“La donna che osò amare se stessa” indagine sulla Contessa di Castiglione di Valeria Palumbo

«La particolarità di Virginia è che la costruzione della sua “favola” è iniziata subito… è evidente da tempo che la visione tutta maschile di Gozzano, secondo cui per una donna è impossibile vivere per sè, tranne che non sia una perfetta e rapace egoista, ha dominato il racconto della sua vicenda».

Virginia Oldoini, contessa di Castiglione, è una delle donne più fotografate, ritratte, adulate e criticate dell’Ottocento.
In vita è stata raccontata, di volta in volta, come la più bella e la più spregiudicata delle dame alla corte di Napoleone III, perversa fin da ragazza, agente di Cavour, amica dei potenti, avida, passionale, la belle dame sans merci, speculatrice in Borsa, alleata dei Rothschild, presto appassita, pazza… Proclamava di aver fatto l’Italia e salvato il papato, però non ha trovato posto nel Pantheon dei fondatori della patria, peraltro tutti maschi fino a tempi recentissimi. Le corti europee, all’epoca, pullulavano di giovani donne belle, intelligenti, colte, disinvolte che servivano interessi vari, economici e politici, alimentando una diplomazia parallela; diplomazia, sia inteso, affidata anche agli uomini, solo che a loro poi toccavano onori, cariche e gloria, come al bel Costantino Nigra, spedito da Cavour ad adulare l’imperatrice Eugenia.
Alle donne no: scaduto il tempo di una breve giovinezza restava solo (come accadde a Virginia) la possibilità di muovere le fila di relazioni pazientemente costruite. Ma nell’ombra. Senza titoli. E, cosa che spesso si dimentica, in un quadro giuridico terrificante: l’Italia si fece senza rendere le donne cittadine. Anzi, seguendo proprio il codice napoleonico, rendendole schiave dei loro mariti.
Virginia non fu una intellettuale da campi di battaglia o da salotti militanti. Non conobbe il significato della parola solidarietà. Provò a farcela da sola. Quale donna avrebbe potuto vincere in un gioco così impari, le cui regole erano stabilite dagli uomini? Rivendicando regole proprie, è stata travolta dalla macchina del fango: raccontarla come una “peccatrice” è stato un abile stratagemma per giustificare l’esclusione di tutte le donne da quell’agone.
Valeria Palumbo è tornata nei luoghi dove Virginia ha vissuto i suoi splendori e le sue miserie, ne ha ricalcato le orme e riletto i documenti che la riguardano, facendo nuova luce su una storia raccontata solo a metà.

Introduzione: l’equivoco dello scandalo

Parigi, 16 aprile 1863: Virginia Oldoini, contessa di Castiglione, accetta di comparire in un tableau vivant a una serata di beneficenza per le scuole di San Giuseppe organizzata dalla contessa Stéphanie Tascher de La Pagerie, cugina di Napoleone III. I quadri viventi sono la gran moda del momento, nella Francia del Secondo Impero: coinvolgono aristocratici e personalità di rilievo, a cui non si chiede altro che di star fermi in maschera qualche secondo per riprodurre un dipinto. Il fatto che i proventi delle serate finiscano ai poveri fa sentire tutti più buoni e meno sciocchi. In verità sono occasioni mondane in cui nobili, neo-nobili e borghesi arricchiti si mischiano senza creare scandalo sociale e nelle quali i vecchi, perenni scandali della cosiddetta buona società cominciano a diventare merce per la stampa di massa. La caduta di una favorita o il successo di un suo abito si trasformano in aumenti di tirature per i giornali.

La Francia sta per cadere in un baratro, la guerra contro la Prussia del 1870, prodromo alla più generale catastrofe della Prima guerra mondiale. Ma ci sta per cadere ballando. Sotto cova un fuoco, uno scontento sociale che porterà all’inedito esperimento della Comune “comunista” parigina del 1871. Per ora però “Tout tourne, tout danse”, “tutto gira, tutto danza”, come si canta nell’operetta La Vie Parisienne di Jacques Offenbach, del 1866. E per ballare ci si ritrova al Jardin des Tuileries, il parco tra Place de la Concorde e il Louvre: il pittore Édouard Manet, che ci va con l’amico e poeta Charles Baudelaire, l’ha dipinto già nel 1862. E ha fatto scandalo: perché ha dipinto “macchie”, ossia personaggi non riconoscibili, brulicanti, presi dal basso. Quanto ama gli scandali questo Secondo Impero. E come lo sa bene la contessa di Castiglione.

Virginia Oldoini, in quel periodo, si vede poco in società. La bellissima italiana era diventata, nel 1856, su mandato di Cavour e di Vittorio Emanuele II, l’amante di Napoleone III allo scopo di conquistarlo alla causa italiana durante il Congresso di Parigi, una sorta di riscatto di quello di Vienna del 1815. Ora, nel 1863, l’Italia è quasi fatta. Non mancano solo gli italiani, come avrebbe detto il primo estimatore di Virginia-Nicchia, Massimo d’Azeglio. Manca pure tutto il Veneto, per non parlare di Trento e Trieste. Ma la contessa, che pure continua a tessere le sue trame clandestine, non è più considerata una pedina fondamentale. È già stata bandita da Parigi a seguito di un attentato a Napoleone III in cui non c’entrava nulla. Ci è tornata a fatica. È riapparsa in società più in virtù dei suoi successi passati, conseguiti quando aveva solo 19 anni, che per le sue conquiste attuali. Ma, in barba alla letteratura contraria e misogina che si produce su di lei quando è ancora in vita, è tutt’altro che l’ombra di sé stessa. È una donna scontenta e complessa, bellissima, creativa, intelligente, umorale, ma soprattutto fuori dai canoni e dalle righe. Suscita amori folli e odi altrettanto smisurati. E gestisce tutto, ben consapevole della sua unicità. Si piace. E questo è 

il vero peccato che nessuno le perdona. Né gli uomini, che vorrebbero sottometterla. Né le donne, che la vorrebbero sconfitta. Né tanto meno chi, raccontando poi il Risorgimento come un luminoso cammino segnato solo da eroiche morti virili, può accettare che sia stato anche un contraddittorio processo fatto di intrighi, passi falsi, compromessi e di tutt’altro che nobili ideali.

Così, quel 16 aprile 1863, lei prende in giro tutti. E quasi nessuno lo capisce. Accetta di salvare la serata benefica della contessa de La Pagerie che rischia di fallire per mancanza di adesioni. La baronessa Elisabeth de Meyendorff, il cui nome di famiglia era d’Hogger e il cui padre era stato ambasciatore olandese presso lo zar di Russia, aveva offerto la sua abitazione parigina per la festa. Elisabeth era una gran dama del bel mondo parigino, pittrice e moglie di Alexandre de Meyendorff che, fra i tanti incarichi politici e diplomatici, fu anche esploratore e geologo.

Come aveva già fatto per un analogo evento benefico, organizzato dalla principessa di Metternich, Virginia accetta dunque di partecipare. La sola notizia che lei vi prenderà parte fa all’improvviso impennare le vendite dei biglietti. Le serate, per accontentare tutti, diventano tre. Ma lei detta le sue regole: non parteciperà alle prove, prenderà parte a una sola rappresentazione, sarà sola sulla scena. Vuole anche apparire dentro una grotta. Subito si scatenano le illazioni. Una grotta? Certo, fantasticano i più: è per mostrarsi nuda. La contessa è appena reduce da uno scandalo che in realtà è una fake news: hanno attribuito a lei, in luogo di Varvara Rimsky-Korsakov, sorta di alter-ego russo della Castiglione, l’apparizione a un ballo in maschera audacemente vestita da Salomè, incarnazione stessa, per l’epoca, della femme fatale. L’eco è stata enorme, con strascichi fin in Italia. Di certo tutti si aspettano che Virginia voglia stupire. Come ha già fatto tante volte. Ma continuano a non capirla. Non vuole stupire spogliandosi. La folla è lì per quello. Ma lei il messaggio l’ha già mandato: sulla grotta deve campeggiare la scritta “Eremo di Passy”, il luogo dove, apparentemente, si è ritirata a vivere e dove, secondo le speranze di molti e molte che non ne tollerano la fama, si sta consumando in solitudine. Quando, passata la mezzanotte, esauriti tutti gli eventi precedenti, la gente è ormai stanca, fa finalmente la sua apparizione. Altro che nuda: è coperta da un saio. Tutto dura pochi secondi. Il pubblico, deluso, fischia. Lei pare mormori: «Infami». Ha ragione. Ma, a conti fatti, la vittoria è sua.

L’aneddoto ci serve per inaugurare il viaggio in cui ripercorreremo una vita e una vicenda in realtà mille volte narrata. Ma quasi sempre con le stesse parole. È addirittura imbarazzante notare come le numerose biografie di Virginia Oldoini si rifanno l’una all’altra, spesso si copiano per pagine intere, senza che a nessuno, fino a tempi recenti, sia venuto in mente che la contessa di Castiglione sia stata qualcos’altro che la fugace amante di un vecchio e malconcio nipote di Napoleone I (“racchio” lo definisce lei davanti ad altre due ex amanti, che ridono), che si è autoproclamato imperatore ma che, nonostante tutti gli acciacchi e l’ipertrofia prostatica, si gloria soltanto del numero di donne che porta a letto. Vizietto, per altro, condiviso con l’ancor più ruspante Vittorio Emanuele II e da epigoni più recenti. Oggi il vizietto si sconta. Allora era un vanto. Solo per il conquistatore prostatico, ovvio. Per le “conquistate” significava scandalo e rapida rovina. Non c’è biografo che non concordi. Affrettandosi anche a sottolineare come il contributo di Virginia all’Unità d’Italia fu solo nell’aver aperto le gambe a comando e al momento giusto. E umiliando e seppellendo con questo anche il contributo delle donne al Risorgimento. Perché delle tante protagoniste di quella stagione, la contessa di Castiglione è l’unica che ha avuto diritto a una così ampia fortuna postuma. Perfino Cristina Trivulzio di Belgiojoso, vera madre degli ideali unitari, è meno famosa di lei. Ma Cristina, per quanto libera, non solletica gli stessi pruriti di Virginia. Dimenticarla a lungo è stato più facile. Né è servito il fatto che i comportamenti di Virginia non fossero affatto difformi da quelli di gran parte delle dame di corte, sabauda, francese, inglese o austriaca che fosse: se i sovrani usavano il loro potere per fare i dongiovanni e per vantarsene, non è possibile che esercitassero le loro doti amatorie soltanto con cameriere, cortigiane e “pericolanti” dive dello spettacolo. Né potevano essere tutte fanfaronate. Dunque, le dame del secondo Ottocento hanno tradito. E molto. In barba ai princìpi cattolici, puritani, vittoriani, borghesi e romantici che dominarono il secolo. Hanno tradito e non l’hanno fatto sempre in segreto, nonostante le pene unilaterali, impietose, che attendevano le donne troppo libere (o troppo schiave).

Ma per Virginia Oldoini è valsa un’altra storia. Il suo scandalo è durato nel tempo e di esso si è alimentata la mentalità patriarcale e misogina che ha subito spazzato via qualsiasi rivendicazione delle donne italiane a partecipare a pieno titolo al nuovo Stato unitario. Le leggi adottate furono al tempo tra le più retrograde, un mix tra statuti sabaudi, norme borboniche ed eredità del Codice napoleonico, sostenute dall’avversione al progresso che il Vaticano alimentava. Alle italiane, contrariamente a quanto avrebbero voluto Giuseppe Mazzini, Cristina Trivulzio e il deputato pugliese Salvatore Morelli, grande paladino dei diritti delle donne, non fu concesso il diritto di voto. Ma nemmeno la capacità di amministrare la propria vita con un livello di istruzione adeguato, una professione degna, una piena potestà sulle proprie proprietà e imprese. Non ebbero potere neanche sui figli e la dote. Furono, fino al 1919, grazie alla tutela maritale, perenni minorenni sulla scena socio-economica. E, fino al 1946, restarono cittadine a metà, senza alcuna possibilità di incidere sulle scelte politiche della loro nazione. Addirittura, fino al 1975, rimasero suddite dei loro mariti-padroni.

Eppure proprio un più attento esame della vita di Virginia Oldoini, contessa di Castiglione, moglie separata, spia al servizio del re e di più privati interessi economici, donna libera nei suoi amori, appassionata di politica, pioniera della moda, della fotografia e dell’arte di autorappresentarsi, poliglotta e viaggiatrice, narratrice acuta e soprattutto fiera estimatrice delle sue doti, in un’epoca in cui alle donne non era consentito essere orgogliose di sé, avrebbe offerto lo spunto per un’altra rappresentazione delle italiane. E aperto la strada a un diverso riconoscimento dei loro talenti e delle loro ambizioni.

Per questo è da lei che ripartiamo. Anche se su di lei si è scritto tanto, soprattutto vecchie biografie pruriginose e romanzate. Anche se la sua vita è stata rivoltata come un calzino. Anche se si sono contati i suoi amplessi e perfino i suoi semi-amplessi e i suoi baci. Anche se di lei sappiamo come vestiva, chi vedeva e quanti debiti avesse. Perché i fatti, gli stessi fatti, perfino messi nello stesso ordine, ma raccontati da un diverso punto di vista, raccontano un’altra storia. Anche dell’Italia. E perché occorre uscire dalla trappola delle biografie delle “donne illustri”, ovvero dall’ambito che privilegia l’eccezione o addirittura la bizzarria: ogni storia è plurale e nessuno di noi agisce sganciato dal suo tempo, dalle idee che lo dominano, dalle relazioni che lo circondano, dalle opportunità che il contesto offre o nega. In barba allo scandalo che ha circondato la sua esistenza, alla sua solitudine e alla sua fama, Virginia Oldoini è stata una donna del suo tempo, che ha pagato, come altre donne del suo tempo, la sua voglia di autonomia e la sua insofferenza alle regole, ma che ha anche rispecchiato la condizione sociale, le norme e le convinzioni tipiche della sua classe sociale. 
Anche dimenticare questo, anche raccontare le “ribelli” come eccezioni può in realtà celare l’inconscio rifiuto di cogliere le contraddizioni, le ipocrisie e i pregiudizi di ogni epoca. Il passato non è un mare omogeneo da cui si levano voci discordanti: è un magma che continua a riplasmarsi e a prendere vie diverse e, quasi sempre, non congrue. La nostra voglia di “ordine mentale”, di dividere i buoni dai cattivi, non può spianarlo. Ciò nonostante, resta il dovere di riconoscere il ruolo di chi, come Virginia Oldoini, ha avuto il coraggio (o l’incoscienza) di rompere con i comportamenti tradizionali e non piegarsi a una morale che, per le donne, è sempre stata repressiva e punitiva. Virginia non fu una intellettuale né una ribelle ideologica. Se fu trasgressiva, lo fu per istinto. Aveva però chiara consapevolezza di quale avrebbe potuto essere il suo ruolo politico in una società meno discriminante per le donne quando, criticando gli errori di Napoleone III nel 1870, esclamò (come riportò lo storico e accademico francese Alain Decaux): «Ah! Si j’avais été une Catherine! Mais Napoléon avait peur et je l’ai lâché, lui et les siens» («Ah, se fossi stata una Caterina [de’ Medici]! Ma Napoleone aveva paura e io l’ho mollato, lui e i suoi»).

1. Infanzia: la solitudine di Firenze

Dove? Già sapere dove sia nata Virginia Elisabetta Luisa Carlotta Antonietta Teresa Maria Oldoini è impossibile. Certo a Firenze, allora retta dal granduca Leopoldo II di Asburgo Lorena. Forse a Palazzo Gianfigliazzi, che in realtà è costituito da due diversi edifici, un tempo uniti, in Lungarno Corsini 2 e 4. Il luogo fu un riferimento importante nella vita di Virginia. Il palazzo al 2 prende anche il nome di Palazzo Masetti dalla famiglia che lo acquistò nel 1853. Oggi, però, si chiama Palazzo Alfieri Residenza d’Epoca ed è un albergo di lusso, nonostante un ingresso e un cortile piuttosto austeri. Il nome attuale deriva dal fatto che, a partire dal novembre del 1792, vi abitarono Luisa d’Albany, principessa di Stolberg e raffinata intellettuale, e il suo amante, il poeta Vittorio Alfieri. Val la pena raccontarla la storia. Lei era stata sposata, disastrosamente, con un curioso personaggio: Charles Edward Stuart, detto anche Giovane Pretendente o Bonnie Prince Charlie. Charles Edward era nato e sarebbe morto a Roma, ma rivendicava per sé i troni di Inghilterra, Scozia, Francia e Irlanda. Il nonno, Giacomo II e VII, in effetti, ne era stato titolare. Di Francia, solo nominalmente. Ma Charles Edward non ebbe la corona: guidò una fallita rivolta nel 1745 e fu drammaticamente sconfitto nella battaglia di Culloden del 1746, l’ultima campale che si sia combattuta sul suolo britannico. Lui si rifugiò nell’alcool, deluse e maltrattò la sua amante di allora (ne ebbe diverse), Clementina Walkinshaw, e alla fine, nel 1772, 16 anni prima di morire, impalmò la povera Luisa. Fu un matrimonio su procura. Lui aveva 52 anni, lei 20. A Charles quella donna colta e brillante non piacque. Nel 1777, invidioso dei successi romani della moglie, decise di trasferirsi a Firenze. E gli andò peggio. Perché qui lei incontrò Vittorio Alfieri. Fu un colpo di fulmine. E per la vita: «La vita della mia vita», la definì il poeta, che, per altro, dalle donne, madre compresa, si è sempre fatto mantenere. Fu anche uno scandalo: lei si separò dal marito nel 1780 e i due amanti dovettero fuggire. La Rivoluzione francese li risospinse, non più giovani, a Firenze, a Palazzo Gianfigliazzi, che lei affittò e trasformò in uno dei più vivaci salotti europei. Lui vi morì nel 1803, a 54 anni. Luisa, vilipesa sino alla fine per la sua libertà mentale e di vita, si spense nel 1824. Alla nascita di Virginia mancavano ancora 13 anni.

Il palazzo al 4 del Lungarno Corsini ha una storia altrettanto interessante. Oggi rientra nel circuito dell’associazione Dimore storiche italiane ed è stato restaurato dalla proprietaria: Maria, Tuzzy per gli amici, Maestrelli Locatelli de Hagenauer. È aperto alle visite e agli eventi culturali. Ed è, semplicemente, bellissimo. Dopo essere appartenuto ai Gianfigliazzi, nel 1825 fu acquistato da Luigi Bonaparte, re d’Olanda e fratello minore di Napoleone Bonaparte, oltre che padre di Napoleone III (Carlo Luigi Napoleone), futuro imperatore dei francesi e personaggio chiave nella storia di Virginia. Luigi Bonaparte vi abitò fino alla morte, avvenuta nel 1846. Poi il palazzo fu trasformato nell’albergo Quattro Nazioni: per un 

mese vi soggiornò anche Alessandro Manzoni. Sull’ingresso troneggia la lapide che ricorda il risciacquo dei suoi “cenci” in Arno, nell’estate del 1827. In seguito passò a Ranieri Lamporecchi, il nonno di Virginia, noto avvocato fiorentino e giureconsulto, che ricoprì le più alte cariche della magistratura nel Granducato di Toscana. Fu lui per lungo tempo a occuparsi di Virginia. Forse la bambina incrociò in queste sale Carlo Luigi, che aveva già 29 anni alla sua nascita.

Qui occorre un’altra digressione dinastica: da uno studio genetico condotto nel 2014 dal professor Gerard Lucotte, risulta che Carlo Luigi non poteva essere nipote di Napoleone per via paterna. O lui non era figlio di suo padre o il padre non era fratello di Napoleone. Succedeva più spesso di quel che si pensi.

Se Virginia non vi nacque, vi trascorse comunque molto tempo. E chissà, inquieta come fu sin da ragazza, quanto tempo passò a spiare, dalle finestre, le acque spesso minacciose dell’Arno. Sarebbe poi stato suo padre a venderlo nel 1865.

Se non nacque qui, allora, dove? Virginia potrebbe essere venuta alla luce in una casa di Via degli Alfani, in Palazzo Giugni, al civico 48. Il palazzo apparteneva dal 1830 ai della Porta e finì ai Fiaschetti. Ma sul portone troneggia ancora lo stemma del banchiere Simone da Firenzuola che l’aveva fatto costruire nel 1570 sopra un convento di monache camaldolesi. Adesso, nella bella strada, centralissima ma un po’ più defilata, vi hanno sede una serie di studi e associazioni, compreso il Lyceum Club Internazionale di Firenze, in origine un ritrovo soltanto femminile.

La contessa ha sempre tentato di bluffare sulla data della sua nascita. Disse di essere del 1843. In quel caso la differenza d’anni con Napoleone III sarebbe stata di 35 anni. In realtà nacque il 22 marzo 1837.

Dove fu battezzata? All’oratorio di San Giovanni, nella chiesa di san Giovannino degli Scolopi, al quartiere san Lorenzo. Centralissimo. Ma forse no. Forse il battesimo avvenne addirittura nel battistero di san Giovanni Battista, ovvero alla cattedrale di Santa Maria del Fiore. La famiglia avrebbe potuto permetterselo.

Nonostante la cattiva gestione del patrimonio, che avrebbe reso gli ultimi anni di Virginia una battaglia contro gli espropri e punteggiato la sua vita di liti con gli amministratori, all’epoca Filippo e Isabella Oldoini avevano ancora consistenti proprietà, soprattutto a La Spezia. A parte il palazzo di piazza Sant’Agostino, che oggi raccoglie abitazioni private ma conserva, nel bel restauro colorato, un aspetto signorile, possedevano una deliziosa dimora sopra la Salita al Castello, sulla Collinetta del Poggio, tra le attuali vie Sforza e XXSettembre. Una casa in cui a lungo avevano alloggiato i contadini, a ovest del colle dei Cappuccini, ed era poi stata trasformata nella bellissima Villa di Portarocca, che Virginia avrebbe tanto amato. I giardini, magnifici, arrivavano a ridosso della cattedrale attuale. Non rimane nulla: è stato tutto spianato. La Spezia, allora un villaggio di circa 5 mila anime, è stata sfigurata dalla crescita vertiginosa dopo l’Unità, con l’arrivo della Marina militare. Tra il 1871 e il 1911 passò da poco più di 26 mila a più di 77 mila abitanti. Poi è stata letteralmente distrutta dai bombardamenti a tappeto nella Seconda guerra mondiale. Oggi incongrui palazzoni degli anni Cinquanta occupano la zona circostante piazza Sant’Agostino e via del Prione. Certo è che, tolto il suo palazzo, Virginia non riconoscerebbe quasi nulla. E le piangerebbe il cuore perché la cittadina le restò sempre cara.

Facciamo ora un salto indietro e torniamo a occuparci del nonno giureconsulto: Ranieri Lamporecchi (Pietrasanta, 1° dicembre 1776 – Firenze, 25 marzo 1862) aveva sposato Luisa Chiari, di cui non si sa né la data né il luogo di nascita. Luisa morì a Firenze nel 1856 e da una lettera spedita da Ranieri all’amico Lorenzo Gargiolli, notaio e amministratore della famiglia Bonaparte in Italia, ne deduciamo che il marito ne soffrì: un’eccezione, come vedremo, nelle relazioni coniugali di quell’epoca. Dal matrimonio erano nati cinque figli, tra cui Isabella Lamporecchi (nata a Firenze in data imprecisata e morta a La Spezia nel 1872). L’inquieta Isabella avrebbe sposato il non brillante ma titolato Filippo Oldoini (La Spezia 1817-1889), che sarebbe diventato il primo deputato della sua città al Parlamento del Regno di Sardegna e in seguito ambasciatore d’Italia a Lisbona; e che si sarebbe avvantaggiato, con una spregiudicatezza notevole, delle relazioni della figlia per far carriera…

foto presa dal web

Valeria Palumbo, giornalista, storica delle donne e autrice teatrale, è caporedattrice del settimanale Oggi. È stata caporedattrice de L’Europeo e di Global Foreign Policy, ha lavorato per la Gazzetta dello Sport, il Corriere della Sera, Amica e Capital. Corrispondente della Radio della Svizzera italiana, è docente a contratto di radio e tv web alla Statale di Milano. Collabora con istituzioni, enti di ricerca e associazioni. Tra i suoi libri, Prestami il volto (2003), Svestite da uomo (2007); Le figlie di Lilith (2008), L’ora delle ragazze Alfa (2009), Geni di mamma (2013), Piuttosto m’affogherei. Storia vertiginosa delle zitelle (2018), L’Epopea delle lunatiche. Storie di astronome ribelli (2018), Veronica Franco, la cortigiana poeta del Rinascimento veneziano (2019), Non per me sola (2020).

Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la curatrice del blog letterario "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga.

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