“Grande meraviglia” di Viola Ardone

«L’amore è incomprensibile, una forma di pazzia». Nel candore dello sguardo di Elba il manicomio diventa un luogo buffo e terribile, come la vita, che Viola Ardone sa narrare nella sua ferocia e bellezza. Dopo “Il treno dei bambini” e “Oliva Denaro”, “Grande meraviglia” completa un’ideale trilogia del Novecento. In questo romanzo di formazione, il legame di una ragazzina con l’uomo che decide di liberarla rivela il bisogno tutto umano di essere riconosciuti dall’altro, per sentire di esistere. Elba ha il nome di un fiume del Nord: è stata sua madre a sceglierlo. Prima vivevano insieme, in un posto che lei chiama il mezzomondo e che in realtà è un manicomio. Poi la madre è scomparsa e a lei non è rimasto che crescere, compilando il suo “Diario dei malanni di mente”, e raccontando alle nuove arrivate in reparto dei medici Colavolpe e Lampadina, dell’infermiera Gillette e di Nana la cana. Del suo universo, insomma, il solo che conosce. Almeno finché un giovane psichiatra, Fausto Meraviglia, non si ficca in testa di tirarla fuori dal manicomio, anzi di eliminarli proprio, i manicomi; del resto, è quel che prevede la legge Basaglia, approvata pochi anni prima. Il dottor Meraviglia porta Elba ad abitare in casa sua, come una figlia: l’unica che ha scelto, e grazie alla quale lui, che mai è stato un buon padre, impara il peso e la forza della paternità. Con la sua scrittura intensa, originale, piena di musica, Viola Ardone racconta che l’amore degli altri non dipende mai solo da noi. È questo il suo mistero, ma anche il suo prodigio.

Vita meravigliosa
sempre mi meravigli
che pure senza figli
mi resti ancora sposa.


PATRIZIA CAVALLI, Vita meravigliosa

Parte prima
1982

1.

Il mezzomondo è la casa dei matti, ci stanno i cristiani che sembrano gatti: non hanno la coda, non sanno miagolare, però sono gatti. Gatti da legare.

Stamattina è arrivata una Nuova e le ho dovuto spiegare tutto daccapo: in principio c’è Colavolpe, poi Lampadina, poi gli infermieri, poi i sorveglianti, poi nulla, nulla, nulla, poi sempre nulla. E infine i matti.

Devi sapere per prima cosa che qui è come il mare: ci sono le Tranquille e ci sono le Agitate. Un mare chiuso ma sempre mare, e in ogni mare si può navigare. Dentro al mezzomondo ci sta pure Elba, che sono io, ma per me questo è il mondo intero, perché il resto che c’è non so neppure cos’è. Ahà.

La Nuova non parla, non dice il suo nome. All’inizio è cosí: fanno spesso il silenzio, poi alcune partono e non si fermano piú, dicono insalate di parole, una lingua segreta che nessuno capisce. Ed è inutile starle ad ascoltare quando cominciano a burbureggiare.

Nessuna risposta. Conto fino a cinque virgola sei e poi ricomincio.

Vuoi sapere perché mi chiamo Elba? Chiedo alla Nuova. Lei strizza l’occhio sinistro: lo prendo per un sí. È il nome di un grande fiume del Nord che passa per la Germania, me lo ha dato la mia Mutti, che in tedesco significa mamma. Lo sai tu dov’è la Germania sulla carta geografica? Ce ne sono due: una gialla e una arancione, cosí ho imparato alla scuola delle Suore Culone, dove mi hanno mandata quando avevo nove anni, per farmi studiare. La mia Mutti veniva da quella arancione, che però adesso è tutta chiusa dentro al comunismo. Ci hanno fatto un muro intorno, proprio come qui al mezzomondo, nessuno può entrare o può uscire, solo i fiumi scorrono liberi, perché non li si può fermare. Il fiume che porta il mio nome attraversa la Germania arancione e si getta nel Mare del Nord. Tutti i fiumi arrivano al mare, diceva la Mutti.

La Nuova si attorciglia nella coperta come una gatta scontrosa. Io mi sfrego con la nocca dell’indice la piccola gobba che ho sul naso tre virgola quattro volte e riprendo a spiegare.

La Mutti è scappata tanti anni fa dalla Germania arancione, però è finita ugualmente dietro un muro. L’hanno internata qui, ma non era da sola: aveva già me nella pancia, e tante cose dentro la testa. La matematica, le lingue straniere, i nomi di tutte le specie animali e vegetali, e la pazzia.

Sono stata cinque anni dalle Suore Culone, quando finalmente sono tornata la Mutti era sparita. Colavolpe ha detto che è morta, ma io non gli credo, perché ogni tanto sento la sua voce. La Nuova sospira e una puzza di fame si spande per la stanza. Che credi? Mica sono come le stralunate del terzo piano, che le voci le immaginano soltanto! Altrimenti Colavolpe mi avrebbe spostato con loro, perché lui è il capintesta del mezzomondo e comanda sui pazzi e sui sani, sia bestie che umani.

La Nuova alza le spalle e si mummifica nella coperta, forse ha un po’ freddo, come noi tutte. Solo che alcune hanno freddo sopra la pelle, altre sotto, come me.

Non lo so se la sento davvero, la voce della Mutti, confesso, ma di certo lei è viva ed è ancora nascosta qui, in qualche reparto. Lo so con certezza, me l’ha rivelato una matta quando sono tornata, piú o meno un anno fa, e le matte non sanno mentire.

Resto in silenzio, la pancia della Nuova cigola come una porta vecchia, è il rumore piú triste del mondo, perciò riprendo a parlare. La mia Mutti era bella, chiudi gli occhi e prova a vederla: i capelli di muschio dorato, gli occhi di foglie croccanti, le dita di edera rampicante. Con lei non c’era mai niente di male, e se piangevo si metteva a cantare: Backe, backe Kuchen oppure Es war eine Mutter. Tra noi parlavamo sempre nella lingua segreta della Germania, per conservare i nostri pensieri nascosti dagli altri.

Lei mi faceva compagnia, mai diceva una bugia, né cadeva in epilessia. E c’erano i giochi che inventava per me. C’era il Cinema muto: se una matta si metteva a gridare, lei mi turava le orecchie, muoveva le labbra e io dovevo capire tutto quel che diceva. Il gioco finiva quando la matta sveniva o quando Lampadina se la portava nel suo stanzino.

C’era la Caramella fuggita: vinceva chi di noi due riusciva a sputarla nel gabinetto senza che l’infermiera di turno se ne accorgesse. Una volta dimenticai di tirare lo scarico e persi due punti, ma dopo ho imparato. Perché qui siamo matti, è vero, ma mica fessi!

C’era Lello Cammello: si mettevano insieme il secchio e lo spazzolone per lavare il pavimento e ne veniva fuori un dromedario come quello che avevo visto in televisione in un documentario sul terzo canale. Io mi sedevo a cavalcioni in groppa al bastone di legno e attraversavo il deserto del mezzomondo.

C’era Regina reginella. Io dicevo: Regina reginella, quanti passi devo fare per arrivare al tuo castello senza ridere e senza piangere? La Mutti rispondeva: cinque passi da giraffa. E li facevo: uno, due, due virgola sei, tre, quattro, quattro virgola sette e cinque. Quando la raggiungevo, lei mi faceva i fricci-fricci sul collo per farmi scompisciare. A volte i passi erano dieci da elefante, a volte cento da formica. Ma in fin dei conti sempre da lei tornavo. Per questo sono belli, i numeri, perché non finiscono mai, tali e quali alle pazzaríe delle persone, però a differenza di quelle vanno sempre per ordine e mai a casaccio. A me piacciono sia i numeri interi che quelli decimali, i decimali di piú perché sono come me: precisi ma incompleti.

La tua mamma dov’è, è viva?

La Nuova non si prende nemmeno il disturbo di girare il viso verso di me, mentre si ficca l’unghia dell’indice destro nel palmo sinistro. Sfilo il quaderno con la copertina nera da sotto il materasso e lo annoto nel mio Diario dei malanni di mente. Ogni volta che ne scopro uno diverso, lo aggiungo all’elenco, cosí aiuto Colavolpe a fare le diagnosi. Spesso non siamo d’accordo: lui dice isteria e io schizofrenia, lui dice paranoia e io mania, lui raptus e io epilessia. Gliela do vinta perché lui è il capintesta, ma poi le nuove passano di reparto in reparto e finiscono proprio dove dicevo io: schizofrenia, mania, epilessia. A me piace fare le rime e per fortuna al mezzomondo tutte le parole finiscono in -ia, come pazzia. Colavolpe non vuole mai ammettere che ho ragione, perché è geloso: io nella pazzia ci sono nata, mentre lui per arrivarci ci ha messo una vita.

Nel mondo di fuori non ci sono mai stata, tranne i cinque anni dalle Suore Culone. Ma che importanza ha? È il resto del mondo che viene fin qua. Al Fascione ci arrivano tutti: alti, magri, belli e brutti. Qui al femminile ognuna ha la sua frenesia: a chi piace scorticarsi la pelle, a chi piace lagnarsi di notte e di giorno, a chi raccontare bugie. Chi è convinta di essere un’altra, chi si strappa i vestiti e gira con le vergogne di fuori. A chi piace restare sdraiata e fingersi morta, a chi mescolare parole spaiate, a chi sfregarsi in ogni momento l’inquilina del piano di sotto. E in questo caso: acqua fredda e il prurito se ne va. E se continua: elettricità.

A te prude mai l’inquilina del piano di sotto? Mi guarda come se fosse una cosa a cui non ha mai pensato. O è solo catatonica, lo annoto nel mio Diario dei malanni di mente.

In questo reparto, racconto alla Nuova, siamo tutte donne, o una specie di donne, perché ognuna di noi ha qualcosa di sbagliato o un pezzo mancante.

Aldina è nevrastenica, è brava a comporre le vere poesie senza rime, mica come le mie, sa fare le trecce a sé stessa e alle altre e spaccare le cose di vetro. Di noi è l’unica bella: ha i capelli ricci e neri e le dita lunghe, anche se le unghie sono mangiate fino alla carne. Il padre l’ha fatta rinchiudere perché si era messa con gli agitatori: meglio pazza che terrorista, ha detto il giorno in cui l’ha portata. È stata un mese alla casamatta, perché era ribelle e a volte le urla arrivavano fino qui nel Mar dei Tranquilli. Mi dichiaro prigioniera politica, gridava, e la legavano con la corda. Un giorno mi ringrazierai, le dice suo padre quando viene a trovarla, e regolarmente Aldina gli sputa in faccia. Si vede che il giorno non è ancora arrivato.

Nunziata è ossessiva, si bagna sempre i polsi e il collo con l’acqua del rubinetto perché faceva la profumiera alla Rinascente. Le signore si spaventavano e non andavano piú a comprare i cosmetici, cosí è stata licenziata e i genitori, non avendo i mezzi per tenerla a casa, l’hanno mandata qua. I suoi giorni si dividono in buoni e meno buoni. In quelli buoni sorride, ci avvicina il collo e chiede: com’è? Noi rispondiamo mi piace, ma lei in verità sa solo di sudore, di fumo e di cipolla vecchia. Nei giorni meno buoni Nunziata non c’è per nessuno, nemmeno per il profumo.

Nonna Sposina è schizofrenica, è la piú anziana del reparto, ha i capelli come la stoppa, di denti gliene sono rimasti tre, ma ben piantati nell’osso di sotto. Non trattiene la cacca e la pipí, burbureggia notte e dí, sono secoli che vive qui. C’era già da prima che mi spedissero dalle Suore Culone e per questo le voglio una specie di bene. Crede sempre che sia il suo sposalizio, perché da ragazza è stata lasciata sull’altare e non si è ripresa piú. Cosí mi hanno detto, e io ci credo, perché l’amore a volte ti capita, ma altre ti decapita: ti fa perdere la testa. Ahà.

Io e la Mutti le facevamo da testimone e damigella ogni giorno, lei attraversava il corridoio tra le due file di brande come se fosse dentro la chiesa, si inginocchiava davanti allo stipetto delle padelle per urinare e recitava la stessa litania: io, Palomba Carmela, prendo te – e ogni volta un nome diverso – come mio legittimo sposo, finché morte non ci separi. Amèn, concludeva. Amèn, Amèn, ripetevamo io e la Mutti unendo i palmi delle mani. Palomba Carmela si faceva il segno della croce, tornava alla sua branda e si pisciava sotto, una vecchia bambina rugosa. La Mutti la puliva, le cambiava le mutande e con un pettinino che teneva in una tasca segreta del camicione le strigliava i capelli, lunghi lunghi e bianchi bianchi. Io mi avvolgevo nel lenzuolo che era stato il suo strascico da sposa, le guardavo, ero felice e basta.

Pina è cleptomane, ruba il pranzo delle altre per darlo ai figli, dice, ma i figli non sono qua con lei, forse non sono in nessun altro posto che nella sua testa. Vedi che con Pina potresti fare comunella, se sei inappetente, suggerisco alla Nuova, tu metti via il cibo e lei se lo mangia. Sono cose su cui ci si aiuta, qua dentro. Ogni volta che Pina sgraffigna qualcosa, Colavolpe la scopre e la chiama Mappina, come fosse un diminutivo, invece è una malaparola: mi ha spiegato Nunziata che significa straccio vecchio e consumato, una schifezza.

Quando Colavolpe le urla che è una mappina, le infermiere ridono e lui mostra i denti mezzo neri, quasi moribondi. Noi non possiamo ripeterlo perché lui non tollera il turpiloquio, tranne che durante le crisi isteriche, e in quel caso ci manda alla casamatta in isolamento, là possiamo sfogarci e lasciare che tutto il male che abbiamo dentro ci esca fuori attraverso la bocca e ogni altro buco del corpo. Alla casamatta non ci sono mai stata, ma Aldina ci è andata furiosa ed è tornata pacifica. Com’è stato, le ho chiesto. Non ha risposto, ha scritto una poesia su uno strappo di carta igienica.

La rabbia è un tumore dell’anima,
incastrato tra il cuore e la gola,
e pesa su ogni battito
come un quintale di odio.

È bella, le ho detto, non l’ho capita. Lei ha aperto la mano e ha tirato lo sciacquone. Era una poesia di merda, ha risposto, e ha sputato nella tazza.

Tu scrivi poesie?, ho chiesto alla Nuova. Io invento le rime, come le pubblicità della televisione che guardavo insieme alla Mutti prima che mi portassero dalle Suore Culone. A te manca la tua mamma? A me tutti i giorni, ma ogni giorno di meno, la nostalgia è un dolore che passa, ho scritto nel mio Diario dei malanni di mente, ed è questa la cosa peggiore.

Hai capito? Nessuna risposta. Hai capito? Niente. Capito, capito, capito, capito, capito? Che importa, magari sei sorda soltanto, non è colpa tua. Allora ti dico i miei gusti, va bene? Io amo enumerare gli oggetti, guardare la televisione, cantare le sigle delle pubblicità, dar fuoco alle cose, parlare da sola per farmi compagnia, catalogare ogni mania. Se sono matta io non lo so, ma questo è il solo posto che ho.

Spio la faccia della Nuova per vedere se ascolta. Ha gli occhi fissi alla parete grigia, come se ci vedesse le foglie. Un’altra Nuova prima di te, le dico, vedeva le foglie, lo sai? Non solo sugli alberi, vedeva le foglie anche dove non c’erano proprio: foglie alle docce, foglie alle brande, foglie alla mensa. E ci parlava pure: lei con le foglie e le foglie con lei. Poi un giorno è guarita e la famiglia se l’è ripresa in casa. Io non l’avrei mica dimessa, perché le foglie sono un osso duro, non è che se ne vanno cosí facilmente come sono venute. Lo dissi a Colavolpe, lui come al solito fece di testa sua e la ragazza partí. Ce la riportarono dopo tre mesi con i polsi fasciati. Tu mica le vedi, le foglie? La Nuova sta zitta, io però continuo a parlare, magari mi ascolta, non si sa mai.

Viola Ardone (Napoli 1974) insegna latino e italiano al liceo. Per Einaudi Stile Libero ha pubblicato i due best seller Il treno dei bambini (2019) e Oliva Denaro (2021), tradotti in tutto il mondo, e Grande meraviglia (2023).

Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la curatrice del blog letterario "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga.