“La donna da mangiare” di Margaret Atwood edito da Ponte alle Grazie in tutte le librerie e on-line. Estratto

TRAMA

Marian è una ragazza ben educata e istruita, vive negli anni Sessanta a Toronto, ed è fidanzata con Peter, un promettente avvocato. Lavora in un’azienda che si occupa di ricerche di mercato, dove i posti di responsabilità sono tutti ricoperti da uomini. Ambiziosa, ma anche desiderosa di essere normale, Marian decide di assecondare le richieste del suo fidanzato e della società e attende fiduciosa il matrimonio, che pensa le conferirà un ruolo. La svolta inattesa giunge quando incontra Duncan, un dottorando in Letteratura inglese che ignora le regole ed è profondamente determinato, a differenza di Marian, a esprimere la propria individualità. La ribellione parte dal corpo della ragazza, che inizia a rifiutare il cibo: prima la carne, poi le uova, infine le verdure, finché la sua personalità, tenuta così a lungo a freno, esplode in una serie di comportamenti inappropriati e sovversivi, modificando per sempre la sua rassicurante, stabile routine. Spregiudicato, esilarante e acuto, La donna da mangiare è il primo romanzo di Margaret Atwood e contiene già tutti i temi delle sue opere successive, presentandola come un’osservatrice consumata delle ironie e delle assurdità generate dal conformismo. Questo primo libro dell’autrice diventerà anche una serie tv, la cui uscita è prevista per il 2021.

ESTRATTO

per J.

«La superficie su cui lavorate (preferibilmente marmo),
gli utensili, gli ingredienti e le vostre dita devono essere freddi
per tutta la durata dell’operazione…» 
(Ricetta della pasta sfoglia in I.S. Rombauer e M.R. Becker, The Joy of Cooking).

PARTE PRIMA

1

So che venerdì, quando mi sono alzata, stavo bene; ancora più serafica del solito, semmai. Sono andata in cucina per fare colazione e ci ho trovato Ainsley, con il muso lungo: ha detto che la sera prima era stata a una festa ma non si era divertita. Ha giurato che c’erano solo studenti di odontoiatria, e questo l’ha depressa a tal punto che per consolarsi si è ubriacata.

«Non hai idea di quanto sia noioso» ha detto, «sciropparsi venti discorsi sulle cavità orali della gente. L’unica reazione l’ho provocata descrivendo un ascesso che mi è venuto una volta. Erano tutti lì che sbavavano. Di solito gli uomini guardano qualcos’altro, non i tuoi denti, Dio santo».

Aveva i postumi della sbornia, e la cosa mi ha risollevata. Sentendomi molto in forma le ho versato un succo di pomodoro e le ho preparato in fretta un’alka-seltzer, mentre ascoltavo le sue lamentele e rispondevo con qualche mugolio condiscendente.

«Come se non bastasse quel che devo sorbirmi al lavoro» ha continuato. Ainsley, di mestiere, collauda spazzolini elettrici difettosi in una ditta che li produce: un lavoretto temporaneo. In realtà spera di entrare in una galleria d’arte, di quelle piccole, anche se pagano poco, perché vuole conoscere gli artisti. L’anno scorso, mi ha raccontato, la incuriosivano gli attori, ma poi ne ha conosciuto qualcuno per davvero. «È una fissazione assoluta. Presumo che vadano tutti in giro con quegli specchietti ricurvi nella tasca del cappotto, per darsi una sbirciata in bocca ogni volta che vanno al cesso e assicurarsi di non avere carie». Con fare riflessivo si è passata una mano fra i capelli, che sono lunghi e rossi, o per meglio dire ramati. «Ti immagini baciarne uno? Prima ti direbbe ‘Apra bene’. Sono assolutamente monocordi».

«Dev’essere stato tremendo» ho detto riempiendole di nuovo il bicchiere. «Non potevi cambiare argomento?»

Ainsley ha inarcato le sopracciglia quasi inesistenti, che quel mattino non erano ancora state disegnate. «Certo che no» ha replicato. «Mi sono finta molto interessata. E ovviamente non gli ho lasciato capire che lavoro faccio: certi professionisti si seccano subito, se sai qualcosa della loro materia. Hai presente, come Peter».

Ainsley tende a fare frecciatine su Peter, specie quando non è in forma. Ma sono stata magnanima e ho lasciato correre. «Ti conviene mangiare qualcosa prima di andare al lavoro» le ho consigliato. «Va meglio, con qualcosa nello stomaco».

«Oddio» ha detto Ainsley. «Non posso farcela. Un’altra giornata piena di bocche e macchinari. È un mese che non mi capita niente di interessante, da quando quella tizia ha rimandato indietro lo spazzolino perché si staccavano le setole. E abbiamo scoperto che usava l’ajax».

Ero così presa a darmi da fare per Ainsley, compiacendomi allo stesso tempo della mia superiorità morale, che non mi sono accorta di quanto fosse tardi finché non me l’ha ricordato lei. Alla fabbrica di spazzolini elettrici non importa quando ti presenti, ma nella mia azienda la puntualità è un valore. Ho dovuto rinunciare alle uova e buttar giù un bicchiere di latte e una tazza di cereali freddi, sapendo che avrei avuto fame ben prima di pranzo. Ho mangiato un pezzo di pane mentre Ainsley mi osservava inun silenzio nauseato, ho preso al volo la borsa e ho lasciato a lei l’incombenza di chiudere la porta dell’appartamento.

Abitiamo all’ultimo piano di una grande casa in una delle vie più antiche e signorili, in quelli che immagino fossero gli alloggi della servitù. Ciò significa che due rampe di scale ci separano dalla porta di ingresso: la prima ampia e moquettata, ma con le bacchette che si staccano, la seconda stretta e scivolosa. Con i tacchi alti che devo mettermi per andare in ufficio sono costretta a scendere di sghimbescio, reggendomi al corrimano. Quella mattina sono riuscita a oltrepassare sana e salva la fila di scaldaletto di ottone che sono appesi al muro nella nostra rampa, ho evitato di impigliarmi in uno dei tanti denti del filatoio che adorna il pianerottolo, e ho scansato agilmente la logora bandiera reggimentale sottovetro e la schiera di antenati nelle cornici ovali che difendono il primo tratto di scale. Con sollievo ho visto che non c’era nessuno nell’ingresso. Al pian terreno ho camminato svelta fino alla porta, scartando la pianta di plastica da una parte e il tavolo con il centrino écru e il vassoio di ottone rotondo dall’altra. Oltre la tenda di velluto a destra sentivo la bambina che eseguiva al pianoforte la sua penitenza del mattino. Mi credevo al sicuro.

Ma prima che potessi arrivarci, la porta ha silenziosamente ruotato sui cardini e ho capito di essere in trappola. Era la signora di sotto. Indossava un paio di guanti da giardinaggio immacolati e reggeva una paletta. Mi sono chiesta chi avesse appena seppellito.

«Buongiorno, signorina MacAlpin» ha detto.

«Buongiorno». Ho annuito e sorriso. Non riesco mai a ricordarmi il suo nome, e nemmeno Ainsley lo ricorda; suppongo che si tratti di un blocco mentale, come si suol dire. Ho guardato verso la strada, alle sue spalle, ma lei non si è scostata dalla soglia.

«Ieri sera sono uscita» ha detto. «Per una riunione». Ha un modo indiretto di affrontare le questioni. Ho spostato il peso da un piede all’altro e ho sorriso di nuovo, per farle capire che andavo di fretta. «Mi dice la bambina che c’è stato un altro incendio».

«Be’, non è stato proprio un incendio» ho replicato. Con la scusa che era stata nominata, la bambina aveva smesso di suonare e adesso mi fissava dalla tenda di velluto del salotto. È una quindicenne grande e grossa, frequenta una scuola femminile privata ed esclusiva e deve indossare una tunica verde e calzettoni in tinta. Sono sicura che è abbastanza normale, ma c’è qualcosa di stupido in quel nastro per capelli appollaiato in cima al suo corpo gigantesco.

La signora di sotto si è levata un guanto per darsi una sistemata allo chignon. «Ah» ha detto amabilmente. «La bambina dice che ha visto un mucchio di fumo».

«Era tutto sotto controllo» ho risposto, stavolta senza sorridere. «Era solo qualche costoletta di maiale».

«Ah, capisco» ha continuato lei. «Bene, mi auguro che vorrà riferire alla signorina Tewce di non fare tanto fumo in futuro. Ho paura che spaventi la bambina». Considera Ainsley l’unica responsabile del fumo, e sembra pensare che lo butti fuori dalle narici come un drago. Però non blocca mai Ainsley sulla porta di casa, blocca me. Deve aver stabilito che Ainsley non è un tipo rispettabile, a differenza della sottoscritta. Può darsi che sia per come ci vestiamo: Ainsley dice che scelgo gli abiti come se fossero un camuffamento o una colorazione protettiva, ma io non ci vedo niente di sbagliato. Lei, invece, preferisce il rosa shocking.

Nemmeno a dirlo ho perso l’autobus: attraversando il prato l’ho visto scomparire oltre il ponte in una nuvola di smog. Mentre stavo sotto l’albero – lungo la nostra strada ce ne sono molti, tutti enormi – ad aspettare il successivo, Ainsley è uscita di casa e mi ha raggiunta. È una vera trasformista: io non potrei mai rimettermi in sesto così in fretta. Aveva un’aria molto più salubre – forse per effetto del trucco, ma con Ainsley non si può mai dire – e si era raccolta i capelli rossi sulla testa, come fa sempre quando va a lavorare. Il resto del tempo li tiene sciolti e scompigliati. Indossava il suo abito sbracciato rosa e arancione, che secondo me le va stretto sui fianchi. La giornata si annunciava calda e umida, e già mi sentivo addosso l’atmosfera intima di un sacchetto di plastica. Forse anch’io avrei dovuto mettermi un abito sbracciato.

«Mi ha beccata in anticamera» ho detto. «Per parlarmi del fumo».

«Quella vecchia stronza» ha commentato lei. «Non può farsi i fatti suoi?» Ainsley non viene da una piccola città, come me, e non è abituata ai ficcanaso; d’altro canto, nemmeno la spaventano. Non ha idea delle conseguenze.

«Non è mica tanto vecchia» ho detto dando un’occhiata alle tende tirate della casa, pur sapendo che non poteva sentirci. «E poi non è stata lei ad accorgersi del fuoco, ma la bambina. Lei era a una riunione».

«Forse dell’Unione delle Donne Cristiane per l’Astinenza» ha detto Ainsley. «O delle Figlie dell’Impero. Scommetto che non era affatto a una riunione ma stava nascosta dietro quella dannata tenda di velluto, per farci credere che era uscita e spingerci a fare qualcosa perdavvero. Quello che vorrebbe è un’orgia».

«Ainsley, tu sei paranoica» ho obiettato. È convinta che, quando non ci siamo, la signora di sotto venga su da noi a controllare e si guardi attorno muta e inorridita; sospetta addirittura che ci controlli la posta, pur senza arrivare ad aprirla. È un dato di fatto che ogni tanto apre la porta ai nostri ospiti ancora prima che suonino il campanello. Deve pensare che è suo diritto premunirsi: quando stavamo prendendo in considerazione l’appartamento lei aveva chiarito, con discrete allusioni ai precedenti inquilini, che per nessuna ragione doveva esser messa a rischio l’innocenza della bambina, e che due signorine erano senz’altro più affidabili di due giovanotti.

«Cerco solo di fare del mio meglio» aveva aggiunto sospirando e scuotendo la testa. Lasciava intendere che il marito, il cui ritratto a olio era appeso sopra il pianoforte, le aveva lasciato meno soldi del dovuto. «Naturalmente vi rendete conto che il vostro appartamento non ha un ingresso separato?» Metteva in luce i difetti, più che i vantaggi, quasi non ci tenesse ad affittarlo. Io avevo risposto che era chiaro, Ainsley non aveva aperto bocca. L’accordo era che avrei parlato io e lei sarebbe rimasta lì con l’aria da santerellina che le viene benissimo, quando occorre. Ha un faccino roseo e paffuto da bebè, il naso a patata e due occhioni azzurri che sa rendere tondi come palline da ping-pong. Per l’occasione ero persino riuscita a farle mettere i guanti.

La signora di sotto aveva scosso di nuovo la testa. «Se non fosse per la bambina» aveva detto, «venderei la casa. Ma ci tengo che cresca in un bel quartiere».

Al mio assenso, aveva precisato che purtroppo il quartiere non era più come una volta: mantenere le grandi case ormai costava troppo e i proprietari le vendevano agli immigranti (qui aveva piegato delicatamente verso il basso gli angoli della bocca), che le suddividevano per affittare le camere. «Ma alla nostra strada non sono ancora arrivati» aveva aggiunto. «E alla bambina posso dire esattamente in quali vie passare e in quali no». Avevo risposto che mi pareva una cosa saggia. Prima di firmare il contratto non mi ero immaginata le difficoltà che avrei avuto con lei. Per di più l’affitto era basso e la casa vicina alla fermata dell’autobus. Per una città come questa, era un affare.

«D’altronde» ho continuato con Ainsley, «è loro diritto preoccuparsi del fumo. E se la casa prendesse fuoco? E comunque le altre cose non le ha mai nominate».

«Quali altre cose? Non ne abbiamo mai fatte, di altre cose».

«Be’…» ho obiettato. Sospettavo che la signora di sotto si fosse accorta di tutti gli oggetti a forma di bottiglia che portavamo su, malgrado i miei sforzi per mimetizzarli fra le provviste. In realtà non ci ha mai esplicitamente vietato niente – sarebbe una violazione troppo grossolana della sua legge sulla nuance – ma il risultato è che qualunque cosa mi pare proibita.

«Di notte, quando c’è silenzio» ha detto Ainsley mentre il bus ripartiva, «la sento che scava nel legno della casa».

Poi non abbiamo più parlato, perché non mi piace fare conversazione sugli autobus: piuttosto guardo le pubblicità. E comunque io e Ainsley non abbiamo molto in comune, a parte la signora di sotto. Ci siamo conosciute poco prima di trasferirci qui: era amica di un’amica, e proprio in quel momento cercava qualcuno con cui dividere l’affitto, come capita in questi casi. Forse avrei dovuto farmi aiutare da un computer, ma tutto sommato non posso lamentarmi, nel complesso mi è andata bene. Ce la caviamo grazie a un simbiotico adeguamento delle nostre rispettive abitudini, e un minimo di quella pallida ostilità che spesso s’instaura fra donne. Il nostro appartamento non è mai veramente pulito, ma sulla base di un tacito accordo evitiamo che si accumuli più di una fine efflorescenza di polvere: se io lavo i piatti della colazione, Ainsley lava quelli della cena; se io scopo il pavimento del soggiorno, Ainsley pulisce il tavolo in cucina. Ci barcameniamo, ma sappiamo entrambe che se perdessimo il ritmo crollerebbe tutto. Naturalmente ognuna di noi ha la sua stanza, e quello che succede là dentro è strettamente personale. Ad esempio, in quella di Ainsley il pavimento è ricoperto da un’insidiosa palude di vestiti usati, con alcuni portaceneri sparpagliati qua e là per facilitare il passaggio; ma per quanto io tema gli incendi non gliene ho mai parlato. Grazie a questo vicendevole trattenersi – do per scontato che sia vicendevole, perché anch’io di sicuro faccio cose che non le piacciono – riusciamo a preservare un equilibrio ragionevolmente privo di frizioni.

Alla stazione della metropolitana ho comprato un pacchetto di noccioline. Cominciavo già ad avere fame. Le ho offerte ad Ainsley ma lei non le ha volute, per cui le ho mangiate tutte mentre arrivavamo in centro.

Siamo scese alla penultima fermata verso sud e abbiamo fatto insieme un isolato a piedi, dato che i nostri uffici sono nella stessa zona…

L’ AUTRICE

foto presa dal web

Margaret Atwood è una delle voci più importanti della narrativa e della poesia canadese. Laureata a Harvard, nella sua lunga carriera ha pubblicato romanzi, racconti, raccolte di poesia, libri per bambini e saggi. Più volte candidata al Premio Nobel per la letteratura, ha vinto il Booker Prize nel 2000 per L’assassino cieco. Fra i suoi titoli più importanti ricordiamo: L’altra Grace (2008), Il racconto dell’Ancella (2017), Il canto di Penelope (2018), I testamenti (2019, vincitore del Booker Prize), Tornare a galla (2020) e la raccolta di poesie Brevi scene di lupi (2020), tutti usciti per Ponte alle Grazie. Vive a Toronto, in Canada.

Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la curatrice del blog letterario "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga.