“Muori per me” di Elisabetta Cametti edito da Piemme in tutte le librerie e on-line

Notte fonda, una ragazzina chiama la polizia: sua madre è scomparsa. Si tratta dell’assistente personale di Ginevra Puccini, una delle fashion blogger più famose al mondo. Il corpo di Julia viene trovato nelle acque del lago di Como, insieme a quello di altre quattro donne. I cadaveri presentano ulcere evidenti su pelle e mucose, una reazione allergica rara, causata da una sostanza sconosciuta, come accerta l’autopsia. Gli indizi, che puntano tutti a un unico colpevole, diventano una prova con la scoperta dell’arma del delitto.
Quando il caso sembra chiuso, però, sulle pagine social di Ginevra Puccini compaiono dei video sconvolgenti: lei conosce il nome delle vittime non ancora identificate, la loro storia e il gioco perverso che le ha uccise. Ma Ginevra non si trova. Potrebbe essere il carnefice o la prossima vittima. La cerca la polizia. La cerca la sua famiglia. La cerca chi vuole metterla a tacere.
Quelle immagini denunciano un sistema di corruzione e comando, rivelando la linea di sangue che conduce tra i rami di una famiglia potente e dentro una delle più importanti maison della moda internazionale. Dove forze dell’ordine e giustizia non sono mai riuscite ad aprirsi un varco, sono quei post a fare vacillare l’impero.
Perché c’è una voce che i soldi e il potere non possono ridurre al silenzio, quella che rimbalza sui social network e diventa virale. Una voce che neanche la morte può fermare.

Alla gazzella che rincorre il leone

Puntata 329

Puntata trecentoventinove: vinci quando ti liberi di maschere, menzogne e illusioni. Il futuro è di chi ha il coraggio di indossare solo la verità.

Esplosione uguale morte. Avevo una decina d’anni e stavo tornando a casa in moto con mio padre, quando un’auto rossa ci era sfrecciata accanto. La musica alta e la velocità avevano fatto tremare l’aria, forse anche l’asfalto. Ricordo ogni istante: il giovane uomo alla guida non era riuscito a controllare la vettura. In curva aveva invaso la corsia opposta, travolgendo l’utilitaria bianca che procedeva nell’altro senso di marcia. A bordo c’erano genitori e due figli.

Lontani dai centri abitati e soli sulla carreggiata, eravamo l’unico aiuto che il destino avesse offerto loro.

Mio padre aveva iniziato a dire no. Un no dopo l’altro, in una sequenza infinita. Lo ripeteva come un mantra. Come una preghiera. Come se potesse negare l’evidenza, tornare indietro e fermare il tempo. Cambiare la scena.

Il suo fiato era rotto mentre si toglieva il casco e mi esortava a non spostarmi dal bordo strada, ma fermo quando parlava con i soccorsi. Aveva dato indicazioni sul luogo, sulla dinamica. Sulla tragedia che avevamo di fronte.

Se dall’auto rossa il conducente era sceso con le proprie gambe, dentro il veicolo bianco non si muoveva nessuno. Non una mano, una palpebra. Niente. Non si muoveva nemmeno il bambino che era atterrato sul cofano dopo avere attraversato il parabrezza come un proiettile.

Seguivo mio padre con gli occhi e vedevo la sua esitazione: poteva toccarlo? O era meglio aspettare i medici? Il sole bruciava le lamiere e la ragione aveva prevalso sulla cautela: facendosi forza, se l’era stretto al petto.

«Vieni ad aiutarmi!» gridava al pirata della strada. «Dobbiamo tirarli fuori, prima che prenda fuoco tutto!»

Ma l’altro ciondolava, farfugliava parole incomprensibili. Pareva assente anche a se stesso.

Non potevo rimanere a guardare. Avevo un fratello piccolo, sapevo come prendermi cura di un bambino.

«Dallo a me…» Mi ero precipitata in mezzo alla strada e tendevo le mani.

Se penso allo sguardo di mio padre, mi si annoda la gola: doveva decidere se gettarmi dentro l’incubo o rischiare di perdere delle vite.

«Stai attenta.» Me lo aveva sistemato tra le braccia, accompagnandomi per qualche passo.

Una manciata di secondi più tardi cercava di sradicare le portiere. Strattonava, dava calci, usava un ferro. Non si aprivano. Né le due anteriori, né quella dietro con il finestrino tinto di sangue.

La testa del bambino si era gonfiata. Non sembrava più una testa e lui non sembrava più un bambino. Per non svenire, avevo chiuso gli occhi. Una volta riaperti, mio padre stava trascinando fuori dall’auto una ragazzina. Mi ero fatta l’idea che avesse più o meno la mia età, per via dei capelli lunghi e delle gambe sottili. Per il resto, era irriconoscibile.

Poi è successo tutto velocemente.

Il pirata fuggiva per i campi.

Le sirene erano un ronzio in lontananza.

I veicoli sono esplosi.

Un boato. Fiamme altissime. Prima gialle, poi scure come il fumo che annebbiava il cielo e la mia vista.

Ho urlato. E l’urlo si è sciolto in pianto mentre mio padre mi faceva da scudo. Non contro le vampate, erano distanti. Ma per proteggermi dalla paura, dal dolore, dall’amarezza che sapeva non ci avrebbero più lasciato.

In pochi minuti il fuoco aveva divorato tutto.

Non si è salvato nessuno.

Il bambino ha smesso di respirare in ospedale. La ragazzina in ospedale non ci è mai arrivata.

Esplosione uguale morte.

Da allora, se immagino la fine di qualcosa vedo un’esplosione.

Ed è con un’esplosione che avrò la mia vendetta.

Trecentoventinove bombe.

La deflagrazione sarà violenta. Inaspettata, spietata.

Scriverà una pagina di storia, perché quando avrò finito non si rialzerà nessuno e chi avrà ancora respiro, sarà comunque morto.

Rimarrà in piedi solo la verità.

1

Farfalle e api si contendevano un’astranzia rosata. Le formiche correvano sullo stelo. Francesca si distese, lasciandosi affondare nell’erba. Osservò da quella prospettiva: la corolla cambiava colore a ogni passaggio di nuvole, mentre l’aria la faceva tremolare. Gli insetti si muovevano indaffarati come se la pianta fosse il centro dell’universo. Sentì di avere qualcosa in comune con loro: anche per lei esisteva un centro dell’universo, ed era proprio la montagna dove cresceva quel fiore.

Inquadrò e scattò una foto. Il clic stridette nella sinfonia di ronzii e fruscii di foglie.

Dalla rubrica del cellulare selezionò l’unico contatto a cui non aveva attribuito un nome ma un punto esclamativo, e inviò l’immagine. Senza commenti, perché non ce n’era bisogno.

Si alzò in piedi. «Orso, è ora di rientrare!»

Il pastore biellese scodinzolò, correndo verso il sentiero. Fiutò un ramo spezzato e lo addentò, per poi tornare indietro e salterellare di fronte a lei.

«Non ti stanchi mai, eh?» Afferrò il bastone e lo lanciò lontano.

Orso aveva tre anni. Nato in una cucciolata insieme a due femmine, era sempre stato il più vivace. A cinque mesi si era procurato un’occlusione intestinale ingerendo un pezzo di corda. Era una veterinaria, aveva capito subito che si trattava di un’ostruzione da corpo estraneo: il cane accusava forti dolori addominali e vomitava bile.

«Guarda tu stessa.» Il medico della clinica dove aveva seguito il tirocinio sapeva di parlare con una collega. «Lastre ed ecografia ci danno un riscontro chiaro: l’occlusione è tra il digiuno e l’ileo. La compressione diretta sulla parete causa stasi venosa e edema, che possono generare ulcerazione, necrosi e perforazione. C’è il rischio di ipovolemia.» Era andato dritto al punto: «Dobbiamo intervenire chirurgicamente per rimuovere il corpo estraneo e il tratto di intestino danneggiato. Sai bene cosa significhi: le probabilità di sopravvivenza sono basse e, anche se riusciamo a salvarlo, non sarà mai un cane da pastore. Dovrai mettere in conto complicazioni post operatorie. La scelta è tua, ma chiunque altro con il vostro lavoro lo sopprimerebbe».

Francesca non aveva neppure preso in considerazione l’idea. E quel groviglio di pelo grigio maculato, con un occhio azzurro e l’altro marrone, era diventato la sua ombra.

Attese che le riportasse il bastone, per tirarglielo con più forza. Raggiunto il “Gomito della strega”, dove il sentiero piegava stretto su una gola, udì gli altri pastori biellesi abbaiare. Rallentò per guardare la piana sottostante: il gregge si era già mosso, rimaneva solo un gruppetto di pecore abbarbicato su un’altura. Volpe e Faina lo tenevano a bada.

«Le tue sorelle sì che si danno da fare, non come te!»

Orso inclinò il muso, pronto a captare un suo gesto.

Lei tese il braccio. «Su, andiamo ad aiutarle!»

Il cane scattò veloce. Si fermò alla fine del tornante per ricevere un cenno di conferma sulla direzione. Ripartì e la aspettò prima della curva successiva. E così per tutta la discesa.

Quando lo vide zampettare spedito con le orecchie basse e la coda dritta, intuì che aveva avvertito una presenza familiare.

«Ce ne hai messo di tempo…»

«Papà, pensavo fossi già alle stalle!»

Pietro si spostò dal masso su cui era seduto. «I primi giorni di giugno sono sempre i più belli, è un peccato non goderseli.» Pulì i pantaloni con le mani e indossò una camicia rossa a scacchi blu sopra la canottiera. «Tuo fratello può cavarsela da solo. Tieni, ho raccolto i mirtilli.» Le passò la bottiglia d’acqua dove li aveva infilati. «Dovrebbero bastare per la crostata.»

Francesca annuì, in attesa della domanda. La domanda.

«Ti ha risposto?»

«Lo sai che non lo fa mai.»

«Però tu sei sicura che apprezza. Sarà…» Pietro si caricò lo zaino sulla schiena. «Non riesco proprio a capire da dove arriva il tuo ottimismo. Le mandi una foto tutti i giorni, ormai da quanti anni? Quattro? Lei non ringrazia e non si fa sentire… eppure non ti sei ancora stufata.»

«E ogni sera tu mi chiedi se ci sono notizie, conoscendo già la risposta. Siamo in due a non esserci ancora stufati.»

Il padre sollevò le spalle, avviandosi verso valle.

«La verità è che ho preso da te. Entrambi abbiamo la speranza che qualcosa cambi in meglio.»

«Cos’hai fotografato?»

«Un fiore sommerso dagli insetti.» Francesca ingrandì la foto sul cellulare.

Senza ridurre il passo, Pietro estrasse gli occhiali dal taschino. «Particolare… inseriscila nel prossimo libro fotografico.»

«No, il prossimo libro è quasi pronto. E poi, queste foto sono solo per lei, un modo per farle sapere che la penso. Pubblicarle sarebbe come sciupare la nostra intimità.»

«Ma quale intimità? Secondo me sbuffa e ti manda al diavolo ogni volta che vede un tuo messaggio. Magari vorrebbe non riceverne più.»

«Allora perché nelle foto che posta sui social mostra il suo telefono con ben visibile l’immagine che le ho inviato? O la fa intravedere come sfondo del computer? Spesso la stampa e la piazza sulla scrivania in mezzo ad altri fogli, o dentro un portaritratti, oppure spunta da un libro. Se guardi con attenzione, in uno dei post della giornata c’è sempre l’ultimo scatto che le ho mandato. E se non c’è, scrive qualcosa che lo richiami tra gli hashtag.»

«Tra gli hashtag, ecco dove ti mette. Tra gli hashtag.»

Francesca rise. «È una blogger! Gli hashtag sono una parte importante della sua giornata.»

Pietro scosse la testa…

foto presa dal web

Elisabetta Cametti, classe 1970, una laurea in Economia e Commercio in Bocconi, da vent’anni si occupa di editoria e lavora tra Milano e Londra.

La stampa l’ha definita “la signora italiana del thriller”. Nel 2013 ha pubblicato il primo romanzo della serie K, I guardiani della storia, suo thriller di esordio e bestseller internazionale. Nel mare del tempo è uscito nel 2014 e Dove il destino non muore nel 2018.

Nel 2015 ha inaugurato la serie 29 con Il regista, seguito nel 2016 da Caino, entrambi molto apprezzati da pubblico e critica. I suoi libri sono stati pubblicati in 12 paesi.

È opinionista in programmi televisivi di attualità e cronaca su Rai 1 e sulle reti Mediaset.

www.elisabettacametti.com

Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la curatrice del blog letterario "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga.