Segnalazione “La via delle sorelle”

Nella vita i legami che scegliamo ci definiscono più di quelli in cui ci troviamo nascendo. Per ogni donna il rapporto con le amiche è una relazione fondativa, capace di determinare la direzione di un’esistenza intera: di indicare una via. Ci sono le amiche sorelle, unite da un legame simbiotico; le complici di sfide e trasgressioni; le compagne in cui specchiarsi per riconoscersi; ma anche quelle che tradiscono perché sanno colpire nel punto di massima debolezza: le amiche geniali, le amiche fatali. È in questa misteriosa incubatrice di fioriture, in questo regno magico e a volte inquietante fatto di presenze cangianti che Gaia Manzini sceglie di addentrarsi. Le vicende di amiche passate alla storia – scrittrici, artiste, donne coraggiose – si intrecciano con quelle delle amiche di una vita, in un controcanto che lascia emergere dell’amicizia le sfumature più delicate e difficili da pronunciare. Se sono donne destinate a lasciare traccia di sé o solo incontri fugaci non conta: ogni legame, in queste pagine, racchiude lo stesso potere trasformativo. Un caleidoscopio di racconti nel quale rileggere la nostra vita, ripensare i rapporti che ci hanno fatto crescere, riconoscere aspetti inconfessabili di noi che solo certe amicizie hanno la forza giusta per poter sfiorare. La via delle sorelle è, al contempo, un’indagine letteraria su un sentimento troppo spesso dato per scontato e un vibrante memoir dedicato a tutte le amiche che hanno saputo cercarsi e riconoscersi. Perché l’amicizia è sempre e comunque un viaggio al centro del proprio cuore.

“L’amicizia non si cerca, non si sogna, non si desidera;
si esercita (è una virtù).”

SIMONE WEIL

“Sorelle, a voi non dispiace
ch’io segua anche stasera
la vostra via?”
ANTONIA POZZI

FRIDA

Eravamo partite verso le dieci del mattino. Ci avevano assegnato due cavalli mansueti per attraversare le piantagioni di tabacco e arrivare al punto base per l’escursione. La mia amica ogni tanto si girava, mi guardava con l’espressione forzata da esploratrice. Intorno a noi si innalzavano rilievi calcarei che sembravano mucchi di fieno: stretti e alti qualche centinaio di metri. Non ci interessava scalarli, ma trovare il cuore. La “grande grotta” era il cuore della montagna. Il cuore era un buco: bastava quel pensiero a smorzare il mio entusiasmo.

La nostra guida, baffi, stivali neri e cappello con la visiera, ci aveva suggerito di lasciare i cavalli sotto una tettoia di legno. Da lì avremmo proseguito a piedi.

L’ingresso della grotta era una specie di galleria: non appena ti addentravi per una ventina di metri la temperatura si abbassava drasticamente. Abbiamo chiesto alla guida di fermarsi per indossare la camicia di jeans sopra la maglietta ed estrarre le torce dagli zaini.

Avevo conosciuto la mia amica sul lavoro. Non avrei voluto partire con lei per le vacanze estive, ma aveva insistito. Quella della “grande grotta” era stata una sua idea. In lei c’era qualcosa di sventato nonostante l’aspetto. Soprattutto risuonava folle la risata ingiustificata che arrivava a coprire i momenti drammatici. Aveva riso di gola anche quando ci era sembrato che la prima grotta si chiudesse davanti a noi come un sipario man mano che la illuminavamo con le torce. La guida ci aveva indicato una spaccatura poco più in alto: per accedere alla grotta principale avremmo dovuto strisciare per terra, in mezzo a chissà quali insetti, con la roccia a pochi centimetri dalle nostre teste.

Io non vengo, ho detto. La guida mi ha osservato perplessa, la mia amica invece mi ha dato una spinta. Aveva gesti arroganti: Muoviti, ma lo sguardo spaventato. Non mi lasciare sola. A lei piaceva Frida Kahlo, ne parlava spesso; comprava poster, piatti, bracciali che riportavano l’immagine della pittrice messicana. Il giorno della gita indossava una maglietta con un suo primo piano. Le piaceva Frida Kahlo perché aveva il caos dentro, ma la sua sofferenza era colorata. Il suo dolore fioriva da tutte le parti.

È per questo che la mia amica, nei miei ricordi e in queste pagine, sarà sempre e solo Frida.

La grotta era gigantesca, una cattedrale. Veniva voglia di sussurrare una preghiera verso l’alto. Ci avevano detto che c’erano delle pitture rupestri. Le scorgemmo su un muro illuminato dove sostavano altri escursionisti, ma era vietato scattare fotografie.

Le stalattiti che pendevano acuminate nell’oscurità sembravano denti di un gigantesco mostro. Il cuore della montagna era una gola che mi avrebbe inghiottita.

Per Frida era diverso. Era trascinata dall’eccezionalità di quel momento e voleva vedere la sorgente. La guida ce l’aveva raccontato durante il tragitto a cavallo: in una parte della grotta c’era una sorgente di acqua dolce da cui nasceva un fiume sotterraneo.

Si trovava dietro una paratia di rocce, illuminata da faretti immersi nell’acqua. Un occhio azzurro aperto nell’oscurità. Due turisti a qualche metro da noi si stavano rivestendo. Potete fare il bagno, è molto fredda, basta un attimo, l’acqua della sorgente è sacra, ringiovanisce.

Tuffiamoci dentro come due sorelle, ha detto Frida. Si stava già togliendo la camicia. Non ci penso neanche, ho risposto facendo un passo indietro. Il suo modo di sfidarmi non mi piaceva, mi metteva a disagio, ma solo perché non mi rendevo conto di quello che nascondeva. Non avevo capito che era un’invocazione a farsi salvare.

La fissavo nuotare in reggiseno e mutande. L’acqua era così chiara da sembrare aria. Quella frase mi è tornata in mente molte volte. Come due sorelle. Le sorelle sono persone che si riconoscono in modo complesso, e riconoscendosi le une nelle altre capiscono chi sono.

Frida e io ci siamo incontrate tra i venti e i trent’anni. Trascorrevamo il tempo libero ad accumulare sogni, possibilità per la nostra vita che non era mai quella che stavamo vivendo. Ma non sapevamo cosa volessimo davvero. L’ambiente e la città dove vivevamo ci dominavano, ci imponevano una felicità da esibire, ci dicevano di essere vitali, creative, spregiudicate. Che dovevamo nascondere la sofferenza con colori sgargianti. Cosa pensavamo davvero? Come ci vedevamo? Che donne saremmo state in futuro? Eravamo al centro della montagna ma non di noi stesse. E Frida quel centro non lo avrebbe trovato mai, sarebbe scivolata nel buco senza aver trovato il suo cuore.

Forse le cose sarebbero andate diversamente se mi fossi buttata in acqua anch’io.

Mentre la osservavo, ho sentito il frinire di una cicala. Cosa ci faceva una cicala al centro della terra? Poi è arrivato un gruppo di turisti francesi. Erano in tanti, scattavano foto anche se era proibito. La nostra guida ci ha lasciato per intervenire.

Mi ero stufata, volevo che la mia amica uscisse dall’acqua, volevo andarmene.

Mi sono girata di nuovo verso la sorgente, ma questa volta Frida non c’era più. Non era neanche uscita: i suoi vestiti si trovavano ancora sul masso dove li aveva lasciati. La cicala friniva più forte.

L’ho chiamata urlando e la grotta è risuonata del mio spavento. Si sono zittiti tutti, si sono girati a guardarmi, ma non ci ho fatto caso. Con uno slancio del bacino mi sono gettata in avanti, le mani aggrappate al bordo roccioso, il respiro acido nelle narici.

Non ho neanche avuto il tempo di gridare un’altra volta che lei era già riemersa come un proiettile. Rideva dello scherzo che mi aveva fatto e della mia faccia da scema.

Ti sembra il posto per fare cavolate? Irresponsabile, deficiente. E tu noiosa, vecchia. Io non lo volevo fare questo viaggio, anzi, non lo volevo fare con te. Abbiamo litigato, abbiamo urlato più dei francesi. La grotta era diventata una piazza del mercato. Le ho tirato i vestiti addosso con tutta la forza che avevo e lei ha indietreggiato. Ero pronta all’esplosione, invece si è come congelata. Mi ha guardato con occhi gravi che si facevano via via inconsolabili. In mutande, la pelle ricoperta di brividi, si è piegata per asciugarsi pudica con la camicia di jeans che non avrebbe più indossato sopra la maglietta. Senza neanche guardarmi, mi ha detto Abbracciami che ho freddo. Ho esitato, poi l’ho stretta a me, e qualcosa si è sciolto.

Frida non è più nella mia vita da dodici anni. Un giorno, però, mentre mi trovavo ricoverata in ospedale per un incidente, in qualche modo è tornata e io mi sono ricordata del tuffo mancato che ci avrebbe unite come consanguinee. È stato in quel momento che ho capito di aver avuto molte sorelle nella mia vita, nonostante sia figlia unica.

È di loro che voglio raccontare: amiche con cui ho iniziato a sognare, che ho amato tanto da voler essere come loro, con cui ho immaginato grandi imprese; amiche che mi hanno indicato una strada. E poi amiche lontane da me nel tempo e nello spazio, artiste e scrittrici che mi hanno ispirato anche per la devozione che hanno avuto nei confronti di altre donne a loro vicine.

Si cammina da sole. Ma solo appaiate si trova un ritmo.

Posso raccontarmi solo a patto di raccontare altre donne, solo riconoscendo la mia vita dentro altre vite. Riconoscersi rispecchiandosi.

Scrivo nidificandomi nella vita di altre persone, alcune non le ho mai conosciute. Parlare di altre vite per ricavare parentesi nella propria, e di parentesi in parentesi inanellare un discorso nuovo. Ho voluto scrivere questo viaggio al centro di me stessa, rievocando le sorelle che mi hanno accompagnato dall’infanzia all’età adulta. L’amicizia è una strada verso il proprio cuore.

OLTRE IL GIARDINO

La casa si trovava in montagna, nel bergamasco, a pochi chilometri dal Pizzo della Presolana. Mia madre diceva che la Presolana assomigliava alle Dolomiti, anche se sulle Dolomiti non ci era mai stata. Io annuivo distratta, non mi interessavano granché le montagne. Mi interessava il cortile delle due palazzine dove si trovava casa nostra. Mi ricordo, o meglio, credo di ricordare, gli anni dell’infanzia meno remota, i natali ricoperti di neve e riscaldati dal camino; i ravioli della bottega Migliorati e gli anziani che giocavano a bocce. Mi ricordo il bob rosso con il numero 53 stampato davanti, lanciato a tutta velocità giù dalla piccola discesa tra gli abeti. E poi la strada sterrata per arrivare al cancello del nostro comprensorio. Quando nevicava era impossibile percorrerla in macchina senza aver messo le catene. Era bellissimo pensarsi isolati da tutto, perché per la mia mente bambina essere isolati voleva dire essere protetti.

Soprattutto, ho impressi gli infiniti pomeriggi trascorsi a giocare a nascondino con la paura terribile di essere scoperta, oppure il terrore – più vasto e profondo – di non essere più trovata da nessuno. I bambini che scendevano dagli appartamenti ogni pomeriggio erano una piccola comunità in cui gli adulti non erano contemplati. Prendevano vita solo a una cert’ora sotto forma di voci: la vasca da bagno era piena e fumante, la cena era pronta. Ricordo soprattutto Marina e Silvia, che avevano la mia stessa età. Silvia e Marina: le prime due vere amiche di cui ho memoria. Le prime sorelle.

È arrivata! È arrivata! dicevo a mia madre quando, a vacanze iniziate, sentivo salire dalle scale i passi di qualcuno. Silvia abitava sul mio stesso pianerottolo. Era sempre lei a venire da me. Ci sedevamo a giocare per ore sul tappeto della mia stanza, un tappetone di lana pelosa che sembrava un prato di erba albina. Silvia aveva tutti i denti da latte neri e cariati, ma nessuno badava troppo al suo sorriso di peltro. In montagna ci veniva con gli zii. Casa loro era molto diversa dalla nostra. C’erano ciotole di caramelle ovunque e ovunque pelli di animali. Per terra: zebre, antilopi, bufali irsuti. Alle pareti, scatti dell’Africa che ritraevano lo zio cacciatore durante i suoi lunghi safari in Kenya. Jeep, fucili, sahariane, animali tenuti per le corna, temibili elefanti su uno sfondo sfocato dal calore. Non mi piaceva sedermi sulle pelli di animale. Mi dava fastidio, soprattutto in estate con le gambe nude e sudate. C’era sempre qualche pelo che rimaneva appiccicato alle cosce: mi sembrava l’inizio di una metamorfosi.

Marina abitava nella palazzina gemella, al piano terra. Appena arrivava in montagna correva sotto casa nostra e ci chiamava a gran voce. Se era inverno, era lei a salire; se era estate, eravamo Silvia e io a scendere.

Non c’era mai disaccordo tra noi: pensavamo di volere le stesse cose, anzi, volere le stesse cose ci rendeva più forti. Ci sbagliavamo, ma sbagliando creavamo la nostra complicità. Le amicizie dell’infanzia hanno la consistenza dell’acqua di ruscello. È una purezza che nel ricordo ti sorprende sempre. Forse tra di noi c’erano piccole gelosie, piccole invidie; sicuramente ho sognato di venire impagliata dallo zio cacciatore di Silvia, ma non lo ricordo. Voglio credere che certi affetti siano stati cristallini; ho bisogno di un serbatoio di purezza a cui attingere di tanto in tanto.

Non siamo mai andate a sciare insieme né ci siamo mai sentite al nostro ritorno in città. Marina, Silvia e io rinascevamo le une per le altre solo giocando. Non ci chiedevamo niente delle nostre vite oltre il giardino. Eravamo bambine e il giardino ci bastava. A un certo punto però abbiamo cominciato a volere l’oro…

GAIA MANZINI ha scritto Nudo di famiglia (Fandango 2009, finalista Premio Chiara), La scomparsa di Lauren Armstrong (Fandango 2012, selezione Premio Strega), Diario di una mamma in pappa (Laterza 2014), Ultima la luce (Mondadori 2017), Nessuna parola dice di noi (Bompiani 2021) e A Milano con Luciano Bianciardi. Alla scoperta della città romantica (Perrone 2021).

Collabora con il Foglio, L’Espresso e Sette.

Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la curatrice del blog letterario "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga.