In libreria: “La casa sulla collina dei papaveri” di Angela Petch

Ispirato a un’incredibile storia vera

In vetta alle classifiche in Inghilterra

«L’intreccio tra passato e presente è magistralmente costruito, fino al finale commovente.»

Anna non riesce a rassegnarsi alla perdita dell’amatissima madre Ines. Così, quando riceve per posta la sua eredità, la accoglie come un regalo prezioso. A incuriosirla è in particolare una scatola piena di fogli scritti a mano e ingialliti dal tempo. Pagine e pagine fitte di inchiostro, scritte in italiano, che sembrano risalire a svariati decenni prima. Determinata a ricostruire la storia della sua famiglia, di cui ha sempre saputo molto poco, Anna lascia l’Inghilterra e raggiunge il piccolo paese di Rofelle, in Toscana. Quella meravigliosa terra baciata dal sole e costellata di alberi di ulivo la accoglie con tenerezza materna. Ma i filari di cipressi che circondano Rofelle sono stati testimoni dell’orrore della guerra. E scavare nel passato di Ines significa addentrarsi in una storia misteriosa. L’incontro con un anziano signore, che sussulta nel sentire il nome di Ines ma si rifiuta di rispondere alle domande di Anna, alimenterà in lei il desiderio di svelare i segreti che hanno distrutto la sua famiglia. Ma una volta scoperta la verità, sarà in grado di accettarla?

Quant’è bella giovinezza
che si fugge tuttavia!
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

Lorenzo de’ Medici (1449-1492)
In ricordo di Paul Francis Sutor

PROLOGO

Un gufo bubola e in lontananza sento l’ululato dei lupi sull’Alpe della Luna. Me li immagino accoccolati insieme sul crinale, i musi sollevati per intonare il loro canto malinconico, mentre le stelle punteggiano il manto blu scuro del cielo. Per quanto mi sforzi di riaddormentarmi, i ricordi non mi daranno tregua. È uno schema ricorrente che non riesco a spezzare.

Nel nostro paesino c’era un solo insegnante, così tutti e trentatré gli allievi, me incluso, erano ammassati in un’unica classe senza badare all’età. D’inverno ci scaldavamo con la legna che bruciava nella stufa e d’estate tutte le finestre, posizionate in alto per limitare le distrazioni, erano spalancate per lasciar entrare la brezza montana.

Io sono figlio unico; ho sempre desiderato un fratellino o una sorellina, ma il ventre di mia madre non si è mai più riempito, perciò ho fatto amicizia con il mio compagno di banco, un ragazzino più piccolo di me: guidavo la sua mano a comporre le lettere sulla lavagna e lo difendevo dagli spacconi nel cortile della scuola. Condividevamo la nostra semplice merenda: pere essiccate o un tozzo di pane avanzato dal giorno prima.

Una volta che lui era cresciuto, dopo la scuola avevamo preso l’abitudine di accamparci in una grotta, dove le salamandre si nascondevano sulle pareti fredde che di notte luccicavano. Ci alzavamo presto per non perderci lo spettacolo degli uccelli che migravano sopra il monte dei Frati, e camminavamo a passo leggero, per evitare di fare troppo rumore calpestando le foglie secche e le castagne. Quell’allenamento ci era tornato molto utile quando eravamo diventati fratelli d’armi, considerati i rischi che correvamo. Per combattere il male.

Avanti veloce di parecchi anni e il sonno mi sfugge; mi ricordo di come mi ero arrampicato fino alla grotta, quella notte, attento a evitare gli accampamenti delle sentinelle. Ci passavo così vicino da riuscire a sentire i loro bisbigli gutturali. Avrei voluto trovarlo appollaiato su una roccia, in attesa dell’alba sulle nostre splendide montagne rosate. Era forse follia sperare in un singolo giorno di pace? A scuola avevamo studiato la Grande Guerra: a Natale tedeschi e inglesi avevano dichiarato una tregua provvisoria e si erano messi a giocare a pallone, con le rispettive trincee a delimitare i confini di un campo da calcio improvvisato. Pregavo di trovarlo lassù, intento a scrutare la nebbia che avvolgeva i nostri rilievi, celando le atrocità che avvenivano al di sotto. Era una vana speranza?

Proseguendo lungo il sentiero, mi ero fermato accanto a un grosso masso e un puzzo di carne putrefatta mi aveva provocato un conato. Un corpo giaceva prono dinanzi a me, mezzo nascosto dalle foglie, con le mani a fare da cuscino alla testa come se fosse immerso nel sonno. L’avevo girato con la morte nel cuore, ma perfino senza metà faccia avevo capito che non si trattava di lui.

Mentre mi voltavo per ripercorrere la strada verso il paesino occupato, dove le nostre semplici abitazioni erano state convertite in accampamenti e postazioni da cui far fuoco, avevo sentito le sue grida. Non potrò mai levarmi dalla testa quel suono agonizzante. Proveniva dalla scuola. La luce si riversava fuori da una finestra sbarrata, in alto sulla parete. Quanto spesso da ragazzino avevo fissato la stessa scena da dentro la mia classe, osservando le punte di due cipressi che ondeggiavano libere al vento e desiderando di potermi trovare all’aperto tra i pendii erbosi. Mi ero arrampicato su un secchio rovesciato per sbirciare all’interno, ma avevo perso l’equilibrio, e ne era seguito un gran baccano metallico, accompagnato dall’abbaiare dei cani.

Le guardie che si erano precipitate all’esterno per immobilizzarmi erano miei compaesani, il che lo rendeva mille volte peggio: uomini e ragazzi con i quali ero cresciuto, contaminati da politiche fallaci, con indosso le uniformi della milizia. Mi avevano trascinato dentro mentre scalciavo, imprecavo e sputavo sulle loro facce traditrici.

Lui era stato torturato, legato con un cavo a una sedia troppo piccola per il suo fisico robusto, le ginocchia aperte a mostrare cosa avevano fatto alle sue parti intime. Mi ero slanciato verso di lui, ma mi avevano trattenuto. Per fortuna aveva perso i sensi, la testa insanguinata gli ciondolava in avanti come se fosse immerso in preghiera.

Il tradimento peggiore, però, era stato il viso dell’uomo che mi fissava con espressione malevola, dicendomi che poi sarebbe toccato a me. Non riuscivo a credere alla sua slealtà. E mentre sedevo al tavolo e lui sventolava un martello da abbattere sulle mie dita, avevo gridato per il dolore, puntando lo sguardo oltre la finestra per distoglierlo dalla sua camicia nera macchiata di sangue. Stringendo i denti per l’agonia, avevo guardato le cime dei cipressi e mi ero rifiutato di credere che non sarei mai più stato libero di andare a caccia con il mio giovane amico o di tenere la ragazza che amavo stretta tra le braccia.

CAPITOLO UNO

Febbraio 1999

Un uggioso pomeriggio di febbraio nel nord di Londra, Anna si è concessa una giornata di relax dopo due nottate d’inferno. In strada i pendolari si affrettano verso casa dopo il lavoro, e sotto sotto lei è contenta di non trovarsi in mezzo al trambusto.

La vita le sembra incerta: l’hanno licenziata e sua madre è mancata di recente. Dicono che le cose succedano a gruppi di tre, perciò si domanda cosa la aspetti adesso.

Quando finalmente è sul punto di appisolarsi, sente trillare il campanello. Con un sospiro, mormora «Arrivo, arrivo», scosta le coperte e apre il portone d’ingresso del suo appartamento al secondo piano.

«C’è un pacco per lei, signorina». Il giovane fattorino le sorride e le fa la radiografia con un sogghigno, tanto che lei si stringe nella vestaglia. Preso il pacco, gli sbatte la porta in faccia e si dirige in cucina ciabattando, per andare ad accendere il bollitore.

È un pacco voluminoso. Lo stava aspettando, ma l’aveva relegato in un angolo della mente. Alla lettura del testamento della madre, la settimana precedente, il notaio le aveva fatto presente che, oltre a cinquantamila sterline, aveva ereditato anche un assortimento di carte varie. A Harry e Jane, i suoi fratelli maggiori, era andato tutto il resto. Mentre Peregrine Smythe della Smythe & Sons, con indosso un gessato Savile Row sgualcito, aveva letto con voce monotona le ultime volontà della mamma, Anna si era persa a osservare una mosca in trappola che continuava a sbattere contro la finestra. Di tanto in tanto lanciava occhiate al fratello e alla sorella, seduti di fronte a lei, e pensava a quanto fosse ingrassato Harry, ormai stempiato, e a come Jane sembrasse una signora di mezza età, con l’acconciatura impeccabile fissata con la lacca. Non si era mai sentita vicina a nessuno dei due. Alla sua nascita erano entrambi abbastanza adulti da avere figli propri: la madre si avviava ai quaranta quando, come un fulmine a ciel sereno, era rimasta incinta dell’ultimogenita che aveva scombinato le dinamiche familiari.

Si prepara una tazza di Earl Gray e torna a letto, portandosi dietro il pacco. All’interno dell’involucro c’è una scatola di cartone, con il coperchio chiuso da un vecchio laccio per le scarpe, che si appresta a sciogliere. Dentro trova una busta marrone con sopra il suo nome – scritto nella calligrafia piena di svolazzi della madre –, blocchi per appunti, un plico di fogli arrotolati e fermati da un elastico rovinato e un quadrato di stoffa ripiegato.

Apre la busta e ne estrae un foglio a righe, dall’aria antiquata ed economica, con una stampa a violette nell’angolo in alto a sinistra. La madre aveva utilizzato l’inglese, che aveva sempre parlato con accento marcato, ma padroneggiava senza problemi nello scritto.

Willow’s End

16 agosto 1997

Mia adorata Anna,

se leggerai queste righe vorrà dire che sarai già stata al mio funerale. Forse sarà stata versata qualche lacrima, ma spero tanto che ci siano stati anche momenti lieti, che in chiesa abbiano suonato alcune delle canzoni italiane che amavo e che alla cerimonia sia seguito un rinfresco con un bel piatto di spaghetti al sugo, il mio preferito. Suppongo che qualcuno abbia raccontato degli aneddoti, magari avrete ricordato il mio carattere irascibile e i miei svarioni con l’inglese. Che sia stata ricordata con gentilezza o severità, pazienza, come diciamo noi! Per quanto sia stato molto difficile per me imparare a essere paziente.

Ho così tanto da raccontarti. Forse è una mossa un po’ vigliacca, scriverti tutto anziché parlartene di persona. È stata dura decidere quale fosse l’approccio migliore. Se avessi raccontato la mia versione di quello che ho vissuto durante la guerra, il risultato sarebbe potuto essere catastrofico. Cataclismico, disastroso! I due termini sono simili in italiano e in inglese: ci sono numerose somiglianze tra le due lingue, ma anche altrettante differenze, come ho scoperto quando sono approdata qui.

Dopo che i dottori mi hanno detto che il cancro era inoperabile, ho deciso di mettere ordine tra i miei documenti e raccogliere le mie memorie, che avevo scarabocchiato in modo confuso negli anni, quando avevo sentito l’esigenza di annotarle. Possiamo pure definirlo una sorta di diario. Alla lettura del testamento, il notaio ti avrà certamente informata che lo avresti ricevuto tu. Forse ti sarai sentita tagliata fuori: oltre ai soldi, a Harry ho lasciato Willow’s End; so che saprà gestire questo vecchio edificio pieno di spifferi, l’ha sempre amato e si adatta bene al suo nuovo ruolo di amministratore aziendale. Jane ha avuto in eredità i miei gioielli: da piccola adorava la moda.

A te invece è rimasta questa scatola con dentro i miei scarabocchi. Le mie perle di memoria, da me a te. Spero che una volta terminata la lettura, capirai che non è mai stata mia intenzione farti sentire esclusa, tesoro mio. Forse negli anni ho scordato qualche dettaglio. Non ho tenuto un diario giornaliero, perciò ci sono delle lacune. Non sono mai riuscita a parlare apertamente.

della mia vita, ma ora avverto l’obbligo morale di farlo. E l’unico modo è attraverso questo diario.

Leggilo quando avrai tempo e fanne ciò che vuoi. È l’eredità che ti ho lasciato.

Con amore,

la tua affezionata mamma

Anna si abbandona sui cuscini, intrigata ma al tempo stesso irritata con la mamma per essere stata così enigmatica. Il loro rapporto è sempre stato piuttosto complicato: sua madre era una donna caparbia, incline al dramma. Qualche volta la stringeva tra le braccia, ma in altre occasioni era distante, anaffettiva: due facce di una medaglia. Tipico di lei accennare a un “cataclisma”.

Ad Anna torna in mente un evento in particolare. Doveva avere all’incirca sei anni; dopo aver aperto la porta del soggiorno dove Ines, la madre, sedeva alla scrivania, le aveva domandato: «Quando lo fai un altro bambino? Non ho nessuno con cui giocare». La donna aveva chiuso di colpo il diario su cui stava scrivendo e si era girata per abbracciarla. «La mamma è troppo vecchia ormai», le aveva detto, baciandola su una guancia, «e non avrei altro amore da dare, lo riservo tutto per te, tesorino mio».

Ne conserva un ricordo vivido, perché era raro che la vezzeggiasse, soprattutto se nei paraggi c’erano Jane o Harry.

I suoi fratelli quasi non la consideravano. Erano molto più grandi di lei e ignari di quanto le loro battute la ferissero. «Sei stata un incidente, un grosso errore», aveva commentato una volta Jane con noncuranza, ma lei se l’era presa a cuore. Era cresciuta con la sensazione di essere poco amata, nient’altro che una scocciatura per la maggior parte del tempo; quando loro uscivano a ballare o andavano al cinema con gli amici, passava anche lunghi periodi in solitudine.

Curiosamente, aveva stretto un legame più solido con la madre solo dopo che questa era stata ricoverata nella casa di cura di Claremont, dov’era morta. Nei momenti di confusione di Ines, era Anna a sapere come placarla.

«Mamma, raccontami della tua vita in Italia, di prima che venissi in Inghilterra», la esortava, in parte per curiosità verso un aspetto della sua esistenza di cui conosceva poco o niente e in parte perché aveva scoperto che parlare dell’Italia calmava sua madre.

Qualche volta Ines le dava retta, anche se Anna faticava a stare dietro ai suoi vaneggiamenti, altre invece si rifiutava di raccontare, accontentandosi di restare seduta a fissare i giardini e il mare al di là della finestra. In occasione di una delle ultime visite prima della morte di Ines, Anna l’aveva trovata stanca, e finiva per esprimersi in un dialetto che non comprendeva. Non le importava che fosse silenziosa: nel suo silenzio c’era abbastanza spazio per entrambe, e in genere sedevano tenendosi per mano, mentre Anna le lasciava il tempo di raccogliere i propri pensieri. Ogni tanto un suono o un odore sembravano risvegliare un ricordo e la donna si metteva a parlare di un evento quasi fosse appena accaduto. Magari una motocicletta sfrecciava rombando per la strada ed era come se ripiombasse nel passato.

«Oggi gli altri sono andati in città. Fa troppo caldo per ballare, ma ormai i tedeschi sono nella valle qui accanto. Stanno saccheggiando i villaggi…».

Di solito Anna la assecondava, come se quei racconti fossero un’abitudine consueta. «Ah sì? E dopo cos’è successo?».

Qualche volta, però, le capitava di sentirsi un’intrusa che origliava apparenti confessioni private.

«Se lo scoprono finirò nei guai, ma faceva così caldo. La camicetta mi aderiva addosso e i capelli galleggiavano sull’acqua come alghe. Mi teneva stretta…».

Anna non rispondeva. Cambiava argomento oppure afferrava la scatola delle fotografie che la mamma teneva nell’armadietto lì accanto e si mettevano a guardare le foto di famiglia insieme.

C’erano pomeriggi in cui Ines sedeva a piangere e Anna le asciugava con premura le lacrime dalle guance. Lei le si aggrappava addosso. «È tornato, Anna, è tornato, ma io non potrei mai lasciarti. Sei una brava bambina, il mio dono speciale».

Era difficile capire cosa le passasse per la mente, quando pronunciava quelle frasi così sconnesse. Anna ci ripensa mentre sfoglia il rotolo di carte. Che peccato che la madre avesse dato l’impressione di amarla molto di più verso la fine della propria vita, come se non riuscisse a trattenere le emozioni che aveva imbottigliato dentro di sé fino a quel momento. Emozioni che Anna avrebbe preferito conoscere ben prima.

Lo squillo improvviso del cellulare la riporta bruscamente dal passato al presente.

«Anna! Mi dispiace di non averti chiamata ieri sera, il lavoro mi ha fagocitato. Perché non mi hai aspettato?».

Non ha tempo per placare il suo compagno, in questo istante non se la sente di spiegare a Will che per l’ennesima volta si era stufata di aspettarlo al ristorante, che odiava le occhiate patetiche dei camerieri mentre sorseggiava il vino, centellinandolo nel tentativo di farlo durare finché lui non fosse apparso.

«Posso passare da te adesso?», le chiede. «Sono già sul taxi, posso arrivare tra un quarto d’ora».

Guarda l’orologio: le 17:30. Qualche settimana prima gli avrebbe detto di sì, ma ormai le serate fugaci e gli appuntamenti dell’ultimo minuto non la soddisfano più; sembra sempre che si ricordi di ritagliarsi del tempo da dedicarle solo in un secondo momento.

Lui abbassa la voce, forse il tassista sta origliando il discorso del famoso passeggero i cui noti lineamenti appaiono regolarmente sul notiziario di Channel 4.

«Potrei fermarmi a dormire da te, tesoro».

«Non mi sento molto bene oggi, Will, ho una forte emicrania», mente. «Ci sentiamo presto».

Non ha le energie per litigare e prima che lui possa tentare di farle cambiare idea, chiude la chiamata e spegne il telefono, per poi lanciarlo sul letto accanto al plico di fogli della madre. Non sa se riuscirà a leggere i misteriosi documenti. Finché era stata in vita, Ines si era sempre rifiutata di sbottonarsi troppo riguardo alla sua vita italiana. Ormai sembra un po’ tardi cercare di rimediare dalla tomba, con un diario e alcuni enigmatici appunti. C’è forse qualche scheletro nell’armadio di cui Anna dovrebbe essere a conoscenza?

Allunga una mano verso il foglio in cima a tutti gli altri. È tappezzato di scritte, la calligrafia è sbavata e in alcuni punti difficile da interpretare. Pinzato sul davanti, si legge un altro appunto steso in inglese.

Anna, durante la guerra per un breve periodo ho tenuto un diario. Non avrei dovuto farlo, perché se fosse finito nelle mani sbagliate ci sarebbero state rappresaglie. Poi sono trascorsi anni senza che lo riaprissi e, a rileggerlo adesso, non riesco quasi a credere di esserne stata io l’autrice. Spero che riuscirai a capirlo, perché in alcuni punti uso un italiano un po’ datato. Tieni presente che questi fatti sono accaduti oltre mezzo secolo fa. Come cambiano i tempi!

Scorrendo con lo sguardo le prime righe confuse scritte di pugno dalla madre, Anna si rende conto che farà fatica. La mamma le ha dato un’infarinatura di base di italiano, però la lingua madre di tutti e tre i figli è l’inglese. Comincia comunque a leggere, arrancando di frase in frase, ma presto si rende conto che le servirà un buon dizionario. Possiede solo una piccola edizione tascabile e le tocca intuire il significato di parecchie parole.

Non riesce a concentrarsi, le gira la testa per l’enormità del compito che la madre le ha affidato: pagine e pagine di italiano da tradurre, e a che scopo?

Mentre si infila nel letto caldo, sotto il piumone, ripensa con malinconia a come sarebbe stata più semplice la sua vita se la madre avesse condiviso di più con lei. Invece non lo aveva fatto e ora se n’era andata, lasciando una voragine più profonda di quanto Anna avrebbe mai potuto immaginare. Ci mette un po’ a prendere sonno, ma alla fine quando ci riesce, sogna Ines ancora vicino a lei, nascosta dietro un’impalpabile tenda di mussola agitata dal vento, e intenta a pronunciare parole che Anna non è in grado di comprendere…

foto presa dal web

È un’autrice bestseller di narrativa e poesia. Nata in Germania da genitori inglesi, ha viaggiato per quasi tutta la vita, ma la sua destinazione preferita resta l’Italia. Trascorre ogni anno sei mesi in Toscana, nel mulino che ha ristrutturato insieme al marito.

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Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la curatrice del blog letterario "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga.

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