Sinossi
PUGLIA 1956. UNA FAMIGLIA DI PROFUMIERI E UNA DI COLTIVATORI DI FIORI. UNA BAMBINA E UN BAMBINO. UN INCONTRO CHE CAMBIERÀ TANTE VITE.
È l’ultimo giorno del 1955 e sulla campagna intorno a Bari cade leggera la neve, come non si vedeva da tempo. A casa Gentile c’è subbuglio: sta per nascere un bambino. Ma l’urlo della madre fa capire che qualcosa è andato storto. Per fortuna, dopo ore di paura, il Signore fa la grazia e finalmente si può festeggiare il lieto evento, e il nuovo anno. Anche perché lavorare è impossibile: fuori è tutto bianco, e gli uomini della famiglia non possono recarsi nei campi per occuparsi dei fiori che da generazioni danno da vivere ai Gentile. Gli stessi fiori che, sotto un’altra forma, danno da vivere anche ai Fiorenza, la più importante famiglia di profumieri di Bari. E infatti, appena la neve inizia a sciogliersi e campi e strade tornano agibili, dalla città parte Adriano Fiorenza, il primogenito di Claudio, il grande maestro profumiere, e va dai Gentile per ordinare fiori da cui saranno tratte le essenze. Quel giorno Adriano porta con sé sua figlia Teresa, che ha sei anni, e durante quella visita nasce un’amicizia speciale tra lei e il piccolo Michele Gentile, suo coetaneo. È un incontro importante anche per Maria, la zia di Michele, che non avendone di propri lo considera come un figlio. Capisce che il bambino, con la sua straordinaria intelligenza, non può restare in paese, e così, con l’aiuto di Adriano, Michele sarà iscritto alla stessa scuola privata di Teresa, in città. I primi giorni sono difficili, Michele si sente un pesce fuor d’acqua e oltretutto subisce le angherie classiste dei compagni, provenienti dalle migliori famiglie di Bari. Eppure, con tenacia e determinazione, riuscirà a farsi valere. E a scuola rinsalderà la sua amicizia con Teresa e conoscerà la cugina di lei, Vittoria, un poco più grande di loro, una ragazza dal carattere fiero e intraprendente…
Con Acqua di sole, Bianca Rita Cataldi dà vita a una meravigliosa saga familiare, popolata di personaggi indimenticabili e affascinanti, e pervasa dalle atmosfere, dai colori, addirittura dagli odori, della Puglia degli anni Cinquanta e Sessanta.
Estratto
A mio padre.
A zia Angela.
Ogni linguaggio è un alfabeto di simboli il cui uso presuppone un passato che gl’interlocutori condividono.
JORGE LUIS BORGES, L’Aleph
PRIMA PARTE
Casa Gentile
1
Di tutte le cose certe, la più certa era che la vita era tutto ciò che veniva prima della morte. Di questo, nessuno in famiglia aveva mai dubitato. La loro filosofia era fatta di concetti semplici, tramandati di generazione in generazione insieme ai vestiti, ai giocattoli, agli attrezzi del mestiere. Secoli di filosofia occidentale e di interrogativi sulla vita per arrivare a quell’umile verità, dura e certa come il nocciolo di un’albicocca: la vita è ciò che viene prima della morte. Eppure quel giorno, l’ultimo dell’anno, quella certezza parve vacillare come avrebbero potuto fare le gocce di vetro del lampadario di nonna Ninetta durante un terremoto. Il 31 dicembre del 1955, quando ancora erano le cinque del pomeriggio e il sole era già tramontato dietro i campi, un urlo di donna divenne quel terremoto di cui i piccoli di casa avevano solo sentito parlare. Davvero le gocce del lampadario parvero tremare sull’onda di quel grido, e tutti si immobilizzarono lì dov’erano, chi con le mani in pasta per la cena della vigilia, chi con le dita sul trenino di legno, chi con l’ago affondato in un lenzuolo da ricamare. Tutti fermi come statue di sale, paralizzati dalla voce acuta che veniva dalla camera da letto. Nella casa grande, che era quella dei nonni, c’erano tutti, anche gli uomini, perché alla vigilia di Capodanno non si lavorava mai.
Quando l’urlo raggiunse la cucina, Margherita alzò lo sguardo dall’impasto del dolce e guardò il marito negli occhi. Qualcosa era andato storto, lassù nella camera al primo piano, e lo sapevano entrambi. Non aveva urlato così, lei, quasi sette anni prima, quando era nato Michele. E nemmeno la stessa Elisa aveva urlato così, quando aveva dato alla luce Tonio. Ma questa volta, con questo figlio, era stato tutto diverso, sin dall’inizio.
«Statt calm» le disse Giulio, senza abbassare gli occhi. Era un ordine che ne nascondeva un altro: non spaventare Michele. Ma Michele si era già spaventato, le dita gli tremavano sul trenino di legno e gli occhi erano grandi, lucidi e rotondi come biglie.
«Michè, non è niente. Mo finisce» disse lei, la voce ancora ferma, malgrado tutto. Un altro urlo, più forte di prima. La voce di zia Elisa sembrava scuotere la casa dalle fondamenta, quasi volesse strapparla via. Zia Maria entrò in cucina, trafelata.
«Che è?» domandò, la mano che artigliava lo stipite della porta, il corpo mezzo dentro e mezzo fuori della stanza. Michele le guardò gli occhi neri sterminati dietro gli occhialini che portava quando ricamava, e le nocche bianco gesso della mano che la teneva in piedi, stretta al legno dello stipite.
Poi, tutto divenne confuso. Ci furono altre grida, di altra gente: zio Aldo, nonna Ninetta e qualcun altro. Tramestio di piedi sulle scale di legno, un rumore duro come di sassi. Lo stupore immobile che era seguito al primo grido di Elisa divenne puro movimento: Margherita si pulì le mani sul grembiule e uscì precipitosamente dalla cucina, seguita a ruota da Maria, la cognata sarta, pallida come un cencio. Anche Giulio fece per uscire, ma poi
tornò indietro e si chinò su Michele che, seduto per terra con il trenino in mano, ancora non era riuscito neanche a battere le palpebre.
«Tu non muoverti da qui» gli ordinò, tra i denti. Nello sguardo, quel lampo di luce dura che aveva sempre Giulio quando non aveva nessuna intenzione di ascoltare ragioni. Poi raddrizzò la schiena, imboccò anche lui il corridoio e salì le scale. Zio Andrea entrò in cucina correndo e afferrò il cappotto dall’attaccapanni.
«Dove vai?» riuscì a chiedergli Michele, alzandosi in piedi. Sentì le gambe di gelatina.
«A chiamare il medico. Tu non ti muovere.»
Di nuovo lo stesso ordine, e quelle gambe molli che sembravano reiterarlo ancora e ancora. Non si sarebbe mosso neanche se avesse voluto, perché le ginocchia non gli reggevano. La cucina era la prima stanza della casa, quella da cui si usciva direttamente all’esterno, così Michele vide la porta che si apriva e si richiudeva, il quadrato nero della sera che inghiottiva lo zio e lo faceva scomparire come nei racconti di fantasmi che gli raccontava nonna Ninetta. Dall’alto, venivano ancora delle grida, poi frasi concitate. Non capiva come fosse stato possibile che la giornata si fosse trasformata così in fretta. Soltanto poche ore prima, all’ora di pranzo, zia Elisa era entrata in casa, anticipata dal suo pancione enorme. Le si erano rotte le acque, un’espressione che era sulla bocca di tutte le donne di casa e di cui Michele non conosceva il senso. Poi era arrivata la levatrice, una donna corpulenta con un vestito a righe e un maglione di lana che gli aveva punto la guancia quando lei l’aveva abbracciato per salutarlo. L’unica cosa che aveva capito, in tutto quel viavai di gente, era che il figlio della zia stava per nascere. Suo cugino, o sua cugina. Lui sperava fosse un maschio, così almeno ci avrebbe potuto giocare. Con Tonio non riusciva mai a divertirsi granché, aveva solo quattro anni e mezzo e dormiva sempre. Anche in quel momento stava dormendo, nella cameretta dei bambini al primo piano, eppure Michele pensò che si sarebbe svegliato presto, con tutto quel trambusto. Se era vero che il travaglio era iniziato dopo pranzo, era anche vero che adesso l’orologio esagonale di legno in cucina segnava le cinque e mezza e non era ancora successo niente. Soltanto grida, piedi pesanti sulle scale e gente che correva.
Non appena sentì le gambe farsi un po’ più solide, Michele avvertì l’impulso di disobbedire al padre, salire le scale e affacciarsi sul corridoio delle camere. Sapeva che non avrebbe dovuto farlo, e che la scusa del dovevo andare in bagno non sarebbe valsa a nulla perché ce n’era un altro piccolino a cui si accedeva dalla cucina. Ma non poteva neppure rimanere lì, da solo, a giocare come se niente stesse accadendo. Guardò verso la porta d’ingresso e si disse che avrebbe contato fino a cento. A scuola era bravo a contare, prendeva sempre sette in matematica e il maestro gli diceva che aveva una testa scientifica, qualunque cosa significasse. Si ripromise che, se entro il numero cento lo zio non fosse rientrato con il medico, allora sarebbe andato al piano di sopra. A cinquantasette, un urlo più acuto di tutti i precedenti invase la cucina. Michele smise per un attimo di contare e corse nel corridoio. Guardò le scale dal basso, le ombre che si rincorrevano nel cono di luce che veniva dal piano di sopra. Poi zia Maria comparve dal nulla sul ballatoio e iniziò a scendere le scale.
«Che fai lì? Togliti di mezzo. Quand’è uscito lo zio?» gli chiese, la voce irriconoscibile.
«Prima. Poco fa. Zia sta male?»
«Un po’, ma passerà. Passa sempre tutto.» Zia Maria lo superò e fece per andare in cucina. Poi, come colta da un ripensamento improvviso, si voltò a guardarlo e lo sguardo le si addolcì: «Vieni con me, dai. Aiutami a trovare delle pezze pulite».
Michele quasi si mise a correre per raggiungerla in cucina. Era felice che finalmente qualcuno lo stesse considerando, e poi zia Maria era sempre stata la sua preferita, un po’ perché alla Befana non gli dava mai il carbone e un po’ perché ci metteva sempre un secolo prima di arrabbiarsi.
«Ma quanto tempo ci vuole?» le chiese, mentre lei si chinava a frugare nel mobiletto sotto il lavandino. Si era tolta gli occhiali da cucito e adesso i suoi occhi neri sembravano ancora più grandi del solito.
«Per che cosa?»
«Per avere il cuginetto.»
Zia Maria diede una risatina nervosa e si alzò in piedi con le braccia piene di panni puliti che avevano un odore un po’ acido, di varechina e sapone.
«Speriamo poco. Tu di’ una preghiera alla Madonna di Sovereto, che è buona e ci fa la grazia.»
E fuggì via, veloce com’era arrivata. Ancora una volta Michele rimase da solo, e per giunta con un compito da svolgere, perché le richieste di zia Maria andavano tutte esaudite, sarebbe stato un crimine dire di no a una persona così buona. Così si avvicinò al quadretto della Madonna che era sulla mensola del camino e si fermò a guardarla. La Madonna di Sovereto era diversa dalle altre perché era nera, ma poiché non era abituato a vedere altre madonne, Michele non si rendeva conto di quella particolarità. La sua era nera, e basta. Prese il quadretto tra le mani e disse un Pater, un’Ave e un Gloria, a mezza voce, vergognandosi un po’ e guardandosi alle spalle per essere sicuro che nessuno lo scoprisse nell’atto di obbedire a un comando. Poi si disse che, però, alla Madonna magari non gliene fregava niente del Pater e del Gloria, così riprese dalle Ave Marie e ne disse cinque, di seguito, senza fermarsi mai.
«Salva il cuginetto» aggiunse alla fine della quinta, perché poteva essere che la Madonna non riuscisse a capire a che servissero tutte quelle preghiere. «Il figlio di zia Elisa e zio Aldo», perché di cugino c’era anche Tonio, e poteva essere che la Madonna si confondesse. «Quello che è ancora nella pancia», perché anche Tonio era figlio di zia Elisa e zio Aldo. Oh, insomma. Gli era venuto il mal di testa, così lasciò il quadretto sulla mensola del camino e si augurò che la Madonna avesse capito. D’altra parte, capire era il suo lavoro. Capire tutti quelli che dicevano le preghiere da ogni parte del mondo, con lingue diverse, pensando a cose diverse. Chissà chi la pagava per fare un lavoro così complicato.
Maria tirò lo scarico e abbassò il coperchio del water per sedervisi sopra. Fece un respiro profondo e le sembrò che l’aria le bruciasse la gola. Non era brava, nei momenti di crisi. Non sapeva gestire le situazioni complicate, andava nel pallone e faceva confusione, forse per questo era l’unica della famiglia a non lavorare in campagna. Lei, per una grandinata distruttiva, sarebbe potuta morire, e non sarebbe riuscita a trovare la forza di ricominciare nemmeno se la Madonna le avesse fatto la grazia. Così faceva la sartina, un lavoro tranquillo. Andava a Bari dalla signora De Palma ogni lunedì, dormiva da lei e si ritirava il venerdì sera con la corriera, in compagnia di altre due donne che erano pure loro di Terlizzi. Meno male che non aveva figli, si diceva sempre, perché altrimenti come avrebbe fatto? La fatica è fatica, pensava, e aiutare il marito a portare il pane a casa era per lei un motivo d’orgoglio: erano in poche, le donne che lo facevano. Però adesso si toccava la pancia e la sentiva vuota e le bruciavano pure gli occhi, insieme alla gola. Un figlio. Chissà cosa significa avere una vita nella pancia. Non lo sapeva, ma sentiva le urla della cognata che squarciavano il silenzio e che la porta chiusa del bagno non riusciva ad arginare.
Per dare di stomaco, come le capitava sempre quando aveva paura, Maria era andata nel bagno del secondo piano, perché quello di sotto serviva a cambiare l’acqua delle bacinelle per Elisa. Non era riuscita a rimanere al capezzale più dello stretto necessario, non ce l’aveva fatta. Elisa sui cuscini, sudata, gli occhi strizzati come pezze intrise d’acqua e le mani che artigliavano il lenzuolo madido di sudore. Dare alla luce, e farlo nel dolore. Così tanto dolore. Si chiese perché dovesse essere così difficile, se la vita era davvero una cosa naturale. E se il bambino non fosse nato sano? E se avessero perso Elisa? No, a questo non riusciva nemmeno a pensare. Elisa, i suoi occhi buoni, l’amicizia che le legava, quel sentimento profondo che le aveva unite sin da quel lontano pomeriggio del ’49 quando si erano conosciute in chiesa. Era stato grazie a Elisa se lei adesso era sposata con Andrea. Era stata lei a portarla in casa Gentile, a farle conoscere l’affetto di una famiglia vera, unita nella gioia come nel dolore. E adesso Elisa era nel letto che rischiava grosso e lei non riusciva nemmeno a tenerle la mano.
«Maria! Maria!» Era la voce di Andrea e lei quasi si mise a piangere per il sollievo. Uscì di corsa dal bagno e si precipitò al piano di sotto. Andrea era tornato, e l’aspettava nel corridoio.
«Hai trovato il dottore?» gli chiese, trafelata, aggrappandosi al suo maglione come a un’ancora di salvezza.
«Sì, è dentro con Elisa. Non è stato facile, è un giorno di festa e lui era dai figli.»
Il dottor Cagnetta aveva curato almeno l’ottanta per cento dei terlizzesi, negli anni. Nascite, morti, orecchioni, morbillo, febbre a quaranta, persino mal d’amore. Il primo ricordo che Maria aveva di lui risaliva a vent’anni prima, quando ancora viveva con la madre. Adesso il dottore aveva una settantina d’anni, era curvo e portava occhiali spessissimi che sembravano fondi di bottiglia, ma aveva ancora le mani ferme e il cuore buono.
«Michele che sta facendo?» chiese Maria al marito, guardandosi attorno come se si aspettasse di vederlo comparire da un momento all’altro.
«È con Tonio nella camera dei bambini. Stanno giocando, speriamo che non sentano troppo.»
Ma avrebbero sentito, Maria ne era sicura. Non sarebbero bastati i soldatini di latta a tenerli lontani dal dolore degli altri. Un dolore che sarebbe diventato anche il loro nel momento in cui avessero capito. Maria e Andrea scesero in cucina e cercarono di tenersi impegnati come potevano. Accesero la radio, poi la spensero, poi la riaccesero perché la musica sembrava comunque un’alternativa preferibile al silenzio rotto a tratti dalle grida di dolore di Elisa. Guardavano l’orologio, ma le lancette parevano rifiutarsi di andare avanti. Il bambino non si decideva a uscire. Maria si mangiava le unghie, guardava l’impasto sfatto del dolce che Margherita aveva lasciato a metà e che ormai era troppo tardi per recuperare.
«Bella vigilia di Capodanno» disse, senza riuscire a trattenersi. Non appena il pensiero le fu uscito dalle labbra, se ne vergognò. Sua cognata era al piano di sopra che stringeva i denti e lei pensava a quanto un evento del genere avrebbe portato sfortuna, alle soglie dell’anno nuovo. Andrea non le rispose subito, preso com’era dai suoi pensieri, e quando parlò lo fece per seguire il filo dei propri ragionamenti: «I miei dove sono?» chiese, come se la casa fosse un castello nel quale fosse effettivamente possibile perdersi di vista.
«Mamma è con Elisa, papà è nello studio. Credo non abbia il coraggio di andare a vedere.»
«Vado a chiamarlo. Se proprio dobbiamo aspettare, almeno facciamolo in compagnia.»
Così Andrea andò di sopra e Maria si mise a preparare un caffè. Si ricordò di quand’era più giovane e il caffè dovevano farlo con la cicoria perché c’era la guerra. E anche dopo, perché comunque la pace appena dopo la guerra non è tanto più allegra. A casa sua, poi, erano solo lei e la mamma. Un fratello morto in battaglia, il padre di una malattia al fegato, loro due da sole che recitavano rosari e la mamma che perdeva il filo ogni tre o quattro Ave Marie. Adesso anche sua madre non c’era più, che Dio l’avesse in gloria, e lei era una Gentile, con nuovi genitori e nuovi fratelli e la casa dei suoceri che era anche casa sua, dal momento che lei e Andrea non avevano figli e non avrebbe avuto senso andare a vivere da un’altra parte. Ogni 23 aprile, alla Festa Maggiore, accendeva un cero alla Madonna di Sovereto, per averle dato una famiglia così. Mica è scontato, che vieni al mondo e hai una famiglia. A volte vieni al mondo e tutto ciò che hai sei tu.
«Stai facendo il caffè? Brava figlia. Quello che ci vuole» disse una voce alle sue spalle, e lei si girò e vide il suocero che entrava in cucina, appoggiandosi al bastone.
«Sedetevi, tutti e due. Ve lo porto, sta uscendo.»
Mise in tavola tre tazzine marroni e portò la caffettiera. Pensò a quanto si somigliassero, Nino e Andrea: gli stessi occhi celesti, la stessa smorfia sulle labbra quando le cose non andavano come avevano previsto. Erano le sei del pomeriggio, di lì a poco avrebbero dovuto cominciare la cena della vigilia e invece tutto era in alto mare. Bevvero il caffè in silenzio, senza osare nemmeno guardarsi negli occhi, per la paura di condividere ciò che pensavano davvero, e cioè che forse l’anno nuovo sarebbe cominciato con una fine.
Ma non andò così. A mezzanotte meno qualche minuto, un grido diverso da tutti i precedenti cambiò le carte in tavola. Michele, che si era addormentato sul tappeto della camera dei bambini, tra le biglie e i soldatini, si svegliò di scatto. Tonio continuava a dormire, nel suo letto, la bocca aperta e un filo di bava che gli colava sul mento. Bambini piccoli, pensò il cugino, facendo spallucce, e si precipitò nel corridoio. Fuori, era tutto un viavai di gente, ma l’atmosfera era cambiata.
«È nato!» squittì la voce di zia Maria, sulla soglia della camera da letto. Ci furono gridolini di gioia e di sollievo, e Michele si avvicinò agli zii che erano fuori della camera. Zio Andrea lo strinse a sé e lui respirò l’odore del suo gilet, lana buona e sapone e tabacco. Fu allora che il clima cambiò di nuovo.
«Oh no» sussurrò zia Maria, con un filo di voce. Zio Andrea lo lasciò andare, gli disse: «Non entrare» e si infilò in camera, seguito dalla moglie. Michele cercò di guardare dentro, ma c’era troppa gente che gli copriva la visuale: la mamma e il papà, in piedi al capezzale del letto, e zio Aldo e la levatrice, il dottore e la nonna che si metteva le mani nei capelli bianchi e sussurrava parole incomprensibili, forse preghiere.
«Perché non piange?» chiese un’altra voce, anche questa appena percepibile, ed era quella di zia Elisa.
Allora Michele si fece coraggio ed entrò. D’altra parte, gli adulti erano tutti troppo impegnati per trattenerlo. Ciò che vide gli avrebbe infestato gli incubi per molto tempo a venire, diventando un ricordo che non avrebbe mai abbandonato la sua memoria. C’era sangue, dappertutto. Sangue sulle lenzuola, sul pavimento, sulle mani del dottore che adesso si muovevano come ali di farfalla sul petto di una creaturina minuscola, anch’essa coperta di sangue. E ancora zia Elisa: «Perché non piange?». Ma adesso le parole erano bagnate di lacrime e si spezzavano a ogni sillaba, quasi fossero in corsa su un terreno accidentato. Michele se ne stava in piedi, in disparte, le gambe che ancora una volta erano gelatina, e tutto quel sangue che non aveva mai visto, non tutto insieme, non così tanto. Poi un grido squarciò l’aria, e veniva da quella cosina coperta di sangue, tra le mani del dottore. La madre di Michele scoppiò a ridere, gridò qualcosa ma sembrava parlasse in un’altra lingua, e poi rise anche il padre…