Prossimamente in libreria: “Non dimenticarlo mai” di Federica Bosco

In tutte le librerie e sugli store on-line dal 21 Ottobre 2021

«Nei libri di Federica Bosco si ride e si sorride con dialoghi impagabili.»
ttl La Stampa – Alessia Gazzola

«Federica Bosco è scrittrice d’amore sopraffina.»
iO Donna – Maria Grazia Ligato

La mattina del suo quarantanovesimo compleanno Giulia è seduta sullo sgabello della cucina a bere un caffè e, mentre contempla la nebbia dell’inverno milanese, viene travolta da un attacco di panico in piena regola. Lei, giornalista di costume per una rivista di grido, con una vita scandita da mille impegni, avverte all’improvviso la consapevolezza che la sua esistenza così com’è sembra non avere più alcun senso. Un compagno da quattro anni, Massimo, anch’egli giornalista con una forte propensione all’indipendenza, una madre giocatrice incallita dalla personalità crudele e affascinante da cui ha imparato a guardarsi le spalle, qualche amica con cui condividere sfilate e pettegolezzi, un fratellastro amatissimo, un padre artista e sognatore, e questo è tutto. Ciò che la sconvolge, però, è l’impellente desiderio di maternità mai provato prima, giunto molto oltre i tempi supplementari, che adesso le sembra l’unica ragione di vita. Le reazioni delle persone vicine a lei non sono incoraggianti e, accompagnata da un coro di «ma tu non ne hai mai voluti», Giulia si accinge non senza difficoltà a convincere il compagno a imbarcarsi nel complicato mondo delle cure per la fertilità, ispirata da un’idea di famiglia in cui crede ancora nonostante l’infanzia passata a giocare con le Barbie sotto i tavoli verdi. Massimo però si rivela un partner imprevedibile, che la porta un giorno in un paradiso di mille premure e quello dopo nell’inferno dell’indifferenza, facendola sentire ancora più sola. Così Giulia, quasi senza alleati, decide di abbandonare per sempre la sua zona di comfort e di spiccare un salto nel vuoto. Alternando ironia e malinconia col suo stile inconfondibile, Federica Bosco ci trascina in un crescendo di emozioni e colpi di scena raccontando una storia in cui tutti possiamo riconoscerci, perché non è mai troppo tardi per prendere una decisione folle, se è quella che ti può rendere felice.

A Niccolò, Alessandro e Nora,
i bambini che avrò nella prossima vita.

Epifania: un’esperienza di consapevolezza improvvisa e sorprendente. Può applicarsi a qualsiasi situazione in cui una realizzazione illuminante consenta di comprendere un problema o una situazione da una prospettiva nuova e più profonda.

1.

Si dice che quando stai per morire ti passi tutta la vita davanti e che, in un millesimo di secondo, ogni singolo frame importante ti appaia come sullo schermo di un cinema: le facce di tutti quelli che hai amato, le cose che hai fatto, ogni momento felice e degno di nota che hai vissuto. Tutto si sussegue in rapida successione come nel trailer di un film.

Ma le scene tagliate dal regista – i fallimenti, i rimpianti, i rimorsi, gli errori – quelle non aspettano che tu precipiti in un burrone per presentarsi, no, quelle ti vengono a trovare una mattina qualunque, mentre, appollaiata sul solito sgabello della cucina, ti bevi il solito caffè, nella solita tazza.

E il problema è che una volta che si sono manifestati non hai nemmeno la consolazione di morire, e dirti «pazienza sarà per la prossima volta», no, una volta che ti hanno recapitato il messaggio a sorpresa, come il mandato di comparizione nei film americani, non ti resta che aprire la busta e constatare che la tua vita è tutta una serie di eventi più o meno casuali, tenuti insieme da qualcosa che più che alla coerenza somiglia alla forza d’inerzia.

E non puoi fare altro che rimanere a fissare il muro, con la tazza in mano, chiedendoti che cosa hai fatto di rilevante fin qui.

Ed è quello che mi successe la mattina del mio quarantanovesimo compleanno.

Mi alzai, mi preparai il caffè e improvvisamente la mia esistenza mi sembrò del tutto vuota e priva di significato.

Come quando, da ragazzina, tua madre spalancava le tende facendo entrare la luce a illuminare la tua cameretta che ti accorgevi essere un disastro assoluto fra letto sfatto e vestiti per terra. Solo che non sei più un’adolescente da ben oltre un quarto di secolo e, guardandoti intorno, ti chiedi come hai fatto a vivere in quel casino senza accorgertene e perché nessuno ti abbia detto di mettere in ordine prima.

Un casino fatto di scadenze continue, viaggi, alberghi, conferenze stampa, riunioni che un tempo chiamavi «emancipazione» e che aveva un’aria così glamour, mentre adesso somiglia solo al mal di testa il mattino dopo una sbronza colossale e la realtà ti fissa dal divano con il sopracciglio alzato ricordandoti che la festa è finita.

Facevo la giornalista di costume, avevo un padre e una madre separati da tempo immemore, un fratellastro che amavo molto e un compagno da quattro anni, anch’egli giornalista, con cui non avevamo mai deciso di andare a convivere per via dei nostri orari e per una certa propensione all’indipendenza.

In fin dei conti, il mio epitaffio era tutto lì.

Che altro c’era da dire di rilevante?

Avevo salvato il mondo? No.

Avevo vinto il Pulitzer? Nemmeno. Risolto un conflitto internazionale? Figuriamoci, non ero nemmeno riuscita a risolvere il conflitto fra i miei e, anche a voler abbassare l’asticella, non mi veniva in mente niente di rilevante.

Un obiettivo raggiunto, una prova superata, qualcosa che segnasse una svolta importante fra le tappe della mia vita.

E non per sfoggiare chissà quale titolo o vittoria, sia chiaro, soltanto per me stessa. Qualcosa di cui andare intimamente fiera, qualcosa per cui dirmi sottovoce: «Brava ragazza, hai fatto veramente un buon lavoro, pat, pat!».

Avevo vissuto fin lì una vita che, agli occhi di tutti, poteva dirsi realizzata e forse anche invidiabile, ma che ai miei di occhi, sembrava solo il lunghissimo ripetersi di uno schema che mi aveva permesso di non pensare, di non crescere, se non anagraficamente, e di non cambiare una virgola per crearmi un’illusione di sicurezza e di immortalità.

Ecco cosa mi sconvolse quel giorno: la consapevolezza chiara, lucida e precisa che non avevo più nessuna voglia di quella vita lì, che non ne volevo più nemmeno un boccone, mi nauseava, mi stava facendo scoppiare, come avessi mangiato torta a pranzo e a cena per quasi cinquant’anni.

E non mi piacevano nemmeno le torte!

Mi sentivo confusa e vulnerabile, lì in piedi davanti alla finestra della cucina, nel freddo dell’inverno milanese che tanto mi piaceva con le sue nebbie e quel suo caos produttivo, ma che adesso mi sembrava un’enorme ruota di criceto in cui tutti correvamo.

Ma dove correvamo?

Qual era lo scopo finale se non fuggire da qualcosa?

Me lo ero mai chiesto?

Appoggiai la tazza nel lavandino e mi sedetti alla scrivania in preda a quello che, secondo Google, era un attacco di panico in piena regola: sudorazione intensa, palpitazioni, sensazione di soffocamento, vertigini, difficoltà respiratoria e un terrore cieco, come se qualcuno mi risucchiasse in un buco nero trascinandomi per i capelli.

Andai in bagno a sciacquarmi la faccia e mi guardai allo specchio: ero bianca come un fantasma.

Se fossi morta in quel momento, come tutto mi faceva credere, che cosa avrei lasciato al mondo? Qualche intervista a un attore spocchioso? Un paio di premi? I miei sette cactus?

Chi ero io? A chi appartenevo? Dov’erano le mie radici? La mia discendenza? La mia famiglia?

Dov’erano i miei figli?

Questa fu la frase che mi fece gelare il sangue e non a causa dell’attacco di panico.

No, questa era paura vera, reale, motivata.

Dove. Erano. I. Miei. Figli.

Semplice. Non c’erano.

E non c’erano perché non li avevo avuti, e non li avevo avuti perché non li avevo voluti.

Fino a dieci minuti prima.

Quando ancora c’era tempo per le cose definitive, quando aspettavo l’istinto materno che non arrivava mai o l’uomo perfetto con cui metter su famiglia, mentre tutte le mie amiche si riproducevano senza sosta tanto da perdere il conto.

E io intanto lavoravo. Mi congratulavo con loro e lavoravo, andavo ai battesimi e lavoravo, compravo tutine e lavoravo.

E mi dicevo che quella roba lì non faceva per me, che non ero il tipo, che se mi toglievano un’ora di sonno o lo spritz per nove mesi avrei fatto una strage, che tutta la faccenda del parto non l’avrei mai superata, i punti, l’allattamento, no per carità, e poi dai, mica tutte dobbiamo fare figli, no?

Si può essere madri in un altro modo.

No, non si può.

E quella mattina piansi tutte le lacrime che tenevo in serbo per le grandi occasioni.

Quelle millesimate.

Come una signora di mezza età che realizza di aver perso il treno più importante della sua vita.

E quel treno cominciò a sembrarmi l’unica ragione della mia.

2.

«Dove sei? Stiamo tutti aspettando te!» tuonò Barbara, la mia capa che, in presenza dello staff, fingeva di non essere una grande amica e mi trattava come l’ultima delle stagiste.

«Sto salendo…» risposi sospirando e varcai la soglia della redazione di «Pixie», il giornale dove lavoravo da otto anni.

Salutai la segretaria, appesi il cappotto all’attaccapanni, respirai profondamente e aprii la porta della sala riunioni dove fui accolta dal grido «sorpresa!» e da un «tanti auguri a teee!» cantato a squarciagola dai colleghi che applaudivano e mi lanciavano stelle filanti.

Scoppiai in singhiozzi e corsi in bagno, mentre il «tanti auguri a Giuliaaa!» si spegneva sulle loro labbra.

Volevo sparire, volevo tornare a letto e rimanere sotto il piumino per il resto dei miei giorni, ma più di tutto volevo una bacchetta magica per tornare indietro e cambiare la mia vita intera. Barbara entrò in bagno e si mise a bussare alla porta come un’ossessa.

«Apri! Lo so che sei lì dentro, ti sento respirare!»

Mi asciugai gli occhi col dorso della mano e aprii la porta, ma dall’espressione di Barbara capii che la mia faccia doveva essere un disastro.

«Vedi perché devi usare il mascara resistente all’acqua? Ma non le leggi le nostre rubriche?»

La guardai e ricominciai a piangere disperata.

«Su, su… che succede?» mi disse prendendomi le spalle. «È il tuo compleanno che ti fa questo effetto? L’abbiamo sempre festeggiato, se quest’anno non volevi potevi dirmelo!»

Presi una salvietta per soffiarmi il naso e cercare di rimediare al trucco scolato.

«È solo che mi sono svegliata stamattina e mi sono sentita un fallimento totale!» risposi.

«Tu un fallimento? Ma che dici, hai una carriera di tutto rispetto!»

«Sì la carriera e poi?» la interruppi. «Cos’altro ho oltre alla carriera?»

«Il tuo fidanzato!»

«Massimo? Non viviamo nemmeno insieme!»

«Ehm… il pilates?»

«Barbara!»

«Okay, fammi pensare, sull’amore di tua madre sorvolerei… Emanuele?»

«Che c’entra mio fratello! Tu, cosa metteresti al primo posto nella lista delle cose che ti fanno più felice?»

«Be’, direi i miei figli!»

«Appunto! Mica la carriera!» protestai.

Aggrottò la fronte.

«Giulia, tu non hai mai voluto figli nei quindici anni che ti conosco!»

Sospirai e mi appoggiai al muro.

«Lo so», ammisi guardandola negli occhi.

«E ora… li vorresti?» azzardò.

Mi strinsi nelle spalle.

«La mia vita improvvisamente mi sembra inutile…»

Si grattò il mento.

«Non dire sciocchezze, Giulia! “Inutile” è solo quel caso umano del mio ex marito che è tornato a vivere dalla mamma quando abbiamo divorziato. Non voglio sentirti compatire, questo non te lo permetto! I figli non sono un punto di arrivo. Certo, quando ce li hai diventano la cosa più importante della tua vita, ma non sono una discriminante del valore di una persona! E ora vieni a mangiare la torta… è senza glutine, senza uova, senza zucchero, insomma una merda!»

Barbara era una donna pragmatica, a un problema rispondeva con una soluzione, non certo con gli orsetti gommosi alla fragola.

Secondo lei compatire una persona equivaleva ad accarezzare una ruota bucata invece di cambiarla.

E aveva senza dubbio ragione, ma in quel momento avrei tanto voluto degli orsetti gommosi e delle carezze sulla testa.
Rimasi da sola alcuni minuti cercando di rimettermi in sesto e appiccicarmi un finto sorriso in faccia.

foto presa dal web

Federica Bosco, scrittrice e sceneggiatrice, ha al suo attivo una ricca produzione di romanzi e vari manuali di self-help. È stata finalista al premio Bancarella 2012 e il suo romanzo Pazze di me è diventato un film diretto da Fausto Brizzi. Con Garzanti ha pubblicato anche Ci vediamo un giorno di questi (2017), Il nostro momento imperfetto (2018) e Non perdiamoci di vista (2019).

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Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la responsabile editoriale della rivista on-line "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga. Ha conseguito i seguenti corsi di formazione: "Lettura e benessere personale come rimedio dell'anima" " Avvicinare i bambini alla lettura con i racconti di Gianni Rodari"

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