“Se esiste un perdono” di Fabiano Massimi

Dal 24 gennaio in libreria
SE ESISTE UN PERDONO
di Fabiano Massimi

«Il treno aveva preso velocità appena fuori Praga, oltre i tetti e le guglie della
Città Vecchia, oltre i quartieri bassi della prima periferia e le fabbriche che si
assiepavano lungo il fiume (…). Dai finestrini dello scompartimento entrava un
flusso ininterrotto di meraviglie che i bambini osservavano rapiti, le fronti
appoggiate contro il vetro, le dita aperte come petali.
Per molti di loro era il primo viaggio senza la famiglia, e tutto era così nuovo
che non pensavano già più alla vita che si stavano lasciando alle spalle, alle
madri e ai padri che li avevano accompagnati in stazione fingendo serenità per
affidarli a degli sconosciuti.»

Fabiano Massimi riscopre una storia a lungo dimenticata: quella dello <<Schndler inglese>> Sir Nicholas Winton, che nella Praga del 1939 salvò 669 bambini dal Nazismo: uno Straordinario esempio di umanità e coraggio.

«La storia dimenticata dello Schindler britannico. Un autore di grande successo in tutta Europa. Vincitore del Prix Polar 2022 »

La chiamano la Bambina del Sale, perché tutte le sere, quando il buio allaga la città, puoi incontrarla all’imbocco di un vicolo che vende ai passanti sacchetti in tela azzurra con dentro una manciata di sale, introvabile da tempo. Nessuno a Praga conosce il suo nome. Nessuno sa come si procura quella preziosa merce. La Bambina compare dopo il tramonto e scompare prima dell’alba, senza dare confidenza a chi incontra. Una moneta, un sacchetto. Tutto qui.
È il 1938. Il furore nazista incombe sulla Cecoslovacchia e Hitler è alle soglie della città. La paura dilaga, soprattutto fra gli ebrei del Ghetto. Non c’è tempo, bisogna fuggire. Bisogna salvare i più deboli, come i bambini senza famiglia, come la Bambina del Sale. Un’impresa impossibile. Eppure c’è un uomo che ci crede, un inglese di origini ebraiche, Nicholas Winton, che tenta il miracolo: allestire treni diretti nel Regno Unito per mettere in salvo quanti più bambini possibile. Tra mille ostacoli logistici e politici, e con l’aiuto della giovane Petra che lo guida in una città a lui sconosciuta e colma di fascino, Winton sta per riuscire nel suo eroico intento. Ma la Bambina del Sale sembra non voglia farsi salvare. Perché quello sguardo sfuggente? Quale segreto nasconde?
In questo toccante romanzo, che racconta la vicenda vera e dimenticata di sir Nicholas Winton, tornata alla luce grazie a un commovente video della BBC dove l’uomo ottantenne incontra a sorpresa i “suoi” bambini ormai adulti, Fabiano Massimi ci accompagna in un viaggio fra storia e finzione, rischiarando una delle pagine più oscure del nostro passato con la luce della speranza.

PROLOGO

Protettorato di Boemia
13 maggio 1939

Il treno aveva preso velocità appena fuori Praga, oltre i tetti e le guglie della Città Vecchia, oltre i quartieri bassi della prima periferia e le fabbriche che si assiepavano lungo il fiume, e adesso correva deciso attraverso la campagna boema, superando boschi, prati, piccoli borghi appoggiati ai piedi delle colline e fattorie isolate con i recinti costellati di animali. Dai finestrini dello scompartimento entrava un flusso ininterrotto di meraviglie che i bambini osservavano rapiti, le fronti appoggiate contro il vetro, le dita aperte come petali.

Per molti di loro era il primo viaggio senza la famiglia, e tutto era così nuovo che non pensavano già più alla vita che si stavano lasciando alle spalle, alle madri e ai padri che li avevano accompagnati in stazione fingendo serenità per affidarli a degli sconosciuti, ai fratelli e agli amici che non avevano trovato posto sul convoglio e sarebbero partiti, forse, con i prossimi. Sulle guance dei più piccoli, le lacrime della partenza avevano disegnato tracce scure, saline, come ombre indelebili, ma i loro occhi splendevano osservando il mondo che si apriva oltre il vagone, e il rombo delle ruote sui binari li riempiva di entusiasmo. Entro la fine della giornata avrebbero visto il mare – il mare! – e si sarebbero imbarcati per l’Inghilterra, un luogo remoto e inimmaginabile che fin lì era esistito soltanto nei libri. Il tempo della nostalgia sarebbe venuto più tardi. Adesso era il momento dell’eccitazione.

Petra Linhart, invece, era preoccupata. A ventitré anni, era una delle passeggere più anziane sul treno, incaricata insieme a cinque colleghe di badare alle necessità dei bambini e assicurarsi che tutto filasse liscio nelle diciotto ore che separavano Praga da Londra. Sotto la sua responsabilità ricadeva non solo il vagone in cui viaggiava – il numero cinque, trentasei passeggeri fra i quattro e gli undici anni, per metà maschi e per metà femmine, quasi tutti ebrei – ma l’intera spedizione, che aveva aiutato a organizzare. Dalla scelta dei nominativi alla ricerca dei visti, dal controllo dell’unico bagaglio concesso a ogni bambino alla preparazione dei pasti per il viaggio, dall’accoglienza delle famiglie sotto le arcate della stazione Wilson alla gestione dei rapporti con le autorità naziste lungo il percorso, tutto il peso di quel quarto convoglio era sulle sue spalle. Sarebbe riuscita a reggere la tensione fino alla fine? E se qualcosa fosse andato storto, avrebbe avuto la prontezza necessaria per reagire? Lei non era Doreen Warriner, con la sua calma soprannaturale. Non era Trevor Chadwick, capace di ridere in faccia alle SS. Nonostante tutto quello che aveva passato, si sentiva anche lei una bambina. Inerme, incosciente, impreparata.

Quando il treno iniziò a decelerare in vista del confine con la Polonia – una tappa prevista, forse la più delicata – Petra scattò in piedi.

«Bambini, sedetevi composti e fate silenzio» disse ai cinque che condividevano lo scompartimento con lei. Poi uscì nel corridoio e lo percorse per intero, soffermandosi sulla soglia di tutti gli scompartimenti per ripetere le stesse istruzioni: «Seduti composti. Su! E in silenzio fino a quando non ve lo dico io».

Il treno rallentò e rallentò. Petra guardò fuori da uno dei finestrini più grandi, che la specchiava in trasparenza, e vide un lungo reticolato che tagliava in due una campagna identica da entrambi i lati, una costruzione bassa con il tetto spiovente e una specie di porticato, una banchina in cemento a mezzo metro dai binari. La giovane si aspettava che qualcuno li attendesse al confine per il controllo dei visti, ma non c’era nessuno, e anche la stazione pareva deserta.

Quando il treno si arrestò, lanciando un fischio tra gli sbuffi di vapore dei freni, Petra aprì il finestrino e sporse la testa. Non si era sbagliata: da quel lato non c’era niente. Anche il piccolo spiazzo alle spalle dell’edificio, da cui partiva una pista asfaltata che si perdeva verso sud, era privo di automobili, motociclette o qualsiasi altro segno di presenza umana. Com’era possibile?

Richiuse il finestrino e rimase un attimo a riflettere. Lasciare sguarnito il confine era impensabile. Cecoslovacchia e Polonia non erano mai state nemiche, ma da quando Hitler aveva invaso la Boemia e issato la svastica sul Castello di Praga la tensione tra i due paesi era salita. In molti temevano che la politica di annessione dei tedeschi, affamati di Lebensraum, lo spazio vitale per il popolo ariano, fosse soltanto agli inizi, e che dopo l’Austria e la Cecoslovacchia sarebbe venuta la Polonia. Quindi, dov’erano gli…

Lo sportello del vagone si aprì di scatto, con un clangore metallico che la fece sobbalzare. Non era lo sportello che guardava la stazione, ma quello opposto, e Petra si voltò appena in tempo per vedere l’uomo che montava sul treno. Era un tedesco in divisa grigia. Truppe regolari, non una SS, ma il suo sguardo era lo stesso che la giovane aveva già visto in diverse occasioni negli ultimi mesi, freddo e annoiato. Il mitra che teneva a tracolla la atterrì.

«Cosa…?» iniziò lei.

«Cerchiamo una bambina» disse il tedesco, l’accento duro del Nord che trasformava la frase in uno schiaffo. «Sui dieci anni. Occhi chiari. In questo vagone ce ne sono?»

Petra non rispose.

Il soldato avanzò nel corridoio. Era alto una testa più di lei, e il mitra gli dondolava dalla spalla, puntato verso il primo degli scompartimenti. «Le vogliamo tutte giù dal treno, subito.»

Petra ancora non capiva. «Cosa avete intenzione di…?»

In quell’istante li raggiunse un secondo soldato, più basso, più esile, con degli occhialini rotondi da contabile. Senza dire nulla si infilò tra i due e li superò. Entrò nel primo scompartimento, si soffermò qualche istante a studiare i sei bambini presenti, poi uscì per passare al secondo scompartimento.

L’altro soldato lo imitò con il terzo, lasciandosi alle spalle Petra, paralizzata dal terrore.

Nel quarto scompartimento il soldato con gli occhialini trovò Elsie Janeček, undici anni, occhi verdi. Con una dolcezza inattesa le chiese di alzarsi e seguirlo, ed Elsie, una bambina intelligente, obbedì senza fare storie. Il soldato con gli occhialini la affidò a quello con il mitra. «Portala da lui» gli disse, e l’altro annuì.

Petra cercò di opporsi – «Cosa volete fare? È solo una bambina!» – ma fu spinta brutalmente, la schiena sbattuta contro il finestrino, mentre la piccola veniva condotta lungo il corridoio e giù dal treno.

Il soldato con gli occhialini continuò la ricerca negli ultimi scompartimenti e trovò un’altra passeggera che corrispondeva ai requisiti: Annika Mahler, nove anni e mezzo, occhi grigio chiaro. Anche a lei chiese di scendere dal treno, non senza gentilezza, e la accompagnò di persona, chinando persino il capo a mo’ di saluto quando passò davanti a Petra.

Come ebbero lasciato il vagone, dal terzo scompartimento si levò un pianto desolato – doveva essere Tomaš, il più piccolo del gruppo – che ridestò Petra dal suo stordimento. A passi decisi ripercorse il corridoio, raggiunse lo sportello aperto e si sporse per vedere cosa stesse succedendo all’esterno. Era decisa a ripetere le sue proteste, a esigere spiegazioni, ma ciò che si trovò di fronte le tolse le parole.

Immobili al centro di un campo, a una decina di metri dalla fiancata del treno, tredici bambine inginocchiate guardavano il reticolato del confine, montate di guardia da due soldati armati mentre l’uomo con gli occhialini passeggiava avanti e indietro alle loro spalle. Aspettavano qualcosa, ma cosa?

Passò un tempo interminabile, scandito soltanto dai passi del soldato con gli occhialini, prima che il silenzio del campo fosse invaso da un rombo sottile e lontano che si ispessì e avvicinò rapidamente. Una lunga Mercedes dai vetri oscurati arrivò da un sentiero di terra battuta che correva parallelo ai binari, sfilò davanti agli occhi di Petra e andò a fermarsi a un metro dal reticolato.

Il soldato con gli occhialini raggiunse a passi veloci la portiera, la aprì, fece il saluto con la mano tesa.

Petra aguzzò la vista, ma non ce n’era bisogno: dall’auto scese un uomo imponente, alto e largo come una porta, la testa rasata che luccicava al sole e una benda nera sull’occhio sinistro.

«Trovate?» chiese con voce profonda, udibile anche da quella distanza.

Il soldato con gli occhialini allargò un braccio a mostrare la fila di bambine inginocchiate nel campo.

Il gigante annuì, e dopo aver rivolto uno sguardo distratto al treno si avviò verso la schiera. Arrivato davanti alla prima bambina la fece alzare in piedi. La guardò per un istante, poi scosse la testa, passò alla seconda. Questa la studiò più a lungo, avvicinando il volto a quello di lei, prendendole il mento tra le dita e usandolo per voltarla da un lato e dall’altro, ma alla fine scosse di nuovo la testa. La terza bambina non la degnò d’una seconda occhiata. La quarta sembrò farlo infuriare, e Petra capì perché: Agota non aveva ancora otto anni.

Il gigante passò oltre la quinta e la sesta. Alla settima chiese qualcosa, e la piccola, spaventata e tremante, girò su se stessa due volte prima di essere scartata. Ora non sembrava più un’esecuzione capitale, ma un’audizione. Una selezione.

L’ottava bambina era di nuovo fuori età, la nona non tenne l’attenzione del gigante più di qualche istante. La decima, invece, lo fece illuminare. Le chiese di alzarsi in piedi, la scrutò da vicino, le girò intorno. Forse era lei. Forse era lei.

Il gigante le chiuse la grossa mano intorno al collo e strinse – Petra si sporse, allarmata – ma qualcosa nella carne della bambina, nella sua resistenza, o forse nella sua mancanza di resistenza, non lo convinse. No, non era lei.

Deluso passò all’undicesima, poi alla dodicesima, poi all’ultima, e nulla. La fila era terminata. La bambina che cercava non era fra quelle tredici.

Fece un cenno stizzito con il capo, e subito i due soldati armati gridarono alle bambine di rialzarsi, le spinsero verso il treno.

«Mi dispiace» disse il soldato con gli occhialini, chinando la testa.

Il gigante grugnì. «Sicuro di aver cercato bene?»

«Ho percorso io stesso il treno da cima a fondo. Non ce ne sono altre che corrispondano alla descrizione. Ma se pensa…»

«Va bene» tagliò corto l’altro. «Riproveremo con il prossimo.»

«E questo?»

«Questo cosa?»

«Lo lasciamo ripartire?»

Il gigante tacque un istante. Tornò a guardare il convoglio e per la prima volta si soffermò su Petra, cui sorrise con malizia. «Possono portare via tutti gli ebrei che vogliono» disse, alzando la voce per essere certo che la donna sul predellino lo udisse. «Possono organizzare dieci treni al giorno. Meno ne restano e meglio è. Ma lei no» aggiunse tetro. «Con lei ho un conto in sospeso.»

Disse così, poi risalì sulla Mercedes, che era rimasta tutto il tempo con il motore acceso, e non appena la portiera fu chiusa diede ordine di ripartire.

Dieci minuti più tardi, tutti i passeggeri erano di nuovo negli scompartimenti e il treno correva come una furia verso il mare. Lo strano incidente sul confine era già dimenticato, tranne che per le tredici bambine, che comunque ci avevano capito ben poco. Uno scambio di persona. Un pericolo scampato.

Quanto a Petra – quanto a me –, non avrei più dimenticato l’immagine del gigante che le passava in rassegna a una a una, facendole girare su se stesse, stringendole per il collo. Quella mano l’avrei sentita a lungo anche sulla mia pelle, rovente come un ferro sull’incudine, salda come una morsa d’acciaio.

Fu lì, quel giorno, sul confine polacco, che finalmente compresi.

PARTE PRIMA

LA BAMBINA DEL SALE

Novembre 1938

«Girava voce che la Gran Bretagna fosse disposta a far entrare nel paese diverse migliaia di bambini, ma ottenere informazioni era difficile. Mia madre e io (mio padre era in un campo di concentramento) decidemmo che avrei lasciato il villaggio per raggiungere il Consolato britannico più vicino, in modo da scoprire qualcosa in più. Quel viaggio fu una delusione. Sì, un’operazione del genere esisteva, ma non aveva niente a che vedere con il governo britannico, e al Consolato non conoscevano i dettagli. Mi consigliarono soltanto di scrivere a un Comitato di cui mi diedero nome e indirizzo. Tornai a casa profondamente abbattuto. Avevo tredici anni.»

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La chiamavano la Bambina del Sale, perché tutte le sere, quando il buio allagava la città, potevi incontrarla all’imbocco di un vicolo – mai due volte lo stesso, mai in piena luce – che vendeva ai passanti dei sacchetti in tela azzurra con dentro una manciata di sale, introvabile da tempo. Nessuno, a Praga, sapeva il suo nome, né da dove venisse. Nessuno, soprattutto, aveva idea di come riuscisse a procurarsi quella preziosa mercanzia. La Bambina compariva dopo il tramonto e scompariva prima dell’alba, senza dare confidenza ad anima viva. Una moneta, un sacchetto. Tutto qui.

In molti, dopo averla cercata in lungo e in largo nei quartieri a sud del fiume ed essere tornati dalle mogli a testa bassa e mani vuote, finivano per convincersi che fosse solo una leggenda: nel Ghetto c’era il Golem, e nella Città Vecchia lei. In tempi di durezze, il popolo si rifugia nelle storie.

Ma la Bambina del Sale non era una leggenda, è esistita veramente, e io lo posso testimoniare, perché la conobbi in carne e ossa nel momento più importante delle nostre vite.

La prima volta che ne sentii parlare fu nel novembre del 1938. Avevo compiuto ventitré anni da poco, lo stesso giorno in cui Hitler, con il benestare delle altre nazioni, aveva annesso al Reich un pezzo di Cecoslovacchia, compreso il villaggio in cui vivevo. Mio marito Pavel, un brav’uomo con il vizio della politica, era morto subito dopo in uno scontro fra nazisti e nazionalisti, e lo shock della sua uccisione si era rivelato fatale anche per il bambino che portavo in grembo. Il nostro primo figlio. Lo persi che ero incinta di cinque mesi, e ora non riesco nemmeno a descrivere la rabbia e la furia che presero il suo posto dentro di me. Credevo che col tempo la lama si sarebbe smussata, e invece no. Se non sto attenta, se sbaglio un movimento, ancora oggi si sposta e riprende a tagliare.

Sola, disperata, affamata di giustizia o quantomeno di rivalsa, dopo un periodo di stordimento abbandonai il poco che mi restava al villaggio e andai a vivere nella grande città, dove nulla mi avrebbe ricordato il passato. Il mio cuore a quel punto si era seccato e indurito come un sasso sotto il sole, perciò decisi di cambiare nome e diventare Petra,

foto presa dal web

Fabiano Massimi è nato a Modena nel 1977. Laureato in Filosofia tra Bologna e Manchester, dopo aver lavorato come traduttore e consulente per alcune fra le maggiori case editrici italiane, oggi dirige le biblioteche di Formigine e insegna scrittura nel programma universitario della Scuola Holden. Per Longanesi ha pubblicato L’angelo di Monaco (2020) e I demoni di Berlino (2021).

Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la curatrice del blog letterario "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga.