“Le vite nascoste dei colori” di Laura Imai Messina in libreria

Nero mezzanotte con una punta di luna, indaco che sa di mirtillo, giallo della pesca matura un attimo prima che si stacchi dal ramo: Mio sa cogliere e nominare tutti i colori del mondo. Ha appreso l’arte dei dettagli invisibili guardando danzare ago e filo sui kimono da sposa, e ora i colori sono il suo alfabeto, la sua bacchetta magica, il suo sguardo segreto. Aoi, invece, accompagna le persone nel giorno più buio: lui prepara chi se ne va e, allo stesso modo, anche chi resta. Conosce i gesti e i silenzi della cura. All’inizio sembra l’amore perfetto, l’incanto di chi scopre una lingua comune per guardare al di là delle cose. Ma il loro incontro non è avvenuto per caso. Laura Imai Messina torna al romanzo con una storia luminosa e potente come un talismano, che ha il dono di guarire tutte le ferite. Comprese quelle dell’anima.

A Emilio, che cresce

Prologo

In un tempo impreciso di questa storia, in due luoghi diversi del Kantō, due bambini di quattro e sei anni stanno facendo un disegno.

Mio, la bambina, è pancia a terra e sforbicia le gambe per aria. Ha trecce ordinate, occhi neri viscosi, un vestitino ceruleo. Disegna una foglia, una singola foglia, picchiettando con i polpastrelli decine di verdi; mescola verdi presi dalle matite, dai pastelli, tempere e colori a olio. Dove non arriva la capacità dei colori, cambia i materiali. Appiccica pezzetti di carta, gratta come un gattino le superfici; ha scrostato una vecchia borsa di pelle sintetica della madre, per ricavare altro verde che ora incolla alla sua unica foglia. Pare un disastro, ma l’effetto finale – ne è convinta – sarà stupendo.

Aoi, il bambino, è invece seduto composto  al tavolo del soggiorno. Ha occhi neri, grandi e tranquilli, la bocca che pare una linea e la fronte distesa. Lui disegna un albero, non una foglia. La madre passa accanto al tavolo e getta uno sguardo al disegno del figlio: la corteccia è verde, la chioma rosa. Mette le mani sulle spalle di Aoi, gli bacia la testa ed esclama intenerita: «Ma che meraviglia!»

Prima parte

 Grigio cenere e rosa ciliegio

E in certi istanti, questa sensazione straordinaria che niente è andato perduto; – niente si perde.

GHIANNIS RITSOS

Di colori diversi ugualmente perfetti che appariranno eccellenti se veduti appaiati al proprio contrario diretto… azzurro appaiato a giallo, verde appaiato a rosso: poiché ogni colore è veduto piú distintamente quando è opposto al suo contrario anziché a qualsiasi altro a lui simile.
LEONARDO DA VINCI

Uno

La rivelazione su chi fosse sua figlia, Kaneko Yoshida la ebbe una mattina di maggio, quando la piccola aveva poche settimane di vita. In una viuzza del quartiere Kagurazaka a Tōkyō il verde era un abbaglio, e le foglioline di tè erano tutte riassunte nel kanji di

 shinryoku  : il nuovo, il verde piú acceso dell’anno.

La madre la osservava incantata giocare sul letto quando sentí una voce all’ingresso: la vicina portava in dono piccoli mochi appena pestati. Anche se di là c’era il marito, e altrove nella casa c’erano i genitori di lei, sarebbe sembrato scortese non affacciarsi per ringraziare. 

Kaneko si allontanò dalla stanza, lasciando Mio a gorgogliare di quella gioia piccina, di muovere al sole i piedini e le mani.

Quando, pochi istanti dopo, la donna tornò, al centro del letto però non c’era piú nulla. Tutto taceva.

Il corpo di Kaneko subí un’accelerazione clamorosa. Un’esperienza che, negli anni a venire, avrebbe descritto come la cosa piú vicina a un viaggio nel tempo.

Nei successivi trenta minuti compatti di corse e di urla, furono tutti convinti che la bambina fosse stata rapita: la finestra era aperta, il vento gonfiava la tenda come una vela. Nonna Yōko uscí di corsa, i passi accorciati dal kimono; nonno Mamoru restò a guardarla dalla porta mentre, trafelata, si dirigeva verso il kōban. Il padre di Mio, invece, impazzí di paura. Senza dire una parola si mise a rivoltare la casa. Sollevò in aria le stoffe ammucchiate sul letto, aprí cassetti e armadi, guardò sotto il tavolino della cucina. Pareva avesse smarrito un polmone, la milza.

Tutto il quartiere fu travolto dalla concitazione della ricerca: le donne tirarono fuori i mariti dai negozi, dalle officine, si invocò il poliziotto di zona, che intervenisse: una neonata era stata strappata alla madre! Che s’inseguisse quella donna di cui qualcuno aveva scorto di sfuggita l’ombra dietro una porta! Che s’indagasse sull’uomo scivolato giú di corsa alla fine della via principale di Kagurazaka! Lo aveva visto Shimizu-san, sí, e anche Abe-san aveva visto una figura sospetta dietro il platano, no, dietro la quercia! Nella concitazione generale che animava le case del vicinato, i ragazzini presero a correre per strada. Incapaci di distinguere l’eccitazione dalla paura. Pareva loro una festa.

La madre di Mio non si rassegnava, però, all’idea di non ritrovare la figlia lí dove l’aveva lasciata.

Come quando si continuano a cercare le chiavi di casa nella medesima borsa già rovesciata innumerevoli volte, Kaneko tornò ripetutamente nel punto in cui fino a poco prima era adagiata la bambina. La rivedeva giocare al centro del letto, lo stendino di metallo che oscillava alla finestra, lanciando lampi d’ottone nella stanza.

In lacrime, Kaneko si gettò a terra, schiacciata dal peso di un dolore cosí gigantesco da risultarle osceno.

Fu proprio allora che, tra le stoffe che aveva smosso cosí tante volte, percepí un movimento. Non sembrava il vento, ma qualcosa di vivo che si agitava. Forse la gatta? No, la gatta era al sole, sulla veranda.

La madre si sporse.

Ai piedi del letto, a terra, c’era come un fiore fittissimo di petali fatti di lino, canapa e seta, che nel centro mostrava la presenza di una cosa del tutto nuova.

Kaneko, rallentando in quella maniera inspiegabile con cui si ritarda la soluzione di un dilemma, allungò infine le dita. Frugò con delicatezza tra i lembi del bocciolo di rosa.

Ed ecco sua figlia.

Dormiva. Gli occhi chiusi, animati da impercettibili scosse: Mio si esercitava a guardare nel sogno, come fanno i cani che mimano con le zampe la corsa. Quel che soprattutto osservava erano i colori, le macchie distinte che si trovavano ancora parecchio oltre la capacità fisica delle sue pupille.

La donna rimase immobile, muta. Com’era possibile che la bambina non si fosse svegliata nell’affanno della ricerca? Come aveva fatto lei ad alzare e agitare le lenzuola e le stoffe e a non trovarla? Possibile che nessuno l’avesse calpestata? Che non avesse pianto quand’era caduta? Un rapimento interrotto alla buona? Perché?

Prese tra le braccia la figlia, la rimise al suo posto. Uscí silenziosa ad avvertire chi ancora per strada gridava; il poliziotto scortato da una piccola folla capeggiata da nonna Yōko che stava per rientrare in casa; il marito, che aveva il volto stravolto dalla paura; nonno Mamoru, ancora immobile sulla soglia.

Da allora, dopo quello che avrebbero ricordato come il Grande Spavento, posarono Mio sempre in una culla, circondata di pareti di leggerissimo legno e di paglia. E la madre prese a guardare la bambina con quel misto di ammirazione e sospetto che non si sarebbe mai piú levata di dosso.

Chi era sua figlia?

Mio era nata tra i kimono, nel trambusto di una mattina di novembre.

Quel giorno c’era stato un grande viavai di bambini per la festa di shichi-go-san, tutti erano avvolti nei tessuti decorati con falchi, elmi, sonagli, peonie. Un matrimonio si svolgeva al santuario di Akagi, e le stoffe tinte da suo nonno esplodevano di colore sull’incarnato della sposa. La famiglia di Mio aveva annodato completamente la propria esistenza ai tessuti, alla tintura, ai motivi tradizionali tracciati sugli shiromuku, i kimononuziali.

Fu una grande festa, e insieme una sofferenza tremenda.

La madre di Mio stringeva da ventiquattro ore, a intervalli sempre piú ravvicinati, un fazzoletto tra i pugni. Un asciugamano largo un quadrato serrato tra i denti, dal quale si liberava solo per ingoiare grossi bocconi di onigiri tra le contrazioni.

Poco alla volta il sangue si rovesciò sulle stoffe senza che nessuno pronunciasse una parola. Fu assorbito dal tronco del ciliegio in fiore dipinto su un kimono dismesso da anni. La nonna di Mio ricordava di averlo abitato ogni primavera, quand’era ragazza. Lo aveva scelto apposta: la stoffa di quel kimono conosceva l’amore, la fretta.

Era una tradizione di famiglia che chiunque altro avrebbe ritenuto bizzarra (se non addirittura ripugnante), ma che fra le donne Yoshida veniva tramandata da almeno tre generazioni. Che il parto, cioè, avvenisse su abiti smessi, e che quegli abiti li si conservasse macchiati fino alla morte; il rito voleva che le vesti imbrattate, dopo il funerale, venissero arse con lei.

Alle quattro scoccate da un solo minuto ci fu l’urlo. Entrò in scena, veloce, l’avorio dell’asciugamano e s’alzò quell’annuncio ridicolo («la bambina sta nascendo»), che era un’evidenza e insieme una predizione.

foto presa dal web

Laura Imai Messina è nata a Roma. A ventitre anni si è trasferita a Tōkyō, dove ha conseguito un dottorato in Letteratura. Attualmente insegna italiano presso alcune tra le piú prestigiose università della capitale giapponese. È autrice di romanzi, saggi e storie per ragazzi. Nel 2020 è uscito Quel che affidiamo al vento (Piemme), caso editoriale in corso di traduzione in oltre venti Paesi, i cui diritti cinematografici sono stati opzionati da Cattleya. Per Einaudi ha pubblicato Tokyo tutto l’anno. Viaggio sentimentale nella grande metropoli (2020) e Le vite nascoste dei colori (2021). Collabora con numerosi inserti culturali italiani, e insegna presso la Scuola Holden.

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Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la curatrice del blog letterario "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga.