“Filosofia come arte di vivere” di Michel de Montaigne edito da Fazi Editore

Disponibile da domani 21 Ottobre 2021 in tutte le librerie e sugli store on-line

«Come vivere?». L’esigenza di capire chi siamo e chi possiamo essere, tanto rispetto a noi stessi quanto in rapporto al contesto pubblico e privato in cui viviamo, è al centro dei saggi pubblicati in Filosofia come arte di vivere. Montaigne ci fa capire che la costruzione di sé non può essere teorica. Non sono gli insegnamenti o i ragionamenti a motivare le nostre azioni, ma è l’esperienza che forma il nostro spirito allo stile di vita che abbiamo scelto. Filosofare, perciò, non significa solo pensare in termini astratti, ma disporsi all’esperienza, o disporre l’esperienza, secondo un ordine che riteniamo efficace. In un certo senso si potrebbe però dire anche che la filosofia generi l’esperienza. Non nel senso idealistico, ma in quello trascendentale, secondo cui siamo noi a creare gli schemi o le strutture attraverso cui elaboriamo ciò che incontriamo nella concretezza del nostro vivere. Il filosofare come arte di vivere non ha nulla a che vedere con una sublimazione della vita nella filosofia, o con una qualche forma di estetismo. La filosofia appare piuttosto come il risultato di uno sforzo riflessivo che ci spinge a formare razionalmente la nostra esistenza a partire da ciò che definisce l’essere umano in quanto tale, che tanto nella filosofia quanto nell’arte emerge in maniera peculiare: l’apertura a possibilità sempre nuove e la capacità di appropriarsene. La filosofia ci prepara e ci esorta a questo sforzo stimolandoci ad aprire, attraverso la riflessione, uno spazio libero, e magari anche ozioso, in cui è possibile porre domande che non avrebbero senso in una «società della stanchezza», caratterizzata dal multitasking, dall’eccesso di stimoli e di informazioni, in cui il tempo è sempre poco e la questione sul senso della nostra vita può essere trascurata e forse nemmeno formulata. Filosofia come arte di vivere rappresenta il sesto volume della nuova traduzione, divisa su base tematica, dei Saggi di Montaigne, dopo Coltiva l’imperfezione, La fame di Venere, Sopravvivi all’amore, Scopri il mondo e Costruisci te stesso. Attraverso il suo brillante stile saggistico e vicino al lettore, così come grazie agli esempi forniti dai ricchi e preziosi riferimenti alla storia e alla cultura classiche e moderne, Montaigne ci spinge nuovamente a mettere in discussione noi stessi e i diversi aspetti del nostro esistere, in un’esplorazione continua delle possibilità che lo caratterizzano.

Nota del curatore

Filosofia come arte di vivere è il sesto di sette piccoli volumi in cui viene ripubblicata la raccolta completa dei Saggi di Montaigne. Come nei precedenti volumi, i Saggi verranno riproposti in una successione diversa da quella dell’edizione originale, ma rispettando l’ordine dei tre libri in cui l’opera è stata suddivisa dall’autore. All’interno di ogni saggio sono state indicate – con le lettere a, b, c – le varianti inserite nelle diverse edizioni del testo.

Anche in questo caso la collocazione delle citazioni in latino, greco o francese che compaiono nel testo di Montaigne è stata invertita. La traduzione dei passi citati, che nell’edizione originale dei Saggi compare in nota, viene qui riportata nel corpo del testo per permettere al lettore di seguire in maniera più organica e agile il discorso di Montaigne. La trascrizione in nota del passo originale e l’indicazione della fonte vengono incontro a ogni ulteriore esigenza di carattere filologico. La traduzione, infine, rispetta la “lettera” di Montaigne, mentre, per altro verso, si è cercato, quando possibile, di rendere la lingua e la punteggiatura dell’originale più conformi alla nostra attuale sensibilità.

Bisogna giudicare la nostra felicità
solo dopo la morte
(Libro I, cap. XIX)

(a) Bisogna sempre attendere l’ultimo giorno di un uomo, e nessuno può esser detto felice prima della morte e del rito funebre.42

I ragazzi hanno già sentito il racconto del re Creso a questo proposito. Ciro lo aveva fatto prigioniero e condannato a morte. Al momento dell’esecuzione esclamò: «O Solone, Solone!». La cosa fu riportata a Ciro, e quando questi chiese che cosa volesse dire, Creso gli spiegò che stava verificando a sue spese ciò di cui una volta lo aveva avvisato Solone. Per quanto la fortuna sia loro favorevole, gli uomini potranno dirsi felici solo dopo aver visto come hanno passato l’ultimo giorno della loro vita. Le cose umane sono incerte e variabili. Un leggerissimo movimento le fa passare da uno stato a un altro tutto diverso. Agesilao rispondeva a chi considerava felice il re di Persia, arrivato giovanissimo ad avere un potere enorme, in questo modo: «Sì, ma Priamo non era stato infelice alla stessa età». Nel giro di pochissimo tempo i re macedoni, successori di Alessandro Magno, diventarono falegnami e cancellieri a Roma, i tiranni siciliani precettori a Corinto, un conquistatore della metà del mondo, e capo vittorioso di tanti eserciti, si trasformò in mendicante miserabile dei furfanti ufficiali d’un re d’Egitto. Fu questo il prezzo che il grande 

Pompeo pagò per allungarsi la vita di cinque o sei mesi. E, all’epoca dei nostri padri, Ludovico Sforza, decimo duca di Milano, che per molto tempo aveva fatto tremare tutta l’Italia, è stato visto morire prigioniero a Loches. Ma solo dopo esservi vissuto dieci anni, che è la parte peggiore del suo destino. (c) E recentemente non è stato il boia a dare la morte alla più bella regina, vedova del più gran re della cristianità? (a) Di esempi del genere ce ne sono a migliaia. Allo stesso modo in cui le burrasche e le tempeste si accaniscono contro l’orgoglio e la tracotanza delle nostre navi, pare che anche lassù ci siano spiriti che invidiano le grandezze di quaggiù,a tal punto una forza nascosta distrugge le cose umane, e sembra compiacersi di calpestare i bei fasci e le scuri crudeli, e farsene gioco.43

Pare anche che certe volte la fortuna ci aspetti al varco proprio all’ultimo giorno della nostra vita, allo scopo di dimostrare il suo potere di invertire in un istante quanto aveva costruito in lunghi anni; e ci fa gridare, con Laberio: Ho certamente vissuto un giorno di troppo44. Possiamo perciò accettare quel buon consiglio di Solone. Ma visto che è un filosofo, e per i filosofi i favori e le disgrazie della fortuna non sono né venture né sventure, e grandezze e poteri sono contingenze quasi indifferenti, sono convinto che sia stato più lungimirante, e abbia capito che la stessa felicità della nostra vita, che dipende dalla tranquillità e dalla soddisfazione d’uno spirito ben nato e dalla decisione e fermezza di un animo equilibrato, non debba mai essere attribuita all’uomo, finché non abbia finito di recitare l’ultimo atto della commedia, che è indubbiamente il più difficile. In tutto il resto si può fingere: o possediamo quei bei discorsi di filosofia pro forma, o le contingenze, che non arrivano a colpirci nel vivo, ci permettono di restare sempre imperturbabili, almeno esteriormente. Ma in quest’ultimo atto fra noi e la morte non c’è spazio per la finzione. Si deve parlare chiaro e mostrare quanto di buono e limpido c’è in fondo alla pentola:

Allora infine parole sincere sgorgano dal fondo del cuore e la maschera cade, il vero rimane.45

Ecco perché bisogna confrontare e ponderare tutte le altre azioni della nostra vita in quell’ultimo passaggio. È il giorno supremo, quello che giudica tutti gli altri. Un antico dice che è il giorno in cui si giudica su tutto il nostro passato. Sarà la morte a farmi capire se i miei studi avranno dato un qualche frutto. In quel momento sarà chiaro se i miei ragionamenti partono dalla mia bocca o dal mio cuore.

(b) Ho visto parecchi dare con la loro morte una reputazione buona o cattiva a tutta la loro vita. Scipione, suocero di Pompeo, riparò con una buona morte la cattiva opinione che si era avuta di lui fino a quel momento. Epaminonda, interrogato su chi fra Cabria, Ificrate e se stesso stimasse di più rispose: «Per poterlo stabilire bisogna vedere come moriamo». E infatti gli si 

toglierebbe molto se lo si giudicasse senza considerare il modo grande e onorevole in cui è morto. Dio l’ha voluto come gli è piaciuto. Eppure ai miei tempi tre persone, le più odiose che abbia mai conosciuto per l’assoluto abominio della loro vita, e le più infami, hanno avuto morti tranquille e composte in ogni particolare, quasi perfette. (c) Ci sono morti coraggiose e fortunate. Ne ho vista qualcuna tagliare il filo d’una vita in un progresso meraviglioso, e nel fiore dell’ascesa, con una fine così grandiosa che a mio avviso i suoi ambiziosi e coraggiosi propositi non erano più nobili del modo in cui sono stati interrotti. Chi ha fatto questa fine arrivò, senza andarvi, dove aspirava, con più grandezza e gloria di quelle dovute al suo desiderio e alla sua speranza. E sorpassò con la sua caduta la potenza e la fama cui aspirava con la sua corsa.

(b) Quando considero la vita altrui, guardo sempre come è andata a finire. E, riguardo alla mia, mi preoccupo che finisca bene, con calma e senza troppo rumore.

42 «Scilicet ultima semper Expectanda dies homini est, dicique beatus / Ante obitum nemo, supremaque funera debet», Ovidio, Metamorfosi, III, 135-137.

43 «Usque adeo res humanas vis abdita quaedam Obterit, et pulchros fasces saevasque secures Proculcare, ac ludibrio sibi habere videtur», Lucrezio, V, 1233-1235.

44 «Nimirum hac die una plus vixi, mihi quam vivendum fuit», Macrobio, Saturnalia, II, 7.

Bisogna giudicare la nostra felicità
solo dopo la morte
(Libro I, cap. XIX)

(a) Bisogna sempre attendere l’ultimo giorno di un uomo, e nessuno può esser detto felice prima della morte e del rito funebre.42

I ragazzi hanno già sentito il racconto del re Creso a questo proposito. Ciro lo aveva fatto prigioniero e condannato a morte. Al momento dell’esecuzione esclamò: «O Solone, Solone!». La cosa fu riportata a Ciro, e quando questi chiese che cosa volesse dire, Creso gli spiegò che stava verificando a sue spese ciò di cui una volta lo aveva avvisato Solone. Per quanto la fortuna sia loro favorevole, gli uomini potranno dirsi felici solo dopo aver visto come hanno passato l’ultimo giorno della loro vita. Le cose umane sono incerte e variabili. Un leggerissimo movimento le fa passare da uno stato a un altro tutto diverso. Agesilao rispondeva a chi considerava felice il re di Persia, arrivato giovanissimo ad avere un potere enorme, in questo modo: «Sì, ma Priamo non era stato infelice alla stessa età». Nel giro di pochissimo tempo i re macedoni, successori di Alessandro Magno, diventarono falegnami e cancellieri a Roma, i tiranni siciliani precettori a Corinto, un conquistatore della metà del mondo, e capo vittorioso di tanti eserciti, si trasformò in mendicante miserabile dei furfanti ufficiali d’un re d’Egitto. Fu questo il prezzo che il grande Pompeo pagò per allungarsi la vita di cinque o sei mesi. E, all’epoca dei nostri padri, Ludovico Sforza, decimo duca di Milano, che per molto tempo aveva fatto tremare tutta l’Italia, è stato visto morire prigioniero a Loches. Ma solo dopo esservi vissuto dieci anni, che è la parte peggiore del suo destino. (c) E recentemente non è stato il boia a dare la morte alla più bella regina, vedova del più gran re della cristianità? (a) Di esempi del genere ce ne sono a migliaia. Allo stesso modo in cui le burrasche e le tempeste si accaniscono contro l’orgoglio e la tracotanza delle nostre navi, pare che anche lassù ci siano spiriti che invidiano le grandezze di quaggiù,

a tal punto una forza nascosta distrugge le cose umane, e sembra compiacersi di calpestare i bei fasci e le scuri crudeli, e farsene gioco.43

Pare anche che certe volte la fortuna ci aspetti al varco proprio all’ultimo giorno della nostra vita, allo scopo di dimostrare il suo potere di invertire in un istante quanto aveva costruito in lunghi anni; e ci fa gridare, con Laberio: Ho certamente vissuto un giorno di troppo44. Possiamo perciò accettare quel buon consiglio di Solone. Ma visto che è un filosofo, e per i filosofi i favori e le disgrazie della fortuna non sono né venture né sventure, e grandezze e poteri sono contingenze quasi indifferenti, sono convinto che sia stato più lungimirante, e abbia capito che la stessa felicità della nostra vita, che dipende dalla tranquillità e dalla soddisfazione d’uno spirito ben nato e dalla decisione e fermezza di un animo equilibrato, non debba mai essere attribuita all’uomo, finché non abbia finito di recitare l’ultimo atto della commedia, che è indubbiamente il più difficile. In tutto il resto si può fingere: o possediamo quei bei discorsi di filosofia pro forma, o le contingenze, che non arrivano a colpirci nel vivo, ci permettono di restare sempre imperturbabili, almeno esteriormente. Ma in quest’ultimo atto fra noi e la morte non c’è spazio per la finzione. Si deve parlare chiaro e mostrare quanto di buono e limpido c’è in fondo alla pentola:

Allora infine parole sincere sgorgano dal fondo del cuore e la maschera cade, il vero rimane.45

Ecco perché bisogna confrontare e ponderare tutte le altre azioni della nostra vita in quell’ultimo passaggio. È il giorno supremo, quello che giudica tutti gli altri. Un antico dice che è il giorno in cui si giudica su tutto il nostro passato. Sarà la morte a farmi capire se i miei studi avranno dato un qualche frutto. In quel momento sarà chiaro se i miei ragionamenti partono dalla mia bocca o dal mio cuore.

(b) Ho visto parecchi dare con la loro morte una reputazione buona o cattiva a tutta la loro vita. Scipione, suocero di Pompeo, riparò con una buona morte la cattiva opinione che si era avuta di lui fino a quel momento. Epaminonda, interrogato su chi fra Cabria, Ificrate e se stesso stimasse di più rispose: «Per poterlo stabilire bisogna vedere come moriamo». E infatti gli si toglierebbe molto se lo si giudicasse senza considerare il modo grande e onorevole in cui è morto. Dio l’ha voluto come gli è piaciuto. Eppure ai miei tempi tre persone, le più odiose che abbia mai conosciuto per l’assoluto abominio della loro vita, e le più infami, hanno avuto morti tranquille e composte in ogni particolare, quasi perfette. (c) Ci sono morti coraggiose e fortunate. Ne ho vista qualcuna tagliare il filo d’una vita in un progresso meraviglioso, e nel fiore dell’ascesa, con una fine così grandiosa che a mio avviso i suoi ambiziosi e coraggiosi propositi non erano più nobili del modo in cui sono stati interrotti. Chi ha fatto questa fine arrivò, senza andarvi, dove aspirava, con più grandezza e gloria di quelle dovute al suo desiderio e alla sua speranza. E sorpassò con la sua caduta la potenza e la fama cui aspirava con la sua corsa.

(b) Quando considero la vita altrui, guardo sempre come è andata a finire. E, riguardo alla mia, mi preoccupo che finisca bene, con calma e senza troppo rumore.

42 «Scilicet ultima semper Expectanda dies homini est, dicique beatus / Ante obitum nemo, supremaque funera debet», Ovidio, Metamorfosi, III, 135-137.

43 «Usque adeo res humanas vis abdita quaedam Obterit, et pulchros fasces saevasque secures Proculcare, ac ludibrio sibi habere videtur», Lucrezio, V, 1233-1235.

44 «Nimirum hac die una plus vixi, mihi quam vivendum fuit», Macrobio, Saturnalia, II, 7.

45 «Nam verae voces tum demum pectore ab imo / Eiiciuntur, et eripitur persona, manet res», Lucrezio, III, 57-58.

Filosofare è imparare a morire 
(Libro I, cap. XX)

(a) Cicerone dice che filosofare non è altro che prepararsi a morire. Lo studio e la contemplazione, infatti, portano in un certo senso la nostra anima fuori di noi, tenendola occupata separatamente dal corpo. Ciò è molto vicino a un’esperienza e a una parvenza di morte. In un senso diverso, inoltre, si può dire che il solo scopo di tutta la saggezza e dei ragionamenti del mondo è quello di insegnarci a non avere paura della morte. Così, o la ragione ci prende in giro, oppure non deve tendere che alla nostra soddisfazione. Alla fin fine, come dice la Sacra Scrittura, tutti i suoi sforzi devono mirare a farci vivere bene e a nostro agio. Tutte le opinioni del mondo, (a) anche se in modo diverso, convergono sul fatto (c) che il nostro obiettivo principale sia il piacere. Diversamente sarebbero confutate a priori. Nessuno ascolterebbe chi si ponesse come obiettivo la nostra pena e la nostra angustia.

(c) Le controversie tra le sette filosofiche su questo punto sono solo verbali. Sorvoliamo su queste inutili sottigliezze46. Una professione così santa non ha bisogno di tutta questa ostinazione e pedanteria. Ma tutte le volte che recitiamo una parte, rappresentiamo anche noi stessi. Checché se ne dica, anche lo scopo ultimo dei nostri comportamenti virtuosi è la voluttà. Amo rompere i loro timpani con questa parola che apprezzano così poco. E quando si esprime l’idea di un piacere supremo e di una soddisfazione eccessiva il riferimento alla virtù è ancora più pertinente. La voluttà che la caratterizza, più forte, nervosa, robusta, virile, è solo più profondamente voluttuosa. Dovremmo darle il nome del piacere, più favorevole, dolce e naturale. Diverso da quello del vigore, col quale l’abbiamo chiamata. L’altra voluttà̀ più bassa, se si assicurasse un nome così bello, dovrebbe meritarlo solo comparativamente e non in un senso assoluto. Per me è meno fastidiosa e complicata della virtù. Senza contare che il suo sapore è più immediato, fuggevole e caduco. Ma ha le sue veglie, i suoi digiuni e i suoi affanni, oltre che sudore e sangue. E, soprattutto, passioni laceranti di specie diverse, unite a una sazietà tanto pesante da essere molto simile alla penitenza. Sbagliamo di grosso a credere che questi fastidi possano stimolarla e condire la sua dolcezza, allo stesso modo in cui in natura i contrari si alimentano a vicenda. Quando parliamo della virtù non possiamo dire che simili conseguenze e difficoltà la rendano più pesante, austera e inaccessibile. Mentre, molto più propriamente che nella voluttà̀, nobilitano, acuiscono e aumen­tano il piacere divino e perfetto che essa ci arreca. Certo, chi ne contrappone il costo al risultato, senza conoscerne i pregi e l’uso, non è degno di praticarla. Chi vuole insegnarci che conquistarla è difficile e laborioso, mentre goderne è piacevole, non ci dice altro che è sempre spiacevole. Infatti, non ci sono mezzi umani per arrivare a goder­sela. I più perfetti l’hanno sempre solo desiderata, ma non l’hanno mai posseduta. E si ingannano. In tutti i piaceri che conosciamo, il solo tentativo di ottenerli provoca piacere. L’impresa risente della qualità della sua meta. Aspirarvi è già una parte dell’effetto e consustanziale a esso. La felicità e la beatitudine che si riflettono nella virtù si estendono a tutto ciò che la riguarda e alle vie che portano a essa, dal momento in cui vi si accede fino all’ultimo ostacolo. Ora, uno dei più importanti benefici della virtù è il disprezzo della morte. Solo così, infatti, la nostra vita può essere calma e tranquilla, piacevole e amabile, al di là di ogni altro piacere sensibile. (a) Proprio per questo tutte le regole si incontrano e convergono su questo punto. E anche se ci spingono tutte a disprezzare il dolore, la povertà e le altre disgrazie a cui la vita umana è esposta, non lo fanno con altrettanta cura: innanzitutto perché queste disgrazie non sono altrettanto certe (la maggior parte degli uomini trascorre la vita senza sperimentare la povertà, e altri anche senza dolori e malattie, come il musico Senofilo, che visse centosei anni in perfetta salute), e poi perché, nel peggiore dei casi, la morte, se lo vogliamo, può porre rimedio e dare un taglio a tutti gli altri problemi. La morte, in realtà, è inevitabile,

(b) siamo tutti spinti verso uno stesso luogo, la sorte di tutti è agitata nell’urna, presto o tardi ne uscirà e ci farà salire sulla barca per la morte eterna.47

Michel de Montaigne


Michel Eyquem nacque nel 1533 a Bordeaux, da una ricca famiglia da poco insignita del titolo nobiliare di “signori di Montaigne”. Educato, secondo l’uso dell’umanesimo, nel culto della classicità – e per indole incline allo stoicismo –, dopo gli studi, a ventiquattro anni, esercitò per i successivi tredici come consigliere presso il Parlamento di Bordeaux, città della quale più tardi venne eletto sindaco. Apprezzato e conosciuto diplomatico, spesso in missione per conto del re, visse nel sanguinoso periodo delle guerre di religione, uno dei più bui dell’intera storia francese, tanto che a trentasette anni, amareggiato, decise di abbandonare la vita mondana per ritirarsi nel suo castello – in particolare nella sua tour de la librairie, la ‘torre della libreria’ –, dove rimase a meditare, studiare e scrivere. Morì nel 1592.
I suoi Saggi, pubblicati per la prima volta nel 1580, sono unanimemente considerati una pietra miliare della letteratura occidentale e – avendo ispirato, tra le altre, personalità come Nietzsche ed Emerson, Rousseau e Proust – hanno avuto una profondissima influenza nella storia del pensiero europeo.

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Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la curatrice del blog letterario "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga.

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