“Lo diciamo a Liddy?” di Anne Fine

Quattro sorelle legatissime, un matrimonio imminente e un segreto atroce, che qualcuno ha sussurrato. Una conversazione a più voci dove tutto è divertente e terribile in pari misura, e quanto più si accende il divertimento, tanto più affiora un orrore che tutti sapremo riconoscere.

a A. W. con affetto e gratitudine

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Bridie posò con cura la tazza sul piattino e fissò la sorella, seduta con lei al grande tavolo di pino. «Allora?».

«Allora ho detto alla Moffat di non preoccuparsi, e che per le pulizie mi sarei arrangiata» ripeté nervosamente Stella.

«No, non dico quello. Dico la faccenda di Ecclefechan».

«Volevo che si godesse la vacanza» spiegò Stella. «Non c’era motivo di farla partire con quel cruccio. Così le ho detto che ci avrei pensato io».

«Però la Moffat è andata in Scozia in maggio».

Stella si rabbuiò, e sulla sua faccia calò una saracinesca di ottusa testardaggine; ma Bridie, malgrado gli anni di esperienza sul lavoro, la incalzò: «Capisci quello che ti sto dicendo, Stella? Maggio. Sono passati quasi tre mesi. Siamo in agosto, adesso».

«Lo so che siamo in agosto».

A Bridie venne voglia di scrollarla fino a mandarle insieme la vista. «Allora si può sapere perché diavolo non me l’hai detto?».

«Avevo promesso alla Moffat che non ne avrei fatto parola con nessuno».

«Ma… è ridicolo! Quella ti viene a dire che il fidanzato di tua sorella forse è un pedofilo, e pretende che tu non ne faccia parola con nessuno? Neppure con Liddy? Potrebbe interessarle, non credi?».

Vide che la sorella ignorava studiatamente la sua crescente irritazione, come per darsi un tono. «Sai, me lo ha detto “come se stesse parlando davanti allo specchio”». E 

incredibilmente Stella sfoderò il sorriso di intesa che si erano scambiate tante volte facendo il verso a quella pettegola della sua colf.

Allora giocavano proprio a non capirsi: «Be’, se non dovevi dirlo a nessuno, spiegami che cosa voleva da te!».

Stella assunse prudentemente un’espressione vacua. «Non so. Non saprei».

«Non fare la stupida!» sbottò Bridie. «Lo sai benissimo che cosa voleva! Voleva che avvertissi Liddy!».

«Oh, non avrei mai potuto. È così felice da quando George è andato a vivere da lei!».

«Ma per favore!». Bridie lo disse debolmente, con tutta la spossatezza che l’aveva improvvisamente sopraffatta – la micidiale spossatezza tipica del suo lavoro. Quante volte le aveva già sentite quelle variazioni sul tema? «Sembravano tutti così felici, con lui!». «Non volevo mandare tutto a catafascio». O addirittura: «Non sapevo come ce la saremmo cavata economicamente senza di lui». Se era riuscita a mantenere la calma davanti a quelle vili, stupide forme di cecità, poteva riuscirci anche adesso.

Ed era fondamentale non ingigantire le cose. Nessuno sapeva per certo se George Rigsby avesse mai fatto qualcosa a qualcuno.

«Ripetimi esattamente che cosa ha detto l’amica della Moffat».

Bridie aveva assunto il tono sbagliato, respingendo la sorella nella sua ostilità. «Senti, questo non è mica un processo. E io non sono uno dei tuoi clienti».

«Utenti».

«Fa lo stesso. Intanto ricordati che non ero tenuta a dirti niente, e poi non mi piace essere sgridata come una bambina solo perché non ti va quello che dico».

Bridie ce la mise tutta per non esplodere. Nei suoi colloqui era sempre riuscita a fronteggiare quel genere di tattiche difensive. Come mai adesso faticava tanto a controllarsi? Perché c’era di mezzo la sua famiglia? Perché erano i suoi nipotini a essere in pericolo? No. Se doveva essere sincera, era perché le prudevano le mani dalla voglia di prendere a schiaffi quella gran faccia tosta di sua sorella, quella cretina, quell’ameba, che per pura vigliaccheria si era tenuta quella notizia per tre mesi senza muovere un dito.

«E perché non ne hai parlato con George? Perché non lo hai preso tranquillamente da parte e non gli hai detto quello che sapevi? A quel punto avrebbe dovuto dirlo lui a Liddy, prima che lo facesse qualcuno altro. E Liddy avrebbe deciso di conseguenza».

«Non potevo. Avevo promesso. La Moffat mi avrebbe ucciso».

Questa frase che Bridie sentiva tanto spesso sul lavoro ebbe su di lei quasi un effetto tranquillizzante. «Senti, Stella, è l’unico modo. Non c’è bisogno che tu gli dica da chi l’hai saputo… Chiunque potrebbe essersi ricordato degli articoli sui giornali e averne parlato in giro. La Moffat non sarà mica l’unica da queste parti ad avere un’amica in Scozia».

«Comunque è probabile che lui non abbia fatto niente. L’amica della Moffat ha parlato di “insufficienza di prove”».

«“Insufficienza di prove” non vuol dire “non colpevolezza”. Vuol dire solo che, appunto, le prove sono insufficienti».

«E tu che cosa ne sai?».

«Niente, ma nemmeno tu. È proprio questo il problema. Sta a Liddy decidere».

«Chissà, magari ha già deciso. Ci avevi pensato? Magari lui le ha già detto tutto».

«Magari. Così tanto vale non appurarlo, giusto?».

Bridie guardò la faccetta da topo della sorella che si rabbuiava di nuovo. «Non so…».

«Lo sapresti, se si trattasse dei tuoi figli».

Questo troncò la discussione. Bridie aveva esagerato. Stella si alzò e cominciò a muoversi nervosamente per la sua cucina immacolata: guardò l’orologio, ripiegò uno strofinaccio, spostò di due centimetri un bollitore scintillante, poi lo rimise dov’era. «Santo cielo, è già mezzogiorno? Scusa tanto, Bridie, ma devo proprio darmi una mossa. Avevo promesso a Neil di fare un paio di telefonate prima di pranzo».

Sconfitta, Bridie si alzò e allungò la mano per prendere la borsa e il maglione appoggiati sul tavolo.

«Allora che cosa vuoi che faccia?».

Stella spalancò gli occhi pieni di falsa innocenza.

«Oddio, niente. Proprio un bel niente. Te l’ho detto solo perché non riuscivo più a tenermelo dentro. Ma non devi fare niente, Bridie, davvero. Ho promesso alla Moffat che non l’avrei detto a nessuno».

«Stella,» disse Bridie «io sono un’assistente sociale. Occuparmi dei bambini a rischio fa parte del mio lavoro. Se tu mi racconti una cosa come questa, io non posso far finta di non aver sentito. Ho dei motivi sia personali sia professionali, ma sappi che dovrò intervenire in qualche modo. Ed è proprio per questo che l’hai detto a me e non a Heather».

Stella arrossì. «Non devi dirlo a nessuno, Bridie. Parlo sul serio».

«Ma certo» rispose Bridie, avviandosi alla porta. «Non devo dirlo a nessuno, Stella. Come no».

Coronò quest’ultima nota di sarcasmo spalancando la porta con tale foga che il grembiule inamidato appeso al gancetto di plastica cadde rigido sul pavimento.

Bridie passò tutta la giornata a cercare di parlare con Heather. Prima le dissero che si trovava «fuori ufficio», poi che era tornata, ma si era «momentaneamente allontanata dalla sua scrivania». Alla fine, quando la segretaria disse: «Purtroppo la signorina Palmer è sull’altra linea», Bridie dichiaro con fermezza: «Resto in attesa».

Mentre aspettava, ripensò al pranzo della settimana prima. C’erano tutti. Doveva essere una festa a sorpresa organizzata da George per il compleanno di Liddy, solo che, naturalmente, Liddy era stata avvisata, perché tra le sorelle vigeva un patto: da quella volta che Heather aveva aperto la porta con la maschera di bellezza, nessuna festa sarebbe stata più veramente a sorpresa. Erano tutte d’accordo, e la lealtà reciproca contava sempre più di qualunque uomo. Secondo Bridie, era una delle ragioni per cui erano rimaste unite durante tutti i fidanzamenti e i matrimoni e, nel caso di Liddy, durante quell’improvviso e inspiegabile divorzio. Papà le prendeva sempre in giro: «So-rel-le», cantava, scimmiottando una canzonetta dei suoi tempi. «So-rel-le, che brave so-rel-le…». Loro sbuffavano e alzavano gli occhi al cielo. Il messaggio, tuttavia, era penetrato senza che neppure se ne accorgessero. Le sorelle Palmer erano legatissime. Era stato questo, oltre agli ultimi lunghi anni della mamma sulla sedia a rotelle, a richiamare a casa Bridie dal Sud, dove aveva trovato lavoro, e a spingere Stella a scegliersi un marito non tanto per la sua personalità, ma perché era del posto. Persino l’ambiziosa Heather sembrava aver optato per una carriera sicura nella filiale regionale della sua ditta, rinunciando a incarichi più rischiosi ma più promettenti nella sede londinese. Ogni tanto Liddy parlava di trasferirsi, ma sempre e solo in posti improbabili come le Shetland, o la Cornovaglia, o le Ebridi, in modo che le altre non dovessero prenderla sul serio. E poi come avrebbe potuto tirare avanti senza il baby-sitteraggio gratuito delle sorelle, e il loro pronto intervento nelle emergenze? Tutte e quattro, del resto, si sarebbero sentite perdute senza i regolari giri per negozi e le cenette improvvisate, senza lo scambio incessante di libri, stufette elettriche e vestiti per le grandi occasioni. Da anni i loro telefoni squillavano in un girotondo di chiacchiere su suoceri, cognati, progetti di lavoro, ansie e vittorie. E non c’erano mai stati segreti.

Fino a quel momento.

Bridie sentì un clic attutito vicino all’orecchio, seguito dalla voce di Heather. «Stella?».

«No, Bridie».

«Bridie! Come va?».

Bridie si lagnò brevemente del lavoro e del cantiere sotto casa, dopodiché si misero a parlare della festa e commentarono la sbornia di champagne di Liddy, che non era riuscita a spegnere le candeline neppure al quarto tentativo e, dopo essersi accasciata sulla sedia ridendo come una pazza, aveva lasciato che ci pensassero George e i bambini.

«È appunto di Liddy che vorrei parlarti» disse Bridie.

«Non possiamo rimandare? Sono nelle scartoffie fino alle orecchie» disse Heather con allegria.

«A che ora stacchi?».

«Non so… Questi dossier bancari non finiscono mai».

«Potrei passare di lì tornando a casa».

«Sì, ti do il nuovo codice. Digitalo lentamente, altrimenti non apre».

Bridie annotò i numeri sul palmo della mano, e li ripeté sottovoce per cinque semafori prima di accorgersi che era troppo nervosa per impararli a memoria. Salì in ascensore fino al piano di Heather e li digitò sotto l’elegante targa grigia con la scritta Harlow & Courtnay. Heather le venne incontro fresca di profumo, prese una tazza di caffè da una macchina scintillante che gorgogliava e sussultava e gliela offrì. Poi, mentre lei fumava una sigaretta dopo l’altra, Bridie le raccontò tutto.

«Pensavo che in quest’ufficio fosse vietato fumare» disse alla fine.

«Infatti è vietato. Nell’orario di lavoro».

«La mattina dopo non si lamenta nessuno?».

«Danno la colpa a quelli delle pulizie, credo. Ma non mi capita tutte le sere di lavorare fino a tardi».

«Solo quando ho bisogno di parlare con te».

Heather non sorrise.

Bridie si guardò attorno. Una parete era ricoperta dai diplomi della sorella, tutti lussuosamente incorniciati. Dottorato in questo. Laurea in quello. Membro di chissà cos’altro. Quante qualifiche ci volevano per gestire il denaro altrui?

«Bello questo divano».

«La ditta sta andando a gonfie vele».

Bridie la guardò di nuovo. «Dai, Heather!» gemette. «Sto aspettando, di’ qualcosa, cribbio!».

«Per esempio?».

«Qualsiasi cosa. Mi stavi a sentire mentre parlavo? Non hai niente da dire? Non potresti esternare qualcosa? Un’opinione qualunque. O almeno fingere un minimo di stupore!».

«Forse è proprio questo» disse cauta Heather. «Dovrei fingere».

«Lo stupore?».

Heather annuì.

«Non dirmi che lo sospettavi… I bambini hanno detto qualcosa? Li ha toccati o roba del genere?».

«Per piacere, Bridie! Se li ha toccati! Voi assistenti sociali siete pazzeschi. Come potrebbe non toccarli? Hanno cinque e otto anni».

«Sei e nove, per la precisione».

«Sai che differenza!». Odiava sentirsi correggere. «Ha tutti i diritti di toccarli, ormai è come se fosse il loro patrigno. E l’unico vero padre che hanno avuto da un anno a questa parte. Ogni volta che vado da loro lo trovo che li coccola, o che gli legge una storia, o che gli spalma il Vicks Vaporub sul petto. Insomma, che si comporta da persona normale». S’interruppe, apposta, e guardò Bridie irrigidirsi. «Normale, sì! riprese in tono provocatorio. «A furia di stare chiusi nei vostri squallidi consultori coi vostri squallidi “nuclei familiari patologici”, voi “operatori” ve lo siete dimenticato, ma noi qui nel mondo reale abbiamo sempre continuato a toccarci! Lo so che non è più di moda, ma è bello e ci fa sentire meglio. Dovreste smetterla di sospettare di tutto e di tutti».

foto presa dal web

Anne Fine è nata a Leicester nel 1947, vive nella contea inglese di Durhamed; è una delle scrittrici per ragazzi più famose di lingua inglese. Attualmente è membro della Royal Society of Literature.
I suoi libri sono tradotti in tutto il mondo e le sue storie più volte hanno visto adattamenti televisivi o cinematografici, dal suo libro Mrs. Doubtfire è stato tratto il film omonimo con Robin Williams.
Infiniti i premi e i riconoscimenti internazionali nel corso degli anni. Più volte vincitrice del British Book Awards come miglior scrittrice per ragazzi o del Guardian Children’s Fiction Prize. Nel 2001 è stata nominata Children’s Laureate, il più importante riconoscimento inglese della letteratura per ragazzi, in successione a Quentin Blake.
Il romanzo Quella strega di Tulip (The Tulip Touch) ha vinto nel 1996 il Whitbread Book Award (Costa Book Awards) nella categoria Children’s book.

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Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la curatrice del blog letterario "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga.