“Il patto dell’acqua” di Abraham Verghese

Travancore, Costa di Malabar, 1900. Una ragazzina di dodici anni cerca di prendere sonno tra le braccia di sua madre. Domani lascerà la casa in cui è cresciuta per andare sposa all’uomo cui è stata promessa. Colui che diventerà suo marito, il nuovo padrone della sua vita, ha trent’anni di piú, è vedovo, con un figlio ancora bambino. La piccola sposa va incontro al suo futuro cosí come è stato deciso da altri, come hanno fatto sua madre e la madre di sua madre prima di lei. «Il giorno piú brutto nella vita di una ragazza è il giorno del matrimonio. Poi, se Dio vuole, le cose migliorano» le viene detto. Il vedovo è un buon partito, come loro è parte di quell’antichissima comunità di cristiani convertiti da san Tommaso diciotto secoli prima, e per qualche strano motivo accetta una moglie senza una rupia di dote, anche se si mormora che la sua stirpe sia afflitta da una strana maledizione: in ogni generazione almeno una persona muore affogata. E in quello che oggi si chiama Kerala l’acqua è ovunque, plasma la terra in una trina di laghi e lagune, accompagna col suo canto sommesso le esistenze, si nutre dei monsoni, collega tutto nel tempo e nello spazio. La sposa viene accolta con affetto nella nuova casa e, nell’arco della sua lunga, straordinaria vita, conosce la gioia di un grande amore, patisce il dolore di infinite perdite, assiste a cambiamenti epocali. La sua famiglia si espanderà e si ritirerà con le nascite e le morti. Finché arriverà una nipote che porterà il suo nome, studierà medicina e giungerà a una scoperta sconvolgente. Evocazione luminosa di un’India in cammino verso la sua trasformazione politica e culturale, celebrazione di un popolo antico immerso in una natura ancora prepotente, Il patto dell’acqua è il nuovo romanzo di Abraham Verghese, «che espone il lettore a una bellezza cui altrimenti non potrebbe accedere» (The New York Times); un libro-mondo di straordinaria potenza che custodisce tutti gli eventi preziosi dell’esperienza umana. «Una prosa sorretta da una profonda e coerente architettura morale dell’animo umano. Un romanzo grandioso, spettacolare, coinvolgente». The New York Times «Con maestria, Verghese plasma le vite dei suoi protagonisti a colpi di guerre, monsoni, carestie, pestilenze e inondazioni su una scena grandiosa come quella del Dottor Živago, pur senza perdere lo sguardo intimo sulle piccole cose». The Washington Post «Abraham Verghese racconta la saga di una famiglia attraverso un secolo di cambiamenti epocali, senza mai dimenticare che l’amore e la gentilezza d’animo possono vincere sulla violenza». Los Angeles Times «Mentre leggevo Il patto dell’acqua ogni tanto dovevo fermarmi e ricordarmi di respirare». Oprah Winfrey

A Mariam Verghese
In memoriam

E un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino.

Genesi 2:10

Non sono i colpi di martello, è la danza dell’acqua
a rendere i ciottoli cosí perfetti.

Rabindranath Tagore

1.

Sempre

Travancore, India meridionale, 1900

Ha dodici anni e al mattino andrà sposa. Madre e figlia sono sdraiate sullo stuoino, con le guance umide incollate fra loro.

«Il giorno piú triste nella vita di una ragazza è il giorno del matrimonio» dice sua madre. «Poi, se Dio vuole, le cose migliorano».

Un attimo dopo sente il suo singhiozzo trasformarsi in respiro regolare, quindi in dolce russare, un rumore che nella sua mente sembra dare ordine ai suoni sparsi della notte, dallo scricchiolio delle pareti di legno che rilasciano il calore del giorno al sommesso scalpiccio del cane nel cortile sabbioso.

Un cuculo grida: Kezhekketha? Kezhekketha? Da che parte è l’est? Da che parte è l’est? Lei immagina l’uccellino che guarda lo spiazzo dove il tetto rettangolare di paglia si acquatta sopra la loro casa. Guarda la laguna, il torrente e la risaia al di là. Quel grido può andare avanti per ore, impedendo di dormire… Ma ecco che, di colpo, si interrompe, come se un cobra si fosse avvicinato strisciando. Nel silenzio che segue, il torrente non canta una ninnananna, è solo un brontolio sopra i ciottoli levigati.

Si sveglia prima dell’alba mentre sua madre dorme ancora. Fuori dalla finestra l’acqua nella risaia luccica come argento lavorato. Sulla veranda la charu kasera di suo padre, la sedia a sdraio, è vuota e sconsolata. Solleva l’assetta per scrivere posata sui lunghi braccioli di legno e si siede. Sente l’impronta evanescente di suo padre nel bambú intrecciato.

Sugli argini della laguna quattro palme da cocco crescono oblique, sfiorano l’acqua come pavoneggiandosi nel suo riflesso prima di drizzarsi verso il cielo. Addio laguna. Addio torrente.

«Molay?» aveva detto, con sua grande sorpresa, l’unico fratello di suo padre. Di recente aveva perso l’abitudine di usare con lei quel termine affettuoso, molay – figlia. «Ti abbiamo trovato un buon partito!» L’aveva detto con tono mellifluo, come se lei avesse quattro anni, non dodici. «Il tuo sposo apprezza molto il fatto che esci da una buona famiglia, che sei figlia di un sacerdote». Sapeva che da un po’ suo zio voleva che si sposasse, e le sembrava che si stesse dando un po’ troppo da fare per organizzare questo matrimonio. Ma cosa poteva dire? Erano questioni riservate agli adulti. Il volto sconsolato di sua madre la metteva in imbarazzo. Provava compassione per lei, che invece desiderava solo rispetto. Piú tardi, rimaste sole, sua madre le aveva detto: «Molay, questa non è piú casa nostra. Tuo zio…» Stava cercando di giustificarsi, come se sua figlia avesse protestato. Le sue parole erano svanite nel nulla, mentre lo sguardo schizzava nervosamente da ogni parte. Le lucertole sui muri avrebbero potuto raccontare un’infinità di storie. «Vedrai, la vita che farai là non sarà tanto diversa dalla nostra. Festeggerai il Natale, digiunerai in Quaresima… andrai a messa tutte le domeniche. La stessa eucarestia, le stesse palme e gli stessi eucalipti. È un buon matrimonio… È un uomo facoltoso».

Perché un uomo facoltoso dovrebbe sposare una ragazza povera e priva di dote? Cosa le stanno nascondendo? Cosa manca a quell’uomo? La giovinezza, tanto per cominciare – ha quarant’anni. E ha già avuto un figlio. Qualche giorno prima, dopo che il sensale di matrimoni se n’era andato, aveva sentito lo zio rimproverare duramente sua madre, dicendole: «E se sua zia è annegata, cosa cambia? Vuol forse dire che nella sua famiglia corre una vena di pazzia? Si è mai sentito parlare di una famiglia colpita dalla maledizione di morire annegati? Sono sempre tutti invidiosi di un buon matrimonio e troveranno un pretesto per dire le cose peggiori».

Seduta sulla sdraio, accarezza i braccioli levigati e per un attimo pensa agli avambracci di suo padre; come molti uomini malayali era un adorabile orso, pieno di peli sulle braccia, sul petto e perfino sulla schiena: per toccargli la pelle dovevi passare attraverso una morbida pelliccia. In grembo a suo padre, su quella sdraio, lei ha imparato a leggere e a scrivere. Quando prendeva dei bei voti alla scuola parrocchiale, suo padre le diceva: «Hai una bella testolina. Ma essere curiosi è piú importante. Potresti continuare a studiare. Magari andare al college! Perché no? Non permetterò che ti sposi presto come tua madre».

Il vescovo aveva assegnato suo padre a una chiesa problematica vicino a Mundakayam, dove non c’era un achen fisso perché i commercianti maomettani si opponevano. Non era un posto adatto a una famiglia, da quelle parti a mezzogiorno la nebbia del mattino arrivava ancora alle ginocchia e verso sera saliva fino al mento, mentre l’umidità causava dispnee, reumatismi e febbre. Dopo un anno laggiú, era tornato, ma aveva sempre dei brividi che gli facevano battere i denti, e aveva la pelle rovente, e faceva una pipí nera. Prima che si trovasse qualcuno in grado di curarlo, gli si era immobilizzato il petto. Quando sua madre gli aveva messo uno specchio davanti alla bocca, non si era formato un velo di condensa. Il respiro di suo padre era svanito nell’aria.

Ecco il giorno piú triste della sua vita. Come poteva il matrimonio essere peggio?

Si alza per l’ultima volta dalla sdraio di bambú. La sedia di suo padre e il suo letto con la base di tek sono per lei come le reliquie di un santo, ne trattengono l’essenza. Se solo potesse portarle nella sua nuova casa…

All’interno c’è movimento, comincia la giornata.

Si strofina gli occhi, drizza le spalle e alza il mento per affrontare cosí ciò che l’aspetta quel giorno, l’orrore del distacco, lasciare casa sua ormai non piú sua. Il caos e il dolore nel mondo di Dio sono misteri imperscrutabili, eppure la Bibbia le insegna che c’è un ordine in tutto questo. Come direbbe suo padre: «La fede è sapere che c’è uno schema, anche se non lo vediamo».

«Andrà tutto bene, Appa» dice, immaginando la sua angoscia. Se fosse ancora vivo, oggi lei non andrebbe sposa a nessuno.

Immagina anche la sua risposta: Le preoccupazioni di un padre finiscono davanti a un bravo marito. Prego che lui sia cosí. Ma di questo sono sicuro: lo stesso Dio che ha vigilato qui su di te, vigilerà su di te pure là, molay. Ce lo ha promesso nei Vangeli. «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

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Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la curatrice del blog letterario "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga.