Esce oggi il romanzo “La rinnegata” di Valeria Usala edito da GARZANTI disponibile in tutte le librerie e on-line. Estratto

Senza un uomo accanto, una donna non è nulla. Teresa ha sempre sentito l’eco di questa frase, come il vento durante la tempesta, ma non ci ha mai creduto. Lei che è quiete e fuoco, rabbia e tenerezza, lotta contro il pregiudizio da quando è nata. Rimasta orfana, non ha avuto nessuno a proteggerla dalla propria intelligenza, oltre che dalla propria bellezza. Un intero paese la rinnega, impaurito di fronte alla sua indipendenza, alle sue parole e alle sue azioni. Perché in fondo sono solo queste a renderla diversa dalle altre donne. Neanche aver creato una famiglia con l’uomo che ama ha messo a tacere le malelingue e i pettegolezzi. Nessuno crede che la sua fortuna, derivante da un emporio e una taverna che ha costruito e gestisce con le sue forze, sia frutto di fatica e tenacia. Ma le voci sono sempre rimaste solo voci, anche quando a rispondere a tono è Maria, la bruja del villaggio, che vaga per le strade senza una meta precisa. Quando tutto cambia, Teresa deve difendere ciò che ha conquistato e dimostrare che può farcela da sola. Che non rinunciare a sé stessa significa essere libera. Vuole dare a quel vento, pieno di parole feroci, un afflato nuovo; ma il pregiudizio è forte e saldo, come una radice ancorata alla terra. Valeria Usala ha scelto di dare voce a una donna dimenticata, una donna che ha deciso di resistere contro tutto e tutti. Una giovane autrice rompe il silenzio che avvolge una storia che ha molto da raccontare. Una storia in cui la Sardegna è protagonista attraverso la sua natura, le sue leggende e le sue contraddizioni. Una storia di coraggio e rinuncia. Una storia di amore e potere. Una storia di rinascita e di speranza.

Alle mie radici, Giovanna e Bianca.
E a tutte le madri inconsapevoli di quotidiane rivoluzioni.

PROLOGO

Siamo i piedi scoperti e i bastoni intagliati di chi cammina sotto il sole in attesa del vento. Se muori senza essere stato prigioniero e libero insieme, non hai mai vissuto.

Siamo le braccia robuste e le mani ingorde dei contadini che non vanno in pensione. Se vivi di semina e raccolto non puoi avere grandi sogni, solo grandi speranze.

Siamo i sorrisi calorosi e beffardi di chi accoglie lo straniero tra curiosità e diffidenza. Ogni incontro un esodo, ogni scontro un’invasione.

Siamo lo sguardo inquisitorio e l’udito esperto di chi conduce il gregge e inforna il pane.

Siamo le urla innocenti dei bambini e i silenzi vendicativi dei vecchi.

Siamo le preghiere in ginocchio, i canti intorno al fuoco, le parole di troppo macchiate dal vino.

Il profumo del mirto, il tronco del ginepro, l’acre del formaggio.

Del maestrale abbiamo l’ostinazione, del mare la trasparenza; indossiamo veli neri che annunciano disgrazie.

La Sardegna ha un’unica bandiera, ogni paese il suo martire. La nostra è una donna di nome Teresa, e la sua morte è rimasta per troppo tempo un segreto.

Nessuno ne parla, qualcuno domanda, tutti ricordano.

Teresa è stata uccisa, ed è tutta colpa nostra.

PRIMA PARTE 
DICIAMO SEMPRE LA VERITÀ

1.

In una calda mattina di settembre, un fascio di luce avvolgente filtrò dalla finestra al primo piano di casa Murru e sfiorò la guancia di Teresa, come avrebbe fatto la mano di suo marito Bruno se solo gli affari non l’avessero trattenuto in città più del previsto. La donna aveva da poco dato alla luce Emilio, il loro terzo figlio, ma alcune complicazioni durante il parto l’avevano costretta a una sosta forzata. Così, dopo qualche settimana, aveva assecondato l’impellenza di rimettere piede fuori di casa, nonostante non fossero ancora passati i quaranta giorni di riposo previsti per il puerperio. La scelta di Teresa di non aderire alle tradizioni, in un paese come Lolai, sembrava un’ennesima e presuntuosa sfrontatezza, ma lei era solita assecondare la propria natura agendo per necessità, piuttosto che per consuetudine.

Mentre era intenta a spazzolarsi i lunghi capelli neri davanti allo specchio, i suoi occhi color miele fissavano il proprio riflesso con aria incuriosita. Era da tanto che non si osservava così da vicino: notò alcuni piccoli nei ai lati della fronte e la pelle del viso più tesa, appesantita dalla recente fatica. Accennò un sorriso allo specchio e quello le rispose di rimando, ma presto la contrazione dei muscoli rese l’espressione forzata, costringendola con un debole sbuffo a tornare seria. Si voltò verso la mensola e afferrò la sua collana preferita, sa corbula, un pendente rotondo in argento simile a una cesta di vimini intrecciato, regalatole dall’amica Gavina il giorno del suo matrimonio. Se lo fece scivolare intorno al collo con cura e annuì soddisfatta.

Prese dall’armadio un’ampia gonna nera con il bordo inferiore a balze, decorato con fili di seta colorati, e una camicia di lino bianco con due asole all’altezza del collo, unite da una coppia di gemelli. Sopra la camicia mise un aderente corsetto in broccato, anche quello impreziosito da lustrini e intonato alla gonna, e indossò un paio di scarpe in pelle nera col tacco. Poi si raccolse i capelli in una crocchia ordinata e li coprì con un panno di seta, piegato a triangolo e annodato sotto il mento in un fiocco.

Dopo aver preso in braccio Emilio, Teresa lasciò la camera da letto e si fermò alla fine del corridoio per svegliare gli altri due figli: Maddalena, di otto anni, e Francesco, di sei. I due bambini la precedettero lungo le scale e si lasciarono cadere sulle sedie della cucina, ancora assonnati.

Casa Murru era composta di cinque spazi organizzati su due piani: al primo due camere da letto e al piano terra una cucina con camino, un’altra camera per gli ospiti e un minuscolo ripostiglio. L’ingresso della cucina dava su un grande cortile interno, che portava da un lato al portone in legno verde affacciato sulla strada, dall’altro alle stalle e a un piccolo locale adattato a emporio. Teresa si era occupata di persona della gestione di quello spazio, rifornendolo periodicamente di cibi, bevande e arnesi procurati da Bruno al mercato – scuri, roncole, rastrelli e sacchi di juta – da vendere a compaesani e contadini che spesso si fermavano a Lolai per fare rifornimento.

Negli ultimi anni, gli affari erano cresciuti tanto in fretta da aver reso i Murru una delle famiglie più in vista del paese. Poco dopo, spinta dall’ottimismo, Teresa aveva convinto il marito a espandere ulteriormente la casa sul lato ovest, per ricavarne una taverna. La donna si era data ancora una volta da fare, nonostante fosse già in attesa del terzo figlio, e alla fine dei lavori quel locale modesto – con un camino, qualche tavolo e un bancone di legno che dava su un piccolo cucinotto – era diventato il luogo più frequentato della zona. Teresa si era adoperata tra i figli e quei due lavori con dedizione instancabile, ma ben presto la fatica era divenuta tale da costringerla a chiamare un’altra persona che fosse d’aiuto.

Rita, la figlia più giovane di tzia Adriana – una vedova del paese – era inesperta e piuttosto sbadata, ma si dimostrò da subito diligente e affettuosa con i bambini. Il suo viso allungato e curioso era simile a quello dei topolini bianchi che si nascondono in casa, tornando ogni tanto a fare visita da sotto i mobili. Appariva spesso in cucina lanciando un piccolo urlo, simile a uno squittio, e rideva soddisfatta nel vedere Teresa saltare sulla sedia o portarsi una mano al petto dallo spavento. L’ingenuità della ragazza stonava parecchio con la serietà della padrona di casa, ma Teresa aveva pian piano imparato ad apprezzarla: nonostante fossero molto diverse, Rita faceva il suo dovere e le dava una grossa mano.

Teresa comparve in cucina e, vedendo Rita intenta a scaldare il latte di fronte al camino, la salutò con un cenno del capo.

«Io vado, ci vediamo più tardi», disse, salutando i due figli grandi con un sorriso. Poi afferrò uno scialle scuro dalla gruccia all’ingresso e se lo avvolse intorno alle spalle; prese dalla credenza un mazzo di chiavi in ferro e uscì con il piccolo Emilio stretto in braccio.

Poco prima di varcare il portone verde d’ingresso, Teresa vide Tore venirle incontro dalla stalla. Era un uomo brizzolato e robusto, parecchio più grande di lei, con una fronte stretta e un vistoso naso a uncino. Era da sempre piuttosto introverso e, nonostante i modi gentili e il portamento elegante, due occhiaie scavate e le nocche arrossate su entrambe le mani ne tradivano un’origine tutt’altro che signorile. Aveva perso i genitori da piccolo ed era arrivato a Lolai senza un soldo, vestito di stracci; lui e Teresa erano cresciuti insieme, e negli anni avevano sviluppato l’uno per l’altra un affetto fraterno, pur non avendo alcun legame di sangue.

Iniziati i faticosi lavori in casa Murru e vista la necessità di manodopera, Bruno – che qualche anno prima aveva deciso di fare affari tra le varie fiere di paese – aveva chiesto a Tore di trasferirsi da loro; c’era bisogno di un bracciante, ma ancor più di qualcuno che badasse al bestiame e vegliasse su Teresa e i bambini quando lui era via. Tore era uno dei pochi ad aver sempre preso le difese della padrona di casa, anche in situazioni sconvenienti, e questo lo aveva reso agli occhi del paese poco più che un debole.

«Il cielo promette bene, oggi», disse l’uomo con aria allegra. «State meglio?»

Teresa annuì, alzando un braccio per sistemarsi il velo.

«Direi che il riposo è durato abbastanza.»

«Sapete che non dovreste andare, vero?» rispose Tore.

La donna tirò fuori dalla tasca il mazzo di chiavi. «Ho fatto una promessa.»

«Portategli anche i miei saluti allora», aggiunse l’uomo con aria rassegnata.

Teresa sorrise e annuì con un breve cenno della testa, poi abbassò la maniglia del portone di casa e varcò la soglia.

Dalla parte opposta della strada, una decina di uomini stava seduta a semicerchio di fronte a casa di Tonio, un omaccione con delle sopracciglia folte e pochi capelli scuri pettinati all’indietro. Tutti, nel vedersela davanti, ammutolirono per la sorpresa.

«Teresi’! Non vi aspettavamo fuori di casa così presto», borbottò infine Biccu, un vecchio barbuto dal sorriso scaltro. Gli mancava da sempre l’unghia dell’indice destro, e non c’era giorno che uscisse di casa senza un cappello nero in stoffa di orbace sulla testa, che da quelle parti chiamavano berritta.

Teresa non rispose, mentre il resto del gruppo guardava altrove per dissimulare l’imbarazzo.

«Avete urgenza?» chiese Tonio, in piedi sull’uscio con dei bicchieri vuoti in mano.

«Solo qualche commissione arretrata», gli rispose lei, affrettando il passo.

«E fate bene a darvi da fare», disse Biccu ironico. «A proposito, siete molto elegante. Devono essere importanti, queste commissioni…» aggiunse voltandosi verso Elio, un omaccione canuto che sedeva lì accanto col gomito in equilibrio su un bastone da passeggio.

«Chi dorme in gioventù poi piange da vecchio. Buona giornata», tagliò corto Teresa, prima di girare l’angolo.

Elio, al sentire la risposta della donna, diede a Biccu un colpo di bastone sullo stinco. «Scimpru! Invece che trattenerla l’hai fatta scappare!»

«Pazienza», disse Biccu divertito. «Lo vedi com’è? Così vanitosa che neanche i complimenti accetta più.»

«Ancora non l’hai capito? Con i potenti ci si comporta come col fuoco», disse Tonio con finta aria sapiente. «Non troppo vicino, e non troppo lontano

Gli uomini annuirono e tornarono a fissare il portone vuoto, mentre qualche cardellino interrompeva il silenzio svolazzando tra le fronde degli alberi.

Teresa si era lasciata il gruppo alle spalle stringendo i denti a bocca chiusa, prima di avvolgere Emilio con il velo con un gesto infastidito. Aveva sperato, restando in casa, di sviluppare una certa immunità al fastidio come fanno gli anticorpi durante la malattia. All’impertinenza degli sguardi altrui era abituata da sempre, ma con le assenze frequenti del marito le battute degli uomini si erano fatte insistenti. Aveva sempre evitato lo scontro, per non rischiare di perdere clienti in emporio o in taverna, ma ogni tanto falliva nello sforzo di trattenersi e subito dopo finiva col pentirsene. Ogni risposta, ogni tentativo di trasferire la propria indignazione cambiando sguardo o tono di voce era vano – oltre che sufficiente a farli parlare ancora, invece che desistere.

Continuò a camminare in discesa lungo una via stretta, costeggiata da alberi di limone, mentre la luce del sole rimbalzava sul selciato facendo brillare gli ingressi delle case di Lolai a ogni curva. Dai balconcini malconci affacciati sulla strada, risuonavano le voci squillanti dei bambini e il crepitio dei primi camini accesi, insieme a qualche debole cigolio di carri in lontananza. Le case, non più alte di due piani e con i portoni incastonati tra spesse mura di pietra, erano tutte semiaperte e pronte a ricevere visite inattese; le botteghe, al contrario, rimanevano chiuse per concedere qualche ora di riposo ai proprietari, spesso vinti dalla pigrizia più che dalla fatica.

Teresa era cresciuta tra quelle strade e la gente che ogni giorno le animava senza mai sentirsi parte dello stesso mondo. Avvertiva un fastidioso prurito a stare lì in mezzo ma non riusciva a immaginarsi da nessun’altra parte, e questa ambivalenza la teneva sospesa in un tormento perenne, che col tempo si era dilatato a tal punto da diventare abitudine.

Aveva vissuto come serva dai Collu, una ricca famiglia di proprietari terrieri, alle dipendenze di Vincenzo, Margherita e i loro quattro figli. Sua nonna, che l’aveva allevata, era morta prima che lei compisse otto anni, rendendola l’unica orfana della casa insieme a Tore. Forse per questo, forse per l’età simile a quella dei figli, il signor Collu l’aveva sempre trattata con un occhio di riguardo, insistendo perché imparasse un lavoro manuale in grado di garantirle un futuro dignitoso. Il giorno del diciottesimo compleanno di Teresa, Vincenzo aveva ospitato in casa un gruppo di minatori; tra loro c’era un ragazzo riccioluto, alto e snello nato in un paese non lontano da Lolai. Si chiamava Bruno. Lui e Teresa si erano piaciuti subito e, nonostante il ragazzo volesse lasciare da tempo il lavoro in miniera a causa di una polmonite cronica, il signor Collu aveva appoggiato di buon grado quell’unione. Anche se correvano il rischio di rimanere per sempre un mistero l’uno per l’altra, era stata l’idea di avere tempo per scoprirsi a vicenda a farli innamorare…

foto presa dal web

Valeria Usala è nata vicino al mare e cresciuta in mezzo a un mare di storie. Dopo una laurea in lingue e comunicazione, un diploma in storytelling e anni di lotte contro il tempo, ha imparato che dedicarne di più a cinema, cibo e cruciverba fa bene alla salute, oltre che alla scrittura. La rinnegata è il suo romanzo d’esordio.

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Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la curatrice del blog letterario "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga.