Da domani in libreria: “La morte non aspetta” di Ross Greenwood

Un grande thriller Come si arriva alla verità quando tutti i testimoni sono morti? Dall’autore del bestseller Il killer della neve Fino a dove può spingersi un criminale che si crede Dio?


Una serie di morti all’apparenza scollegate tra loro tiene impegnato il detective Barton. Quando una prova incastra un sospettato, subito consegnato alla giustizia, sembra giunto il momento di tirare un sospiro di sollievo. Ma gli omicidi, invece di fermarsi, continuano… E molti di essi sembrano ruotare intorno alla famiglia di una giovane donna, Claudia Birtwhistle, fidanzata con un detective della squadra di Barton. Una traccia comincia a delinearsi e pare condurre a un’ipotesi inquietante: un assassino spietato che crede di poter fare le veci di Dio e che non teme la morte. Riuscirà il detective Barton a fermarlo?
«Una storia oscura, intelligente, piena di colpi di scena…»

A mia moglie Amanda. Questo è per te.
Pentiti in questa vita,
gioisci nella prossima.

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Il killer di anime

Il mio primo ricordo risale a quando ho iniziato la scuola. Avevo cinque anni, venticinque anni fa. Erano appena cominciate le vacanze di Pasqua. I primi ricordi per molte persone sono drammatici o brutti. Forse è per questo che restano impressi nella memoria. Ma non è il dolore a rimanere vivido per tutti gli anni a venire. Sono lo shock, la confusione. Io semplicemente non lo capivo. Credo però che quello sia stato il momento in cui mi sono reso conto che potevo essere capace di uccidere

Mia madre venne a prendermi a scuola e tornammo a casa insieme. Non ci tenevamo mai per mano, però parlavamo. Be’, lei parlava. La tensione intorno a lei si percepiva già. Si abbinava alle strade spoglie in cui vivevamo. Mi chiese cosa avessi fatto quel giorno. Il vento freddo mi fece lacrimare gli occhi mentre mi sforzavo di ricordare. Una volta arrivati a casa entrammo nella cucina stretta e aprii la cartella, fissando il cestino pasquale che avevo fatto. Accarezzai la superficie lucente dell’uovo di stagnola, sapendo che in qualche modo avrei dovuto tenerlo nascosto.

«Cos’hai lì dentro?» disse lei.

La maggior parte dei bambini non conosce l’astuzia, e io non ero diverso, così chiusi la borsa.

«Dammelo». Afferrò i manici, estrasse la scatolina di cartone e la tenne come se potesse esplodere.

«L’ho fatto io», dissi.

«Avevo avvertito la scuola su questo tipo di cose. Si pentiranno di non avermi ascoltata».

Non capii a cosa si riferisse e volevo disperatamente avere indietro il cestino. «Puoi ridarmelo, per favore?»

«È sequestrato».

Ricordo di aver pensato che fosse mio. L’avevo costruito io con il cartone e la carta stagnola, insieme agli altri bambini e bambine della classe. L’eccitazione mentre eravamo in fila per uscire quel pomeriggio mi aveva pizzicato la pelle. La maestra mi aveva aiutato con la giacca e mi aveva augurato buona Pasqua, ma nonostante avessi sentito quella frase diverse volte durate le lezioni, l’idea di una Pasqua felice mi confondeva. A casa, la Pasqua veniva menzionata con solenne timore e mi provocava paura. Non si parlava di cioccolata o di uova di crema Cadbury.

Sapevo che non dovevo fare arrabbiare mia madre. Non urlava mai, mi guardava però con certi occhi che mi avvertivano di una punizione imminente e che le restavano impressi in faccia, a volte per giorni, fino a che ricevevo la mia penitenza. Il mio cervello cercò di farmi dire qualcosa.

«Serve a rendere la Pasqua più gioiosa».

Lei si fermò sulla soglia. In chiesa avevo sentito molte volte la parola gioia, ma lei come risposta ringhiò. «Noi non la celebriamo in quel modo. Non voglio più sentirtela nominare». «E perché? Io voglio essere felice. Voglio essere come gli altri bambini».

Allora non avevo imparato l’importanza del silenzio. Non avevo nemmeno imparato che non ero come gli altri bambini. Solo mio padre era relativamente normale in casa nostra.

Lei tornò e si mise di fronte a me. La sua camicia e la sua giacca marroni senza tempo, combinate con i capelli ingrigiti tirati indietro in modo austero, la facevano sembrare scialba, nonostante i grandi occhiali che portava. Forse con quelli riusciva a vedere il peccato con più chiarezza. Attraverso quelle lenti, i suoi penetranti occhi azzurri fissavano le cose e le rendevano abbondantemente chiare.

«Dio non approva. Sono cose da pagani. Noi siamo puri».

In quel momento decisi che sarei stato un pagano. E volevo ancora quello che avevo fatto. Una vampata di pura rabbia mi attraversò, credo per la prima volta. Sferrai un calcio e la colpii alla tibia. Seguirono attimi di silenzio. Difficile ricordare se il suo fosse un sorriso o una smorfia. Comunque sia, mi misi in ginocchio e avvolsi le mani attorno ai suoi collant spessi. Lei mi spinse via.

«Aspetta qui», disse.

L’attesa è peggiore del dolore fisico, che è concreto ma dura solo per un po’. Avevo sperimentato l’impatto dei giornali arrotolati e dei mestoli da cucina in molte occasioni, quindi la mia mente aveva smesso di immaginare il peggio perché pensavo di aver visto e sentito tutto. Non sapevo dello scantinato. Mi afferrò per il colletto del maglione e mi trascinò oltre mio padre nella sala da pranzo. Notai che qualcuno aveva spostato il tavolo. C’era una botola completamente aperta. Con gli occhi spalancati, supplicai mio padre di salvarmi mentre si alzava da dov’era seduto.

«Stai esagerando, Marjory».

Dopo un’ultima occhiata a me, lasciò la stanza e uscì di casa a grandi passi. Può darsi che fosse anche tornato a prendere le sue cose a un certo punto, ma non l’ho più visto. Quando ci ripenso, ricordo degli accenni di felicità e positività, ma lui se n’era andato, come una nuvola che in modo molto graduale arriva a coprire il sole. Quel giorno arrivò l’eclissi.

Guardai giù, nell’abisso. Non c’erano scalini, solo buio. Lei mi spinse con forza e fermezza, e io caddi, atterrando su un materasso sottile. Rantolai di dolore mentre le mie ginocchia comprimevano la stoffa e sbattevano sul pavimento. Lì dentro distinguevo appena i contorni. Lo spazio era di circa due metri di larghezza e altezza. Mi accasciai su un fianco e, allungando un braccio, la supplicai di tirarmi su. Incombeva su di me, così grande e potente. Sentii la sua voce rimbombare.

«Pentiti in questa vita, gioisci nella prossima».

Le sue parole non significavano niente. Mi tediava sempre per questo o quest’altro. Mi guardai attorno con gli occhi annebbiati mentre lei richiudeva la botola. Gli unici altri oggetti che riuscii a vedere prima che l’oscurità mi avvolgesse completamente furono un paio di scarpe di mio padre e una coperta. Era stato qui sotto anche lui?

foto presa dal web

Ross Greenwood è nato nel 1973 a Peterborough, in Inghilterra. È autore di numerosi bestseller dalle atmosfere crime. Prima di diventare uno scrittore a tempo pieno, è stato un agente carcerario per quattro anni. La Newton Compton ha pubblicato Il killer della neve La morte non aspetta.

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Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la curatrice del blog letterario "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga.

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