Prossima uscita: “La ragazza con la stella blu”

In tutte le librerie e sugli store on-line dal 6 settembre 2021

Sadie Gault ha diciotto anni e vive insieme ai genitori nel ghetto di Cracovia. Quando i nazisti rastrellano la città, Sadie e la madre, incinta, sono costrette a cercare rifugio nelle fogne. Ha così inizio per loro un lungo periodo di terrore, trascorso al buio nel sottosuolo. Un giorno Sadie alza lo sguardo e, attraverso una grata, vede una ragazza della sua età che compra dei fiori. Ella Stepanek è un’agiata giovane polacca che ha conservato molti privilegi perché la sua matrigna ha ottenuto la benevolenza degli occupanti tedeschi, pur guadagnando per sé e per la famiglia il disprezzo degli amici di sempre. Sola e in pena per il fidanzato partito per la guerra, Ella vaga per Cracovia senza sosta. Un giorno, al mercato, intravede qualcosa che si muove sotto una grata del marciapiede. Quando si accorge che lì si nasconde una ragazza, la sua vita cambia per sempre. Ella decide di aiutare Sadie e la loro diventa presto un’amicizia profonda e intensa, ma la guerra porterà i loro destini in rotta di collisione. Eventi terribili metteranno alla prova tutto ciò in cui credono, ponendole di fronte a delle sfide impossibili. Una storia commovente sulla forza di volontà di sopravvivere nelle condizioni più difficili.

Al mio shtetl… Ci rivedremo

Prologo

Cracovia, Polonia

Giugno 2016

La donna che ho di fronte non è quella che mi aspettavo.

Dieci minuti fa ero nella mia camera d’hotel, intenta a rimuovere qualche pelucco daipolsini della camicetta azzurra e a sistemarmi un orecchino di perle. Guardandomi allo specchio ho avuto un senso di disgusto. Sono diventata lo stereotipo della settantenne: i capelli grigi tagliati corti, il tailleur che ogni anno mi va più stretto sui fianchi.

Ho accarezzato il bouquet di fiori freschi sul comodino, dei boccioli rosso acceso avvolti in una carta marroncina. Poi mi sono avvicinata alla finestra. L’Hotel Wentzl, una villa del sedicesimo secolo, si trova all’angolo sudovest della Rynek, l’immensa piazza di Cracovia. L’ho scelto di proposito e mi sono assicurata che la stanza avesse la giusta vista. La piazza, che ricorda la forma di un colino per via dell’angolo concavo a sud, a quest’ora della sera brulica di vita. I turisti si accalcano tra le chiese e le bancarelle di souvenir del Sukiennice, il monumentale palazzo del Mercato dei tessuti che con la sua forma oblunga taglia la piazza a metà. Gruppi di amici prendono un aperitivo fuori dai pub dopo il lavoro, mentre i pendolari si precipitano a casa con le loro buste, gli occhi rivolti verso le nuvole che si addensano a sud, sopra il castello del Wavel.

Sono già stata altre due volte a Cracovia: dopo la caduta del comunismo e dieci anni più tardi, quando avevo iniziato le ricerche in modo serio. Le perle nascoste della città mi hanno conquistato dal primo istante. Anche se eclissata da Praga e Berlino, che attirano i turisti come calamite, la Città Vecchia di Cracovia, con le sue cattedrali perfettamente conservate e le case in pietra lavorata riportate al loro antico splendore, è una delle più eleganti d’Europa.

Ogni volta che sono venuta l’ho trovata cambiata. Ora è tutto più luminoso, più nuovo – tutto “migliore” agli occhi dei residenti; gente che ha dovuto affrontare lunghi anni di sacrifici e di stallo sia economico che sociale. Le case, un tempo grigie, sono state dipinte di giallo e di blu in toni sgargianti. Così i vecchi vicoli sembrano la versione cinematografica di sé stessi.

Gli abitanti della città poi sono una contraddizione ambulante: giovani vestiti alla moda e perennemente impegnati in conversazioni telefoniche si fanno strada tra gente di montagna, venuta in città a vendere maglioni di lana e formaggio di capra su teli stesi a terra, e qualchebabcia che chiede l’elemosina sul marciapiede avvolta nella sua sciarpa. Sotto la vetrina di un negozio che pubblicizza piani tariffari per internet e WiFi, i piccioni beccano i duri ciottoli della piazza come fanno da secoli. Sotto la patina scintillante della modernità, l’architettura barocca della Città Vecchia risplende con aria di sfida, un pezzo di storia che non sarà mai dimenticato.

Ma non è stata la storia a portarmi in città… Perlomeno, non quella storia.

Quando la tromba nella torre della basilica di santa Maria ha suonato l’hejnał per segnalare lo scoccare dell’ora, ho puntato gli occhi all’angolo nordovest della piazza, aspettando la donna che appariva ogni giorno alle cinque in punto. Non vedendola arrivare, ho avuto paura che non si sarebbe presentata: così il mio viaggio dall’altra parte del mondo sarebbe stato vano. Il primo giorno ho voluto assicurarmi che fosse la persona giusta. Il secondo, avevo intenzione di parlarle ma poi ho perso il coraggio. Domani tornerò in America. È la mia ultima occasione.

Alla fine la donna è sbucata dalla farmacia all’angolo con un ombrello stretto in modo elegante sotto il braccio. Ha attraversato la piazza a una velocità sorprendente per una signora di circa novant’anni. Non è curva: ha la schiena dritta, ed è alta. Ha i capelli bianchi raccolti in uno chignon, ma alcuni ciuffi le svolazzano selvaggi attorno al viso. Indossa una gonna dai colori vivaci con un motivo esuberante, in netto contrasto con i miei vestiti seriosi. Mentre cammina, il tessuto luminoso sembra danzarle attorno alle caviglie in modo naturale, e io riesco quasi a sentirne il fruscio.

Poi ha fatto qualcosa di familiare: anche due giorni fa l’avevo vista avvicinarsi al Café Noworolski e chiedere il tavolo più lontano dalla piazza, quello che il profondo ingresso ad arco dell’edificio protegge dai rumori e dalla folla. L’ultima volta che sono stata a Cracovia ero ancora in cerca. Adesso sapevo chi era e dove trovarla. L’unica cosa che devo fare è prendere coraggio e avvicinarmi.

La donna si è seduta al solito tavolo all’angolo e ha aperto un giornale. Non poteva immaginare che stessimo per incontrarci… e nemmeno che fossi viva.

A distanza si è sentito il rombo di un tuono. Poi hanno iniziato a cadere le prime gocce, a schiantarsi sui ciottoli come lacrime scure. Devo sbrigarmi. Se la caffetteria chiudesse e la donna se ne andasse, non avrei più nessuna occasione di fare quello per cui sono venuta.

Allora mi sono tornate in mente le parole dei miei figli: era troppo pericoloso viaggiare da sola alla mia età, non c’era motivo di andare dall’altra parte del mondo, non c’era più niente da sapere. Dovrei tornare a casa. Non farebbe alcuna differenza rimanere.

Tranne che per me… e per lei. Ho sentito la sua voce dentro di me, così come l’ho sempre immaginata, e mi ha ricordato il motivo per il quale sono venuta fin qui.

Mi sono fatta forza, ho afferrato i fiori e sono uscita dalla stanza.

Una volta fuori, ho attraversato la piazza. Poi mi sono fermata. Sono stata invasa da un senso di incertezza. Perché ho fatto tutta questa strada? Cosa sto cercando? Ho proseguito testardamente senza badare ai goccioloni che si riversavano su di me bagnandomi dalla testaai piedi. Ho raggiunto la caffetteria e mi sono fatta strada tra tavoli di clienti che pagavano il conto e si affrettavano ad andarsene a causa della pioggia sempre più forte. Quando mi sono avvicinata, la donna dai capelli bianchi ha sollevato lo sguardo dal giornale. E ha spalancato gli occhi.

Adesso, da vicino, riesco a vedere il suo viso. Riesco a vedere tutto. Rimango immobile, impietrita.

La donna che ho di fronte non è quella che mi aspettavo.

Capitolo uno

Sadie

Cracovia, Polonia

Marzo 1942

Tutto cambiò quando vennero a prendere i bambini.

Sarei dovuta rimanere nel sottotetto dell’edificio a tre piani che condividevamo con una decina di altre famiglie del ghetto. Ogni mattina, prima di unirsi alle squadre di lavoro dirette in fabbrica, la mamma mi aiutava a nascondermi lassù, lasciandomi con un secchio pulito per i bisogni e l’ammonimento severo di non uscire. Ma in quello spazio angusto nel quale non potevo correre né muovermi e nemmeno stare in piedi, sentivo tutto il peso del freddo e della solitudine. Le ore passavano lente, il silenzio rotto solo dal suono di qualcuno che graffiava: erano i bambini stipati dall’altro lato del muro, più piccoli di me, che non potevo vedere ma riuscivo a sentire. Li tenevano separati uno dall’altro senza spazio per correre o giocare. Però si mandavano messaggi in codice graffiando e tamburellando con le dita, in una specie di Morse improvvisato. A volte, per la noia, mi univo a loro.

«La libertà sta dove la trovi», diceva spesso mio padre quando mi lamentavo. Papà aveva la capacità di vedere il mondo esattamente come lo voleva. «La prigione più grande è la nostra mente». Era facile dirlo, per lui. Anche se il lavoro manuale che svolgeva nel ghetto era ben distante dalla professione di contabile che esercitava prima della guerra, almeno poteva uscire ogni giorno e vedere altra gente. Non doveva starsene rintanato come me. Non ero quasi mai uscita dall’edificio da quando, sei mesi prima, eravamo stati costretti a lasciare lo storico quartiere ebraico nel centro e a trasferirci nel distretto di Podgórze, sulla sponda meridionale del fiume, dove era stato stabilito il ghetto. Io volevo una vita normale, la mia vita. Volevo essere libera di correre oltre quelle mura verso tutti i posti che avevo sempre frequentato, e che avevo dato per scontati fino a quel momento. Immaginavo di prendere il tram per andare nei negozi della Rynek, oppure al kino a vedere un film, o a esplorare le antiche colline erbose nei dintorni della città. Desideravo almeno che Stefania, la mia migliore amica, fosse nascosta accanto a me. Invece viveva in un appartamento indipendente dall’altra parte del ghetto, designato alle famiglie della polizia ebraica.

Ma quella volta non fu la noia o la solitudine a farmi uscire dal mio nascondiglio. Fu la fame. Avevo sempre avuto un grande appetito e quella mattina la mia colazione era stata mezza fetta di pane, ancora meno del solito. Mamma mi aveva offerto la sua porzione, ma sapevo che aveva bisogno di forze per la lunga giornata di lavoro che la attendeva.

Con il passare della mattinata la pancia vuota iniziò a tormentarmi. Tra i pensieri si insinuarono prepotenti le visioni del cibo che mangiavamo prima della guerra: abbondanti zuppe di funghi, saporiti borscht e i pierogi, i ravioli ripieni che faceva mia nonna. A metà mattinata mi sentivo così debole che mi avventurai fuori dal nascondiglio. Scesi giù nella cucina condivisa, che consisteva in un solitario fornello a gas e un lavandino da cuisgocciolava tiepida acqua marroncina. Non avevo intenzione di prendere del cibo: se ce ne fosse stato, non mi sarei mai azzardata a rubare. In realtà volevo vedere se nella credenza fossero rimaste delle briciole, e riempirmi lo stomaco con un bicchiere d’acqua.

Rimasi in cucina più a lungo del dovuto, a leggere la copia spiegazzata del libro che avevo portato con me. La cosa che odiavo di più del nascondiglio nella soffitta era che fosse troppo buio per leggere. Avevo sempre amato i libri, e papà ne aveva portati il più possibile dall’appartamento del ghetto, malgrado le proteste di mia madre secondo cui lo spazio negli zaini serviva per i vestiti e il cibo. Era stato mio padre ad alimentare la mia passione per lo studio e a sostenere il mio sogno di studiare medicina all’Università Jagellonica, almeno fino a quando le leggi tedesche non lo resero impossibile. Le università vennero prima interdette agli ebrei, poi chiuse del tutto. Anche nel ghetto tuttavia, alla fine di una lunga giornata di duro lavoro, papà non perse l’abitudine di trasmettermi le sue conoscenze e dibattere con me delle sue idee. Qualche giorno prima, non so come, era persino riuscito a trovarmi un libro nuovo, Il conte di Montecristo. Ma il mio nascondiglio era troppo buio per leggere, e di sera c’era poco tempo perché dopo il coprifuoco venivano spente tutte le luci. Solo un altro  pochino, dissi a me stessa voltando una pagina in cucina. Un paio di minuti in più non avrebbero fatto la differenza.

Avevo appena finito di leccare il coltello sporco del pane quando avvertii lo stridore di pesanti pneumatici, seguito da un vociare ululante. Mi pietrificai e per poco non feci cadere il libro. Fuori c’erano le SS e la Gestapo, affiancate dalla spregevole Jüdischer Ordnungsdienst, la polizia ebraica del ghetto, che eseguiva gli ordini. Si trattava di unaaktion: senza alcun preavviso, un grande numero di ebrei veniva prelevato dal ghetto per essere deportato nei campi di concentramento. Era proprio quello il motivo per cui dovevo nascondermi. Schizzai fuori dalla cucina, superai l’atrio e salii le scale. Dal basso si udì un grande fracasso quando la porta principale della palazzina si frantumò e la polizia fece irruzione. Non sarei mai riuscita a tornare in tempo nella soffitta.

Quindi corsi al nostro appartamento al terzo piano. Mi guardai attorno disperatamente, con il cuore in gola, cercando un armadio o qualsiasi cosa adatta a nascondermi in quella stanzetta in cui non c’era nulla se non il letto e un comò. C’erano altri posti, lo sapevo: la finta parete di gesso che una delle famiglie aveva costruito nell’edificio adiacente nemmeno una settimana prima. Ma era troppo distante, ormai impossibile da raggiungere. Mi focalizzai sul grande baule riposto ai piedi del letto dei miei genitori. Una volta, poco dopo esserci trasferiti nel ghetto, la mamma mi aveva mostrato come nascondermi…

foto presa dal web

Pam Jenoff è nata nel Maryland ed è cresciuta nei dintorni di Philadelphia. Ha frequentato la George Washington University. Dopo un’esperienza al Pentagono, è stata trasferita al Dipartimento di Stato e poi assegnata al Consolato degli USA a Cracovia, in Polonia; rientrata dall’estero, oggi insegna nella facoltà di Giurisprudenza della Rutgers University, in New Jersey. I suoi romanzi sono pubblicati in 27 Paesi. Con la Newton Compton ha pubblicato La ragazza della neveLe ragazze di Parigi La ragazza con la stella blu. Per saperne di più www.pamjenoff.com

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Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la curatrice del blog letterario "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga.