“Tre piccole bugie” di Laura Marshall edito da Piemme edizioni, un thriller che vi terrà con il fiato sospeso. Estratto

Trama

Quando riuscirai a liberarti del passato?E se fosse già troppo tardi?


Difficile pensare a che cosa sarebbe stata la tua vita senza Sasha North, la fascinosa, carismatica cattiva ragazza che ha plasmato la tua adolescenza. Un’amicizia pericolosa, certo. Oggi forse puoi chiamarla così. Eppure ti sei sempre sentita così bene a essere sua amica, a essere illuminata da lei e dalla sua luce speciale. Eccome se ha cambiato la tua vita, Sasha North. Ma adesso lei è scomparsa. All’improvviso, senza lasciare tracce. Ti sei svegliata nell’appartamento di Londra che condividete e non l’hai trovata. Sembra svanita nel nulla. Gli altri, quelli che la conoscono meno bene di te, diranno che è scappata volontariamente, che non vuole farsi più trovare. Ma tu la sai più lunga. In fondo vi conoscete da quando eravate ragazzine, quando Sasha e la sua famiglia portarono vitalità e colore nella vita tua e dei tuoi amici. Finché quella notte maledetta tutto cambiò. E tu sai esattamente cosa successe quella notte. Sai quali sono i tre piccoli grandi segreti, le tre piccole grandi bugie che sconvolsero per sempre la vostra innocenza. E sai anche che c’è qualcuno che, dopo tutti questi anni, sta ancora cercando vendetta. Ma allora, se Sasha è scomparsa… vuol dire che la prossima sarai tu?

Un thriller compulsivo che leggerete d’un fiato, perché nulla è più potente di una bugia. Anzi, tre.

Estratto 

 

Per Michael

Olivia

Luglio 2007

Il mio piccolo. Ha un’aria così sperduta, là sopra. È la prima volta che si mette in giacca e cravatta da quando si è diplomato, Dio sa se non sembra successo cinque minuti fa, e invece sono passati due anni. La mente corre al suo primo giorno di scuola, le mani che si perdevano nelle maniche del maglione un po’ abbondante, acquistato col pensiero che gli durasse qualche anno. Vedo ancora quel bambino, oggi, nel suo volto che per me è rimasto sempre lo stesso. Certo, in realtà è cambiato, e lo so bene, ma ogni volto è andato negli anni a sovrapporsi a quello di un tempo, l’originale che adesso solo io riesco a vedere: pelle liscia e perfetta, una spruzzata di lentiggini sul naso, l’espressione franca e aperta.

Che però adesso è chiusa, sembra impassibile, ma io non me la bevo. Sono l’unica a percepire il tremito che gli corre dentro, perché anch’io sono scossa dallo stesso sentimento. Carne della mia carne. Fino a quando non arriva intorno ai sei, sette mesi, un neonato non è consapevole di essere un individuo a sé rispetto alla madre. Fino a quel momento, è convinto di essere un tutt’uno con lei. È per questo che l’ansia da distacco nasce a quell’età. Il bimbo lo accetta, alla fine. La madre mai. Tu e tuo figlio resterete una cosa sola, per sempre. Sentirai sulla tua pelle ogni ferita, ogni malignità, ogni delusione.

«In piedi!»

Un colpo alla porta, arriva il giudice. Daniel sussulta e d’istinto lo sguardo saetta su di me, in cerca di una guida. Vorrei sorridere, ma le labbra non mi assecondano. Gli occhi di mio figlio scandagliano speranzosi la galleria dove siede il pubblico, pur sapendo che Tony non ci sarà. Tony non ce la faNeanche io ce la faccio, però sono qui. È solo l’ultima di una lunga serie di cose insopportabili che però ho sopportato comunque. Alzarsi cinque volte a notte per allattarlo o placarne il pianto, trascorrere interminabili mattinate domenicali a guardarlo giocare a rugby sotto una pioggia gelida, scarrozzarlo a destra e a manca per i concerti di pianoforte, sedergli accanto tutta la notte la prima volta che si è ubriacato, troppo terrorizzata per dormire, per paura che si soffocasse con il suo stesso vomito. Tutto ciò che ho fatto è stato per proteggerlo, per il suo bene. È questo che facciamo, noi madri. Devo continuare a ricordarlo, qualunque cosa accada, qualunque cosa io abbia fatto. Non ho mai agito pensando a me stessa. L’ho fatto per Daniel.

Entra il giudice, una macchietta con la parrucca frusta, le guance rubizze. I giurati lo fissano, in attesa. Sono agitati, intimoriti; probabile che per la maggior parte di loro sia la prima volta in un’aula di tribunale, e per di più adesso si trovano a rivestire un ruolo chiave. Alcuni si concedono un’occhiata fugace a Daniel, ma nessuno indugia a lungo. Cos’è che li spinge a distogliere lo sguardo? Disgusto? Paura? Quanto sanno già di lui, di ciò di cui è accusato?

Mi piego in avanti, le braccia sul corrimano. Sarò qui tutti i giorni, fino alla fine. Riesco a immaginarmi solo un esito positivo, con Daniel che viene prosciolto. Le testimoni screditate, la… vittima che ammette di avere mentito. Saliremo insieme su un taxi, diretti a casa, lo metterò a letto e lui dormirà, e il suo corpo e la sua mente potranno iniziare a guarire.

Neanche riesco a contemplarla, l’alternativa. Tremo al solo pensiero. Per me, come per quasi tutti, il carcere è sempre stato un concetto astratto. Al massimo mi è capitato di passarci davanti, immaginare i detenuti all’interno, ma come una razza a sé: criminali, non persone comuni. Individui completamente estranei a me e al mio modo di vivere, una realtà che mai avrei incrociato e a cui mai avrei dovuto pensare. Ebbene, non è più così. Quando le tue amiche sono anche loro madri, i discorsi cambiano man mano che i figli crescono. All’inizio sono tutti racconti di notti in bianco e pannolini, prime parole e addestramento al vasino; poi la scuola, i litigi con gli amici, la pubertà. Più di recente parlavamo di droga, sesso e alcol. Credevo che sarebbero stati gli ultimi problemi di cui mi sarei dovuta occupare prima di passare a un nuovo tipo di rapporto con i miei figli, quello tra adulti. Me li vedevo portarmi fuori a pranzo, chiedermi consiglio sulle migliorie da apportare alla casa, tornare ad abbracciarmi come facevano quando erano piccoli, solo che questa volta sarebbero stati loro a farmi sentire al sicuro nell’abbraccio, anziché il contrario. Mai, nemmeno in un milione di anni, avrei immaginato di ritrovarmi qui, in questo mondo alieno dove nessuna delle mie amiche ha potuto, o voluto, seguirmi. Farei a cambio all’istante con una qualsiasi di loro.

Il giudice si siede, e così tutti gli altri, tranne l’avvocato dell’accusa, che si rivolge alla giuria per l’arringa di apertura. È così che comincia, il processo al mio bambino. Accusa: stupro.

 

Ellen

Settembre 2017

Sasha non è a casa quando rientro dallo studio, perciò metto un cd di Olivia a tutto volume, il Lamento di Didone di Purcell. Naturalmente ho scaricato tutte le arie che ha registrato, ma questa è la mia preferita in assoluto, più dolce e intima rispetto ad altre maggiormente istrioniche. È stata la prima che le ho sentito cantare dal vivo, e infilare il cd nel mio antiquato impianto stereo mi fa stare bene. L’ho messa anche alla radio, oggi, soffocando il timore che Sasha potesse essere all’ascolto. Era al lavoro, e nel suo ufficio non ce li vedo a scegliere Simply Classical come sottofondo. Immagino che i suoi colleghi neanche sappiano dell’esistenza di questa minuscola web radio, a meno che non gliene abbia parlato lei, cosa di cui dubito. Quasi non ne parla con me, tacito segnale del fatto che disapprova le mie scelte lavorative. La fanno pensare ai Monkton. La musica classica era il loro mondo e lei l’ha rigettato in blocco dal giorno in cui se n’è andata da casa loro.

Per me era diverso, però. Io sono sempre stata un’appassionata, al contrario di lei. I miei genitori non erano tipi da ascoltare musica. A volte mia madre accendeva Radio 2 mentre cucinava, e in un portadischi impolverato in salotto c’era qualche album. Capitava che mettessero della musica, se c’erano visite, ma di fatto era una cosa a cui non erano interessati. Non suscitava loro nessuna emozione. Io mi fingevo fan dei gruppi in voga tra i miei coetanei, avevo appeso i poster in camera ed ero persino andata a sentire qualche band con Karina, senza troppo entusiasmo. Ma tutto cambiò dopo quel primo concerto a teatro, seduta al buio accanto a Daniel, con il cuore che mi martellava in petto e le lacrime agli occhi mentre la voce di Olivia mi si rovesciava addosso, dentro, come acqua calda. Solo allora ho capito il potere della musica.

Mi stendo sul divano, cerco di rilassarmi abbandonandomi alle note mentre stringo tra le dita il telecomando dello stereo, pronta a scattare non appena sentirò la chiave di Sasha nella serratura. Venerdì scorso non me l’aspettavo – credevo che sarebbe stata fuori dopo il lavoro – e invece è rientrata intorno alle diciannove, di pessimo umore, e mi ha beccata ad ascoltare Olivia. Non ha aperto bocca ma si capiva lontano un miglio che era contrariata, la rabbia si irradiava dal suo corpo a ondate, invisibili ma potenti. Ho spento e ho cercato di parlarle ma è schizzata in camera sua, ha detto di essere stanca. C’era qualcosa che non andava, ne sono certa, ma chissà cosa. Questo venerdì non è la chiave di Sasha ma il citofono, a interrompermi. Salto su come un pupazzo a molla, spengo in fretta lo stereo e vado all’ingresso.

«Sono Jackson» annuncia una voce brusca. Nessun saluto. Non fanno per lui i convenevoli, la banalità delle frasi fatte che lubrifica gli ingranaggi dei rapporti sociali. Premo il tasto con un sospiro e aspetto di sentire i suoi passi che si avvicinano prima di aprire la porta.

«È in casa?» domanda superandomi per entrare in soggiorno.

«No. Non è ancora rientrata dal lavoro. Ti aspettava?» Sono gelida, desiderosa di restituirgli il suo stesso tono spiccio.

«Evidentemente no.» Si lascia cadere sul divano, le gambe divaricate. «Sono venuto direttamente dal lavoro per… farle una sorpresa.» Ha almeno la decenza di mostrarsi imbarazzato. Sappiamo entrambi che è qui per controllarla. «Al lavoro da lei mi hanno riferito che è stata via tutto il pomeriggio. La centralinista dice che se n’è andata all’ora di pranzo, e sul cellulare parte direttamente la segreteria. Se non è qui, dov’è?»

«E io che ne so? Non sono la sua guardiana.» Mi sforzo di suonare algida e sdegnosa, ma di fatto comincio a preoccuparmi. Dov’è finita?

«Insomma. Siete amiche del cuore, giusto? Sempre appiccicate. E immagino che vi diciate tutto.»

Nella mia testa una vocina si domanda se sia vero, ma dal momento che voglioche lo sia, gli do ragione.

«Sì, ci diciamo tutto. E qualunque cosa tu stia immaginando, ti sbagli. Non sta uscendo con un altro, Jackson. Sul serio. Ti ama.» L’ultima affermazione suona debole persino a me. Non sono sicura che sia così. Neanche il resto è del tutto vero. Dodici anni di amicizia dovrebbero portare a una notevole conoscenza, a una comprensione immediata, quasi istintiva. Non dovremmo avere bisogno di dirci cosa succede, come ci sentiamo. Dovremmo saperlo, punto. Cosa che di solito in effetti accade, ma nell’ultima settimana, da quella sera in cui mi sono accorta che era 

di umore strano, Sasha è stata distante, evasiva, pronta a bloccare ogni mio tentativo di farla parlare. Jackson sembra veramente deluso quando si rende conto che davvero non ho idea di dove sia, e io mi sistemo meglio sulla poltrona.

«Cosa le sta succedendo, Ellen?» Ha smesso di fare lo spaccone, e all’improvviso capisco quanto davvero tenga a lei. La cosa mi sorprende. «Voglio dire, volubile lo è sempre stata, ma qui c’è qualcos’altro. Non è la prima volta che racconta bugie, negli ultimi tempi.»

«Cosa intendi?» Mi sento combattuta, da una parte sono a disagio a parlare di lei in questo modo, ma dall’altra ho bisogno di sapere. Su cosa gli avrebbe mentito?

«Mah, non so… Non è dove mi dice di essere, oppure è… sfuggente. Ambigua.»

«Un po’ lo è sempre stata, però.» Questo è vero. Le è sempre piaciuto fare la misteriosa, anche quando eravamo ragazzine e avevamo ben poco su cui essere misteriose. «È fatta così. Non significa…»

«Che si stia scopando qualcun altro? Oh, cresci, Ellen! Non è quell’essere sovrumano e perfetto che credi tu, sai? Ha dei difetti, come tutti quanti. Se non di più.»

«Lo so bene» ribatto, punta sul vivo. «E che è perfetta non l’ho mai detto.»

«Oh, no, non ce n’è bisogno. Si vede che lo pensi, ce ne siamo accorti tutti. La adori.»

«È la mia migliore amica!» Ho le guance in fiamme. «E poi cosa intendi con tuttiTutti chi?»

«Lascia perdere.» Innevorsito, Jackson prende a tormentare un filo dei jeans.

«Senti, qui non c’è, e non ho idea di quando tornerà.» Ricorro al tono più fermo che riesco a mettere insieme, quindi mi alzo e faccio per dirigermi alla porta. Non lo voglio qui, a saturare l’appartamento di accuse e insinuazioni. «Ti faccio chiamare quando torna, okay?»

«Penso che la aspetterò.» Si mette comodo, tira fuori un pacchetto di sigarette, l’accendino. «Arriverà, prima o poi.»

Mi verrebbe istintivo cedere, ma mi costringo a parlare. «Davvero, preferirei che te ne andassi. E qui dentro non si fuma.»

Con un sospiro melodrammatico, si rimette le sigarette in tasca. «E va bene, vado. Ma vedi di farmi chiamare non appena rientra.»

«Le dirò che sei venuto. Sta a lei decidere se chiamarti o meno.»

Appena esce vado in cucina, recupero il cellulare e faccio il numero di Sasha. Scatta subito la segreteria. Ascolto il suo messaggio, neanche ci avesse lasciato chissà quale indizio. Ciao, è il telefono di Sasha. Al momento sono impegnata, siete pregati di lasciare un messaggioStava sorridendo mentre lo registrava, si sente dalla voce.

«Ehi, Sasha, sono io. È venuto Jackson, tutto agitato perché non eri al lavoro. Dove sei finita? Chiamami quando senti il messaggio.»

Rimetto il telefono in carica e mi allungo sopra il piano di lavoro per guardare fuori dalla finestra. Non che ci sia molto da vedere, da questo lato dell’appartamento. Una striscia di cemento tutta buche e, pochi metri più in là, un altro palazzo. Nell’appartamento di fronte vive una coppia di punk vecchio stile, con tanto di cresta alla moicana. A volte ci sorridono e salutano quando sono lì a cucinare, ma oggi non c’è nessuno. Dalla mia posizione vedo anche un angolino della strada che porta alla stazione. A quest’ora il flusso di pendolari che rientra dal lavoro è costante, ma non c’è traccia di Sasha. La preoccupazione torna ad attanagliarmi, i ricordi premono per rientrare dalla porta che ho chiuso dieci anni fa.

Mi siedo al piccolo tavolo della cucina, vicino alla finestra, prendo una biro che chissà come è finita nella ciotola della frutta e comincio a rigirarmela tra le dita mentre l’inchiostro mi macchia la pelle. Perde. Di solito, a quest’ora Sasha sarebbe già rientrata. In un giorno normale, avrebbe versato due bicchieri di vino e ora mi starebbe raccontando gli aneddoti della giornata, intenta a rovistare in frigorifero in cerca di qualcosa da cucinare. Quando sono a casa questa è la parte della giornata che preferisco, ma a volte non torno proprio per cena; il mio impiego non ha orari fissi, tra turni ballerini alla radio e collaborazioni varie come freelance.

Ho fame, ma mi sembra che cucinare solo per me non abbia senso. Metto a tostare una fetta di pane e la mangio in fretta, senza neanche prendere un piatto, gli occhi incollati sulla strada. Via via che scende il buio, la frequenza dei passanti diminuisce, ma Sasha ancora non si vede. Provo a richiamarla, ma vengo rimbalzata di nuovo alla segreteria. La vocina petulante che ho nella testa si è alzata, altro che metterla a tacere. Faccio ripartire il cd di Olivia nel tentativo di soffocarla una volta per tutte e invece è un errore perché mi riporta alla mente quei giorni, e quello che era partito come un sussurro – un dubbio, un’ipotesi – diventa un’eco che non riesco a spegnere.

E se lui fosse tornato? Se si fosse stufato della sua nuova vita in Scozia? Se ci avesse fatto cullare in un falso senso di sicurezza, in attesa del momento opportuno? In attesa che una di noi abbassasse la guardia, commettesse un’imprudenza? E se l’avesse aspettata fuori dall’ufficio? Se l’avesse seguita per la strada, attirata in un vicolo buio, caricata su un’auto?

No. Sarà andata da qualche parte, avrà il telefono scarico, tutto qui. Tornerà tra un attimo, con il suo odore di vino e sigarette. Mi abbraccerà, mi stringerà, affettuosa e brilla, biascicando le parole, spettegolando, indiscreta come sempre. Ci siederemo e parleremo fino a tarda notte, come facciamo spesso, e poi domani mattina le porterò una tazza di tè e con la coda dell’occhio seguiremo Sabato in cucina sul televisore che c’è in camera sua mentre studiamo i vestiti online e programmiamo un pomeriggio di shopping.

Ormai fuori è completamente buio, ma io sono ancora qui. Ho lasciato la luce spenta, così riesco a vedere la strada anziché il mio riflesso. Il marciapiede è praticamente vuoto, giusto l’occasionale ritardatario che si affretta a casa a testa bassa, e qualche gruppetto di amici diretti al pub, che chiacchierano e ridono. E intanto io siedo qui, e osservo, e aspetto, e tento di zittire la voce che continua ad aprirsi un varco tra i meandri del mio cervello, supera le pareti e forza i chiavistelli che ho eretto e installato per tenerla fuori, ormai riecheggia ovunque. La voce che mi ricorda che dieci anni fa Daniel Monkton è stato condannato a dieci anni, di cui cinque trascorsi in galera e altri cinque fuori in libertà vigilata, ogni sua mossa controllata a vista. La voce che mi ricorda che adesso Daniel Monkton è libero di andare dove vuole, contattare chi gli pare e piace. La voce che dice che Daniel Monkton è tornato, e vuole farcela pagare per quel che abbiamo fatto…

 

Laura Marshall con il suo primo romanzo, Friend Request – Richiesta di amicizia, che Piemme ha pubblicato nel 2018, è diventata in breve tempo una delle più affermate autrici di thriller inglesi. Oltre al grande successo in UK, il romanzo è in corso di pubblicazione in altri diciotto Paesi, ed è stato finalista al Bath Novel Award e al Lucy Cavendish Fiction Prize, prestigiosi premi riservati agli esordienti. Tre piccole bugie è il suo secondo, attesissimo thriller. Laura Marshall è nata nella contea di Wiltshire, e attualmente vive in Sussex con la sua famiglia.

www.lauramarshall.co.uk

 

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Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la curatrice del blog letterario "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga.