“Barbizon Hotel” Storie di un hotel per sole donne di Paulina Bren

«Oh! È fantastico essere a New York… soprattutto se alloggiate al Barbizon per sole donne». Negli anni Cinquanta sulle riviste lo slogan è sempre quello, rassicurante nella sua insistenza: l’hotel più esclusivo di New York, il Barbizon, è il luogo ideale per le donne nubili che affluiscono sempre più numerose per lavorare nei nuovi, straordinari grattacieli; donne che non vogliono abitare in pensioni scomode e desiderano quello che gli uomini hanno già: dei “residence”, ovvero hotel che propongono tariffe settimanali, servizio di pulizia quotidiano e una sala da pranzo al posto dell’onere di una cucina. Ma chi è la donna che alloggia al celebre Hotel Barbizon? Qualunque siano le sue origini – l’America provinciale o l’altra estremità del ponte George Washington – di solito arriva in un taxi Checker giallo, con indosso i suoi abiti migliori, armata di valigia, lettera di raccomandazione e speranze. È scappata dalla sua città natale e da tutte le prospettive (o dalla loro mancanza) che la caratterizzano. Adesso è lì, a New York, pronta a ricostruirsi, a cominciare una nuova vita. E quale miglior inizio, se non il Barbizon? Tutti sanno che l’hotel trabocca di aspiranti scrittrici, giornaliste, attrici e cantanti, e alcune non più aspiranti, ma già diventate famose. Dopo aver superato l’esame di Mrs Mae Sibley, la vicedirettrice incaricata di sorvegliare con occhi di falco la reception, la nuova ospite del Barbizon prende l’ascensore fino al piano della sua camera, dove nessun uomo sarà mai ammesso, e dove il letto stretto, il cassettone, la poltroncina, la lampada a stelo e la piccola scrivania rappresentano alla perfezione la «stanza tutta per sé» rivendicata da Virginia Woolf: uno spazio privato che le consenta di reinventarsi senza il peso della famiglia e delle sue aspettative. Dietro quelle pareti, però, nelle stanze dove abitano donne in tacchi a spillo, guanti bianchi e cappellini dall’angolazione perfetta, non tutto è come appare e assieme all’ambizione aleggiano anche i fantasmi della disillusione e di una solitudine talvolta insopportabile. Raccontando la storia dell’hotel per sole donne più famoso di New York, dalla sua costruzione nel 1927 fino alla trasformazione in appartamenti da diversi milioni di dollari nel 2007, Paulina Bren svela, attraverso la storia delle sue ospiti più illustri – dalla sopravvissuta al naufragio del Titanic, l’«inaffondabile» Molly Brown, alla poetessa Sylvia Plath, che lo descrive nel romanzo “La campana di vetro”, passando per Grace Kelly, Joan Crawford, Candice Bergen, Ali McGraw, Liza Minnelli e molte altre – una magnifica storia di emancipazione femminile.

Per Zoltán e Zsofi

La celebre attrice Rita Hayworth si finge esausta dopo essersi calata per un giorno intero nei panni di una modella nel film Fascino del 1943. Qui posa per la rivista «Life» nella palestra del Barbizon con modelle vere.

Chi era la donna che alloggiava al celebre Hotel Barbizon a New York? Qualunque fossero le sue origini – l’America provinciale o l’altra estremità del ponte George Washington – di solito arrivava in un taxi Checker giallo perché non sapeva ancora muoversi nella metropolitana di New York. Stringeva in mano un foglietto con l’indirizzo e lo leggeva, attenta, al tassista: «Hotel Barbizon, 140 Sessantatreesima Strada Est». Con ogni probabilità, però, l’autista conosceva la destinazione ancor prima che aprisse bocca. Forse aveva notato la timidezza del gesto usato per fermarlo, o la forza con cui stringeva la maniglia della valigia marrone, o il fatto che la ragazza forestiera, appena giunta a Manhattan, avesse indosso i suoi abiti migliori.

Il foglietto era quasi certamente sgualcito ormai, o in cattivo stato, avendo viaggiato con lei in treno, autobus o perfino aereo, se era fortunata o ricca o se, come Sylvia Plath e Joan Didion, aveva vinto il concorso della rivista «Mademoiselle». L’ondata di emozione che la ragazza provava varcando la porta d’ingresso del Barbizon sarebbe stata impossibile da riprovare in seguito, per il significato preciso che aveva in quel momento: era scappata dalla sua città natale e da tutte le prospettive (o dalla loro mancanza) che la caratterizzavano. Si era lasciata tutto alle spalle, con decisione, spesso dopo mesi in cui aveva implorato, risparmiato, lesinato, progettato. Adesso era lì, a New York, pronta a ricostruirsi, a cominciare una nuova vita. Aveva preso in mano il proprio destino.

Nel corso degli anni, le pubblicità dell’Hotel Barbizon sulle riviste declamavano: «Oh! È fantastico essere a NEW YORK… soprattutto se alloggiate al Barbizon per sole donne». Lo slogan era sempre quello, rassicurante nella sua insistenza: L’hotel più esclusivo di New York per giovani donne. Ma gli articoli sulle riviste mettevano anche in guardia contro i “lupi”, gli uomini che battevano le strade di New York in cerca di ragazze giovani e ingenue, alle quali il Barbizon prometteva protezione e riparo. Ma non era l’unico motivo per cui le ragazze americane volevano alloggiare lì. Tutti sapevano che l’hotel traboccava di aspiranti attrici, modelle, cantanti, artiste e scrittrici, e alcune non più aspiranti, ma già diventate famose. Rita Hayworth, in posa con aria sexy e impertinente per la rivista «Life» nella palestra dell’albergo, sottolineava tutte quelle possibilità.

Però prima la nuova arrivata doveva superare l’esame di Mrs Mae Sibley, la vicedirettrice incaricata di sorvegliare con occhi di falco la reception, che l’avrebbe squadrata e le avrebbe chiesto le referenze. Doveva essere presentabile (meglio se graziosa) e in possesso di lettere in grado di confermare una solida moralità. Mrs Sibley l’avrebbe poi catalogata discretamente come A, B o C. Le A avevano meno di ventotto anni, le B tra i ventotto e i trentotto, e le C… be’, erano già sulla china discendente. Quasi sempre la ragazza che veniva da fuori, con il cappellino della domenica e un sorriso nervoso, era una A. Questa prima prova, però, era solo l’inizio. Dopo averla approvata, Mrs Sibley le consegnava una chiave, comunicava il numero della stanza ed elencava doveri e divieti; a quel punto la nuova ospite del Barbizon prendeva l’ascensore fino al piano della sua stanza, la sua nuova casa, dove nessun uomo sarebbe mai stato ammesso, e doveva decidere il da farsi. La stanza rappresentava un passo avanti per alcune e un passo indietro per altre. Ma per tutte le giovani donne del Barbizon il letto stretto, il cassettone, la poltroncina, la lampada a stelo e la piccola scrivania in una stanzetta con il copriletto a fiori intonato alle tende rappresentavano una sorta di liberazione. Almeno all’inizio.

Barbizon Hotel racconta la storia dell’hotel per sole donne più famoso di New York, dalla sua costruzione nel 1927 fino alla trasformazione in appartamenti da diversi milioni di dollari nel 2007. Rappresenta insieme la storia delle donne singolari che ne varcarono la soglia, la storia di Manhattan nel corso del Ventesimo secolo, e una storia dimenticata di ambizioni femminili. L’hotel era stato costruito negli Anni Ruggenti per le donne che affluivano sempre più numerose a New York per lavorare nei nuovi, straordinari grattacieli. Non volevano abitare in pensioni scomode; desideravano quello che gli uomini avevano già, dei “residence”, ovvero hotel che proponevano tariffe settimanali, servizio di pulizia quotidiano e una sala da pranzo al posto dell’onere di una cucina.

Negli anni Venti sorsero altri hotel per sole donne, ma fu il Barbizon a catturare l’immaginazione dell’America. Sarebbe sopravvissuto più a lungo di quasi tutti gli altri, in parte perché era associato a donne giovani e più avanti, negli anni Cinquanta, a donne giovani, belle, desiderabili. L’albergo era riservato alle donne e gli uomini non potevano avventurarsi oltre la lobby, ribattezzata “Lovers’ Lane”, il vicolo dell’amore, nelle sere del fine settimana, quando le coppie si appartavano tra le ombre, baciandosi dietro le foglie di piante in vaso disposte in punti strategici. Il poco socievole J.D. Salinger, sebbene non fosse un “lupo”, frequentava il caffè del Barbizon e fingeva di essere un giocatore di hockey canadese. Altri uomini si sentivano stranamente stanchi e avvertivano il bisogno di riposare proprio quando attraversavano Lexington Avenue all’angolo con la Sessantatreesima Strada, e la lobby del Barbizon sembrava il luogo ideale in cui rinfrancarsi. Malachy McCourt, fratello dell’autore di Le ceneri di Angela, e pochi fortunati affermavano di essere riusciti a salire ai piani delle stanze, nonostante i rigorosi controlli, mentre altri fallirono miseramente, a dispetto del camuffamento da idraulici e ginecologi in visita a domicilio, con grande ilarità (e collera) di Mrs Sibley.

Tra le ospiti del Barbizon vi furono molte celebrità: la sopravvissuta del Titanic, Molly Brown; le attrici Grace Kelly, Tippi Hedren, Liza Minnelli, Ali MacGraw, Candice Bergen, Phylicia Rashad, Jaclyn Smith e Cybill Shepherd; le scrittrici Sylvia Plath, Joan Didion, Diane Johnson, Gael Greene, Ann Beattie, Mona Simpson e Meg Wolitzer; la stilista Betsey Johnson; le giornaliste Peggy Noonan e Lynn Sherr, e molte altre. Ma prima di diventare celebri, erano state semplicemente ragazze come tante altre che si erano presentate al Barbizon armate di valigia, lettere di raccomandazione e speranze. Alcune di loro riuscirono a realizzare i propri sogni, molte altre no. Alcune tornarono nelle loro città d’origine, altre si chiusero nelle stanze del Barbizon a chiedersi cosa fosse andato storto. Tutte pensavano che il soggiorno sarebbe stato temporaneo, una soluzione pratica per il tempo necessario a organizzarsi, realizzare la propria ambizione, le proprie aspirazioni. Molte invece rimasero bloccate lì. Le più giovani le chiamavano «le Donne», simbolo di ciò che a loro volta rischiavano di diventare se non si fossero date da fare, se non si fossero sbrigate ad andarsene.

Negli anni Settanta, mentre Manhattan perdeva temporaneamente il suo sfarzo per precipitare nella desolazione, le Donne si trovavano ogni sera nella lobby per scambiarsi commenti sulle più giovani, offrendo loro consigli non richiesti sulla lunghezza giusta delle gonne o sui capelli scarmigliati. Fecero sentire la loro voce anche negli anni Ottanta, quando la clientela femminile divenne insufficiente e la direzione aprì l’hotel anche agli uomini. Ma nonostante la minaccia di andarsene, le Donne rimasero. Quando Manhattan tornò a essere un luogo ambito dal mercato immobiliare, e il Barbizon si sottopose alla sua ultima trasformazione diventando un condominio di lusso, le Donne ottennero il loro piano ristrutturato, in cui qualcuna vive ancora, in quello che adesso si chiama Barbizon/63. Hanno le cassette della posta accanto a quella di un altro residente attuale, l’attore e comico inglese Ricky Gervais.

Il Barbizon Hotel for Women, quando fu inaugurato nel 1928, non ebbe bisogno di precisare di essere riservato a donne giovani, bianche, di ceto medio-alto: a rivelarlo erano l’indirizzo nell’Upper East Side, le pubblicità che ritraevano una tipica cliente, le lettere di raccomandazione di un certo tipo. Ma nel 1956 apparve al Barbizon una studentessa della Temple University, un’artista e ballerina di talento di nome Barbara Chase. Fu molto probabilmente la prima afroamericana ad alloggiare nell’hotel. Il tempo che vi passò trascorse senza incidenti, anche se era protetta non solo dalla sua bellezza e dai suoi successi, ma anche dalla rivista «Mademoiselle». La direttrice della rivista, Betsy Talbot Blackwell, una potenza nel mondo editoriale newyorkese, l’aveva portata a New York per il mese di giugno essendo una delle vincitrici del prestigioso stage in redazione. Nessuno era certo che la direzione del Barbizon avrebbe accolto Barbara Chase. Invece l’accettarono, anche se omisero di parlarle della piscina nel seminterrato. Nella redazione di «Mademoiselle», in Madison Avenue, Betsy Talbot Blackwell faceva uscire Barbara dalla stanza quando si presentavano clienti provenienti dagli Stati del Sud venuti a incontrare le giovani praticanti di quell’anno.
Il Barbizon e «Mademoiselle» erano per molti versi in simbiosi, si rivolgevano allo stesso tipo di donne, erano all’avanguardia del cambiamento, spesso in modo radicale, finendo tuttavia per trovarsi sorpassati dagli interessi e dalle priorità in continuo mutamento delle donne che costituivano il loro target. Quindi è impossibile raccontare la storia del Barbizon senza percorrere i corridoi degli uffici di «Mademoiselle». Nel 1944 Betsy Talbot Blackwell aveva deciso che le vincitrici dello stage in redazione – invitate a Manhattan in giugno per seguire come ombre le redattrici di giorno e concedersi cene raffinate, serate di gala luccicanti e cocktail party sofisticati la sera – avrebbero alloggiato al Barbizon. Il concorso attirava la crème delle giovani studentesse universitarie e aprì le porte del Barbizon a persone come Joan Didion, Meg Wolitzer e Betsey Johnson. Ma fu Sylvia Plath, la più famosa praticante di «Mademoiselle», ad accrescere la celebrità dell’hotel. Dieci anni dopo la sua permanenza in albergo, e poco prima del suo ultimo, riuscito tentativo di suicidio, avrebbe chiamato il Barbizon “Amazon”, e ne avrebbe rivelato i segreti nel suo famoso romanzo La campana di vetro.

Le promettenti vincitrici del concorso di «Mademoiselle» dividevano l’hotel con le studentesse della mitica Katharine Gibbs Secretarial School, cui erano riservati tre piani dell’albergo con tanto di chaperon, coprifuoco e tè. Queste ragazze in guanti bianchi e cappellini dall’angolazione perfetta, secondo il regolamento della Gibbs, rappresentavano le nuove opportunità per le ragazze di provincia che non potevano conquistare New York recitando, cantando o ballando, ma che grazie alla dattilografia riuscivano a sfuggire alla propria cittadina d’origine per immergersi nello sfarzo e nel fascino di Madison Avenue. Tuttavia furono le modelle, che inizialmente lavoravano per la Powers Agency ma che passarono poi in massa alla nuova agenzia Ford, diretta da due donne coraggiose in una brutta casa brownstone, a rafforzare la reputazione del Barbizon come “casa delle bambole”. Dietro quelle pareti, però, nelle stanze dove abitavano donne in tacchi a spillo sempre a caccia di corteggiatori, aleggiava anche la disillusione. La scrittrice Gael Greene tornò al Barbizon, due anni dopo la sua prima permanenza come praticante insieme a Joan Didion, per raccontare di tutte coloro che non erano considerate “bambole”; chiamava le ospiti trascurate «Donne Sole». Alcune si sentivano talmente sole da tentare il suicidio: spesso la domenica mattina perché, come osservato da una delle Donne, il sabato sera era consacrato agli appuntamenti galanti… oppure no. E le domeniche potevano essere difficili, se non insopportabili. I responsabili del Barbizon, Mrs Sibley e il direttore Hugh J. Connor, facevano in modo che i suicidi passassero sotto silenzio e apparissero di rado sui giornali. Sapevano che l’apparenza era tutto, ed era meglio pubblicizzare la cliente più celebre del Barbizon, Grace Kelly, che le ospiti disperate.

foto presa dal web

Paulina Bren è docente al Vassar College, dove insegna studi internazionali, di genere e dei media. Il suo libro The Greengrocer and His tv: The Culture of Communism after the 1968 Prague Spring (Cornell up, 2010) ha vinto il Council for European Studies Book Prize, l’Austrian Studies Association Book Prize, ed è stato selezionato per il Vucinich Book Award. È anche co-curatrice di una raccolta di saggi intitolata Communism Unwrapped: Consumption in Cold War Eastern Europe (Oxford up, 2012).

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Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la curatrice del blog letterario "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga.

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