la ginestra sfolgorante sul fondale di nuvole. Sarò felice, nessuno verrà a disturbarmi. Là fuori, sulla piana, tutto è silenzio e dove c’è silenzio, ho scoperto, c’è la pace».

«Attenta a non bagnarti i piedi» disse l’Uomo di Rabbia, levandosi il sigaro di bocca.

Era la sera del Primo Maggio, e la primavera si era impossessata di me, anima e corpo. Il cielo traboccava di stelle, il giardino di profumi e le aiuole di violacciocche e di dolci, furtive primule. Un’insistente brezza aveva soffiato per tutto il giorno, e per tutto il giorno lente masse di nuvole bianche avevano navigato attraverso l’azzurro. Ma ora l’aria era ferma, immobile, nemmeno un alito di vento, come se una mano calma si fosse posata sul giardino, calmandolo e riconducendolo al silenzio.

L’Uomo di Rabbia sedeva in fondo ai gradini della veranda in quel placido umore postprandiale tipico degli sciocchi, se non contento, almeno indulgente, mentre io, in piedi, appoggiata alla meridiana, gli stavo di fronte.

«Ti porterai un libro?» mi chiese.

«Sì, certo» risposi, leggermente irritata dal suo tono. «Sono pronta ad ammettere che sebbene i campi e i fiori abbiano molto da insegnare, non sempre mi trovo dell’umore giusto per apprendere e a volte i miei occhi sono incapaci di vedere cose che in altre occasioni sono decisamente ovvie».

«E allora leggi?»

«E allora leggo. Bene, caro Saggio, che ne pensi del mio piano?»

Lui fumava in silenzio, improvvisamente assorto nelle stelle.

«Guarda» disse dopo una pausa, durante la quale rimasi a osservarlo desiderando sentirlo esprimere con frasi articolate, ma lui scrutava il cielo e non pensava affatto a darmi risposta, «guarda come brillano le stelle questa sera. Sembra quasi intenda gelare».

«Non gelerà e non guarderò un bel nulla finché non mi dirai che cosa pensi della mia idea. Non sarebbe stupendo trascorrere un’intera estate in totale solitudine? Non sarebbe perfetto alzarsi la mattina, giorno dopo giorno per intere settimane, e sentire di appartenere a te stessa e a nessun altro?» Mi avvicinai a lui, gli misi le mani sulle spalle e lo scrollai un poco, poiché continuava a rimirare gli astri come se io non fossi stata lì. «Per favore, Uomo di Rabbia, dì qualcosa di lungo, per una volta» l’implorai, «non dici una frase intera da una settimana».

Lentamente distolse lo sguardo dalle stelle per posarlo su di me. Mi sorrise e mi attirò a sé facendomi sedere sulle sue ginocchia.

«Niente sdolcinature» sollecitai. «Ho bisogno di parole non di gesti. Ma rimarrò qui se parli».

«Va bene, allora parlo. Che devo dire? Tu sai di poter fare quel che desideri, non interferisco mai con te. Se non vuoi che nessuno venga a trovarci va bene così, ma sappi che la troverai un’estate lunghissima».

«E invece no».

«E se te ne starai sdraiata sulla brughiera tutto il giorno, la gente penserà che sei matta».

«Che m’importa di cosa pensa la gente?»

«Nulla, è vero. Ma ti prenderai il raffreddore e ti si arrosserà il naso».

«Che si arrossi pure».

«E quando farà caldo ti brucerai e ti si rovinerà la pelle».

«Non m’importa della pelle».

«E ti annoierai».

«Annoiarmi?»

Spesso mi diverte riflettere su quanto poco l’Uomo di Rabbia mi conosca davvero. Siamo qui seppelliti in campagna da tre anni, e sono felice come un fringuello. Dico come un fringuello perché altra gente ha usato la similitudine per descrivere l’assoluta gaiezza, per quanto non creda che i fringuelli siano particolarmente felici, e anzi litigano furiosamente. Sono stata felice, diciamo, come i fringuelli migliori e, prima d’ora, ho vissuto intermittenti stagioni di solitudine durante le quali «annoiata» è l’ultima parola per descrivere il mio stato d’animo. Non a tutti, è vero, piace questa vita, e ho avuto qui alcuni ospiti un paio di settimane fa che se ne sono andati dopo pochi giorni, chiaramente senza essersi divertiti. La trovano noiosa, lo so, ma naturalmente è tutta colpa loro; del resto, come si può rendere una persona felice contro la sua volontà? Puoi cercare di farlo appassionare a certe cose, insegnargli un po’ di quelle che a scuola chiamano materie facoltative, ma per quanto insisti, non caverai alcuna felicità da un individuo che non l’abbia già in sé. L’unico risultato, probabilmente, è che tu ci perdi la tua. Ovviamente la felicità viene da dentro, e non dall’esterno;e a giudicare dalla mia esperienza passata e dalle mie attuali sensazioni, direi che ne ho immagazzinata più che a sufficienza per cinque mesi sereni.

«Mi domando» aggiunsi dopo una pausa, durante la quale incominciai a sospettare di appartenere anch’io ai ranghi serrati delle femmes incomprises, «perché mai dovrei annoiarmi. Il giardino è bellissimo, e io sono quasi sempre dell’umore giusto per godermelo. Non proprio sempre, lo confesso, perché quando quegli Schmidt erano qui (Schmidt non è il loro vero nome, ma che importa?) quasi lo odiavo. Ogni volta che uscivo, eccoli lì a trascinarsi in giro con l’aria di indignata rassegnazione. Credi che si siano accorti dell’azzurra erba trinità straripante dagli arbusti? E quando li ho condotti per i boschi, dove le fate erano indaffaratissime ad appendere piccoli gioielli verdi ai rami, parlavano tutto il tempo di Berlino e delle prelibatezze cucinate dal loro nuovo chef».

«Bene, mia cara, non mi sorprende che sentissero la mancanza delle loro prelibatezze. Il giardino, lo ammetto, cresce molto bene, ma la cuoca è pessima. Povero Schmidt, a volte mi sembrava proprio a disagio a cena, e la bellezza delle tue decorazioni floreali non bastava certo a ricompensarlo della scarsa qualità del cibo. Mandala via».

«Mandarla via? Ringrazia di averla. Una cattiva cuoca è molto più efficace di mille cure termali, e molto più economica. Finché resta con noi, mio caro, tu rimarrai relativamente magro e attraente. Povero Schmidt, come lo chiami tu, mangia troppi manicaretti e poi guarda sua moglie e si chiede perché mai l’ha sposata. Guai a te se ti pesco far lo stesso».

«Non credo succederà mai» disse l’Uomo di Rabbia; ma se lo dicesse come un complimento, o se stesse semplicemente pensando all’improbabilità di mangiare troppi manicaretti locali, non saprei dire. Obietto, comunque, al discutere di cuochi in giardino in una notte stellata, così scesi dalle sue ginocchia e gli proposi di passeggiare un poco.

Era una serata dolcissima, splendido finale a un radioso Primo Maggio, i fiori rilucevano nel crepuscolo come pallide lune, l’aria era densa di fragranze e io invidiavo i pipistrelli svolazzanti in tale bagno di profumi, con le stelle sopra e le violette sotto, loro stessi per natura incapaci, anche volendo, di emettere suoni e disturbare la pace assoluta. Molta letteratura poetica in inglese è dedicata al Primo Maggio, e la mente straniera reca una vivida impressione di mazzetti di fiori, e ghirlande, e prati di paese e giovanetti e fanciulle adorne di nastri, e agnelli, e gran baldoria. Una volta mi ritrovai in Inghilterra il Primo Maggio: ricordo che sedevamo intirizziti davanti al caminetto, ascoltando attoniti il vento di nord-est che si abbatteva in strada e il picchiare della grandine contro le finestre, e gli amici presso cui ero ospite mi dissero che quel tempaccio non era certo una novità, e che non avevano mai visto né agnelli né nastri. Noi tedeschi non attribuiamo alcun significato poetico a questa giornata e tuttavia potremmo perché il cielo è quasi invariabilmente sereno; e, per quanto riguarda le ghirlande, mi domando quanti villaggi pieni di giovanetti potrebbe rifornire il mio giardino, senza che se ne noti la mancanza? È oggi un giardino di viole, e penso di averne di ogni colore e varietà esistente. Le aiuole lungo le finestre a ponente, desolate e malinconiche l’anno scorso in questo periodo, ne straripano, e sul davanti sono decorati da parte a parte da una larga striscia di violette bianche e gialle. Le aiuole di rose tea intorno alla meridiana di fronte ai margini sono fazzoletti di viole bianche e oro e viola e porpora, con i delicati boccioli rossi delle rose tea a presiedere tra loro. I gradini della veranda che scendono a questo paradiso di violette sono fiancheggiati da vasi di tulipani bianchi, rosa e gialli, e sul prato, dietro alle rose, si trovano due grandi aiuole di tulipani multicolore su un tappeto di non-ti-scordar-di-me. Come sono affascinanti le distese di tulipani variopinti! L’anno scorso, su raccomandazione di diversi esperti scrittori di giardinaggio, ho provato a piantare insieme tulipani scarlatti e non-ti-scordar-di-me. Molto carini; ma vorrei che costoro vedessero le mie aiuole di tulipani misti. Non esiste nulla di più allegro e insieme dolce e delicato. Escludo soltanto quelli rosa intenso; ma scarlatti, oro, rosa pallido e bianchi sono tutti lì e l’effetto è incantevole. I non-ti-scordar-di-me crescono man mano che i tulipani muoiono e presto li ingloberanno tutti, nascondendo la vergogna del loro decadere tra piccole braccia gentili. Rimarranno lì, nuvole di tenero azzurro, fin quando i tulipani saranno tutti appassiti, e infine estirpati per lasciare posto ai gerani rossi ospiti estivi di queste due aiuole, dove splenderanno nel sole a volontà. Amo occasionali macchie di colore vivace, e queste per contrasto renderanno i gigli ancora più bianchi e mozzafiato di quanto non siano, sentinelle intorno al semicerchio delle preziose rose tea.

L’ Autrice

Elizabeth von Arnim (Mary Annette Beauchamp 1866-1941), nata a Sydney in Australia e cresciuta in Inghilterra, fu cugina di Katherine Mansfield e amica di E.M. Forster. H.G. Wells nella sua autobiografia la descrisse come «la donna più intelligente della sua epoca». Tutti i suoi romanzi sono pubblicati da Bollati Boringhieri: Il giardino di Elizabeth (1989), I cani della mia vita (1991), Un incantevole aprile (1993), La memorabile vacanza del barone Otto (1995), Elizabeth a Rügen (1996), Amore (1998), Un’estate da sola (2000), Mr Skeffington (2002), La moglie del pastore (2003), Cristoforo e Colombo (2004), Lettere di una donna indipendente (2005), Vera (2006), Il padre (2007), Vi presento Sally (2008), La storia di Christine (2009), Colpa d’amore (2010), La fattoria de

Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la curatrice del blog letterario "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga.