Segnalazione “Il mio nome è Aoise”

Una volta arrivata a Castel Volturno, ad Aoise non rimane nulla, neppure il suo nome. Lei e le sisters, Joy, Friday, e Prudence, hanno già giurato il Ju Ju e attraverso i riti sciamanici, le ragazze nigeriane restano vincolate per anni al loro destino di prostituzione. Se disobbediscono, gli spiriti se la prendono con le loro famiglie. E poi senza soldi, dove possono andare? All’interno della Connection House, Aloise vive esperienze di estrema violenza. Ma in quell’inferno in terra si consumano anche sentimenti di amicizia, di complicità di protezione fra donne. Donne come lei, ognuna con un nome, una faccia e una storia. Una storia vera, un romanzo sull’orrore della prostituzione e dello sfruttamento umano, ma anche sulla forza dell’amicizia e dell’amore, sul coraggio e su quella resistenza nutrita dalla speranza che possono portare anche le più disgraziate ragazze di Benin City a costruirsi una vita nuova, lontano dalla fame e dallo sfruttamento.

Prefazione


Questo romanzo è un urlo lancinante contro uno dei fenomeni più criminali e disumanizzanti del nostro tempo: la tratta delle donne africane per il mercato del sesso. L’autrice, Marta Correggia, ha scelto la forma letteraria del romanzo per sentirsi più libera, “romanzo” che è il frutto maturo di anni di lavoro
come magistrato nella Procura di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) da cui dipende Castel Volturno, uno
dei luoghi chiave della tratta del sesso e scenario della narrazione.
Qualcuno troverà il linguaggio crudo, perché cruda è la realtà che descrive. Siamo infatti davanti a uno dei fenomeni più vergognosi della nostra era. Un fenomeno che ricorda la tratta degli schiavi dall’Africa alle Americhe: dai dieci ai venti milioni di neri deportati come schiavi per il lavoro nelle piantagioni o nelle miniere; un crimine perpetrato dalla tribù bianca, purtroppo con la collaborazione fattiva degli stessi africani.
Così avviene anche nella vergognosa tratta delle donne per il mercato del sesso in Europa. Il tutto è in
mano a mafie africane, tra cui quella nigeriana, oppure a “imprenditori criminali”, o a “reti criminali” che sono anche organizzazioni ribelli, o a “gruppi armati regolari” che operano nella zona saheliana. In Nigeria
il 94 per cento delle donne vittime di tratta proviene da Edo State, la cui capitale è Benin City. Sono infatti
le organizzazioni mafiose che fanno il lavoro sporco d’indurre, con la lusinga di un lavoro in Europa e con
l’aiuto di riti magici (soprattutto il vudù), tante giovanissime donne a partire per il vecchio continente.
«L’assoggettamento delle donne trafficate avviene attraverso il rito chiamato juju che potremmo tradurre
come “giurare su Dio”», così afferma l’amico Fabrizio Floris nel suo bel libro Il traffico delle vite. Una vera e propria ordalia rituale con la promessa di pagare il debito del viaggio, sotto minaccia di morte, debito che può oscillare dai 25.000 ai 60.000 euro netti. Una volta agganciata la vittima, c’è chi organizza il trasporto, che costa intorno ai 3.000 euro.
Tutte le rotte hanno un unico sbocco: la Libia. La traversata del Sahara su macchine sgangherate è micidiale, come lo è il passaggio in Libia, che è diventata un inferno per i migranti in transito, ma soprattutto per le donne, che sono costantemente violentate.
Un inferno, questo, creato dalle criminali politiche migratorie dell’Unione Europea e dell’Italia, la cosiddetta politica dell’“esternalizzazione delle frontiere”.
L’Unione Europea non vuole che i migranti arrivino in Europa, per cui paga i governi affinché trattengano
i migranti che arrivano nei loro paesi. In piena guerra civile e in mano alle varie milizie, nel 2011 la Libia ha
siglato un Memorandum of Understanding con l’Italia, con cui il governo di Tripoli s’impegna a trattenere
i migranti sul suo suolo e a riportarli indietro in caso di fuga via mare. Nel 2021 la Guardia costiera libica
ne ha intercettati oltre 30.000 e li ha ricondotti nei lager, dove gli uomini vengono torturati e le donne violentate e dove restano per mesi, se non per anni, a subire tali orrori.
Poi c’è la tragedia della traversata del Mediterraneo su barconi fatiscenti che comporta anche perdite di vite. Come ha giustamente detto un responsabile del progetto accoglienza del Sermig a Torino: «L’attraversamento del deserto, le violenze subite, la durata del viaggio (mesi e a volte anni) è una demarcazione importante, perché quando arrivano in Italia la strada è solo una delle violenze subite che le ragazze non vedono neanche più come tale».
Giunte in Italia, le donne vengono prese in carico da membri attivi di gruppi criminali nigeriani, i quali
facilitano l’ingresso illegale delle vittime e le consegnano alle maman (o madame), ossia donne nigeriane
che pianificano la loro attività di prostituzione e che, per assicurarsi la fedeltà delle vittime, le costringono a volte a un altro “patto di sangue”: bere alcune gocce del sangue mestruale della maman stessa. Le donne sono costrette a prostituirsi anche dieci, quindici volte al giorno, al prezzo di 15 euro a prestazione. Sono le schiave del sesso! Molte di loro vengono portate anche a Castel Volturno.
Uscire da questo inferno è molto difficile, ma non impossibile. Lo vediamo in questo romanzo nell’esperienza della protagonista Erabon, che leggerà su un poster la seguente frase: Per trovare la salvezza, bisogna solo desiderarla

Il primo passo sarà rivelare il suo vero nome: «Mi chiamo Aoise».
Due importanti avvenimenti le danno la spinta verso la libertà. Il 18 settembre 2008 la camorra uccide a
sangue freddo sei africani, la cosiddetta Strage di Castel Volturno; immediatamente gli africani del posto,
che rappresentano quasi la metà della popolazione, scendono in strada dietro a uno striscione, Uniti contro la camorra, creando scompiglio nella cittadina. Il secondo episodio che tocca profondamente Aoise/Erabon sarà il concerto di Myriam Makeba – che aveva ispirato la lotta di liberazione dei neri in Sudafrica –, svoltosi a Castel Volturno il 9 novembre 2008. Sul palco c’è un’enorme scritta: Freedom for Africans, che invita gli africani a rivendicare i propri diritti.
Aoise capisce allora che anche lei può liberarsi dalle sue catene.
Davanti a questa immane tragedia, i maschi italiani devono interrogarsi. È mai possibile che nove milioni
di maschi italiani siano in cerca di schiave del sesso? La cosa più imbarazzante è che il 70 per cento di questi sono sposati. Il governo, la Chiesa, la società civile devono reagire. Da parte del governo non vedo una seria volontà politica di stroncare tale fenomeno criminale: basterebbe controllare i flussi di denaro provenienti dalla prostituzione, che escono dall’Italia attraverso la Western Union e altre agenzie, per fare un passo avanti. Ma anche la Chiesa deve accentuare il messaggio evangelico sul rispetto della donna. Infine la società civile, soprattutto i movimenti femministi, devono impegnarsi contro la “cosificazione” del corpo delle donne africane (e non solo).
Questo romanzo è un grido appassionato da parte di una donna, il magistrato Marta Correggia, che denuncia con forza. Non possiamo più far finta di non sapere. Tocca a tutti noi reagire a questa nuova schiavitù per cancellarla dalla storia.


Alex Zanotelli

A mio padre, che ne sarebbe stato fiero

1

Il primo era grasso, con le gambe sottili, le ginocchia rugose, i denti guasti. E puzzava. Un miscuglio indecifrabile di carne di pollo, aglio, uva sultanina e petrolio. Le disse di girarsi e la penetrò così forte che
Erabon sentì lacerarsi non solo il ventre ma anche un pezzetto della sua anima.
Il secondo era ossuto e odorava di mare, doveva essere un pescatore. Quando si stese su di lei, pesava
quanto una coperta estiva e la lacerò ancora, ma un po’ meno di prima.
Il terzo era basso, la barba lunga e le mani piccole.
Quando le toccò le gambe, sentì uno strano formicolio diffondersi per il corpo e le venne da ridere.
Il quarto già lo ricordava a stento, un soggetto a metà tra la sua terra e quella dei bianchi. Il quinto, il
sesto, il settimo erano dissolvenze, fantasmi che si appropriavano del suo corpo per il tempo necessario a
disarmare le loro ferite.
In fondo era tutta una questione di abitudine.
Il corpo di Erabon era il tramite per placare la rabbia e la frustrazione, o per sfogarla. Facevano sesso con
lei per quindici euro e lei si offriva così com’era, con le calze rotte, gli occhi gonfi del pianto della notte, i segni delle botte, le unghie spezzate laccate di rosso, i capelli ricci arruffati, la bocca carnosa, il naso piccolo e perfetto e il corpo morbido.
Era bella, ma lì dentro la bellezza era una iattura: lavorava più di tutte, fino a dieci clienti al giorno, cosa
che le attirava l’invidia delle sisters.
Prostituirsi non era facile, almeno all’inizio. Come ogni mestiere aveva bisogno di pratica e lei non sapeva
fare la puttana. Quando in Libia le avevano chiesto se lo sapeva fare aveva risposto di sì, come le aveva suggerito una compagna di viaggio. Si era fidata del consiglio di quella donna dagli occhi grandissimi.
Molto tempo dopo, Prudence le avrebbe raccontato cosa le era successo dopo che ingenuamente aveva
risposto di no. L’avevano violentata, l’avevano lasciata a terra e poi le avevano detto adesso sai come si fa.
All’inizio non sapeva dove guardare. Doveva guardarlo negli occhi oppure fissargli il torace, il pene o il
sedere? Decise di guardare a terra, o di lato, oppure al soffitto. Guardare altrove era come tenere gli occhi
chiusi.
Doveva decidere anche dove mettere le mani. Abbracciarli, stringerli, palparli? E i gemiti, quanti doveva
farne? Due, tre, quattro? E come faceva a fingere?
E poi c’erano le gambe, anche se all’inizio cercava di tenerle strette, erano i clienti che le allargavano e allora capì che cedere era l’unico modo per farsi meno male possibile e tornare ad abbracciare Amist.
Con il tempo sentì di non essere più Erabon quando era con loro, ma solo un corpo, un ammennicolo,
una scatola di latta impolverata sulla mensola di una cucina. Man mano che prostituirsi le divenne più naturale, cominciò a sovrapporre nomi e volti, a confondere legami e relazioni, origini e provenienza. E diventò una puttana più brava.
Aveva vent’anni, e quando stringeva Amist, il suo orsacchiotto di pezza, quel rosa si accostava bene al nero del suo volto, delle braccia, del corpo. Al nero di tutto il suo essere…

Marta Correggia è magistrato dal 2002, vive e lavora a Napoli. Ha pubblicato racconti su antologie e riviste letterarie (Perrone, Storie, Tina la rivistina) e ha curato pubblicazioni di carattere giuridico (Guida al diritto – Sole 24 ore, Giuffré, Simone editore) “Il mio nome è Aoise” è il suo primo romanzo.

Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la curatrice del blog letterario "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga.