“Le due mogli di Manzoni” di Marina Marazza

Disponibile dal 15 Novembre 2022

«Perché noi donne siamo così sciocche, a volte. Permettiamo che il nostro cuore ci divori. Che i nostri amori diventino velenosi.»

Il 2023 sarà l’anno di Manzoni, il 150esimo anniversario dalla sua scomparsa. Una bella occasione per scoprirlo finalmente come uomo: e c’è davvero da restarne sorpresi! Posso garantirlo, perché l’ho appena fatto, ricostruendo il suo profilo più nascosto nel mio romanzo Le due mogli di Manzoni (in uscita il 15 di novembre per Solferino), dove lo racconto attraverso gli occhi della sua seconda consorte, la brillante Teresa Borri Stampa, che lui sposa quando ha già cinquant’anni suonati ed è rimasto vedovo di Enrichetta. E Teresa, che si è innamorata perdutamente di lui prima ancora di conoscerlo, semplicemente leggendo i suoi Promessi sposi, si ritroverà alle prese con un amore tossico all’interno di una famiglia numerosa, piena di segreti e modernissimamente disfunzionale, a dimostrazione che di donne che amano troppo ce ne sono sempre state e che il genio si accompagna spesso a personalità estremamente complicate…

Una impetuosa cavalcata letteraria fitta di rivelazioni sorprendenti basate su documenti ed epistolari, popolata di volti e nomi celebri, di avventure, di emozioni e di sentimenti. Allora come ora, al di là del tempo e della Storia, per ricostruire tessera dopo tessera l’identikit privato di un gigante dai piedi d’argilla sullo sfondo animatissimo dell’epoca.

Marina Marazza, Le due mogli di Manzoni, Solferino 2022

Teresa non si sarebbe mai aspettata di innamorarsi di Alessandro Manzoni ancora prima di incontrarlo di persona. Eppure, non è tipo da perdere la testa facilmente: è una giovane vedova benestante con un figlio, una posizione sociale, una cultura che le permette di brillare nei salotti della Milano ottocentesca. Così quando anche lui rimane vedovo della prima moglie Enrichetta, stroncata dall’ennesima gravidanza, un amico devoto combina un incontro galeotto durante una prima della Scala. Le nozze si celebrano nel gennaio del 1837 ed è un matrimonio fin da subito pieno di passione, ma Teresa si ritrova matrigna di sette difficili figli di primo letto, nuora di una suocera impossibile e moglie di un uomo assai diverso da quello che si aspettava: pieno di nevrosi, problematico e incapace di amare. Un anno dopo l’altro, una delusione dopo l’altra, mentre intorno si compiono gli avventurosi destini dell’Italia da unificare, persino il sentimento forte che la lega ad Alessandro rischia di vacillare. La voce di Teresa che racconta la sua storia è la voce di ogni donna che ama troppo e queste pagine, impeccabili nella ricostruzione storica, trasportano la sua vicenda nella dimensione universale dell’amore che esalta ma che può anche distruggere. Manzoni, svelato in una luce intima e nuova, scende dal piedistallo e ci appare umano, con le sue tenerezze e le sue miserie. Così che in questo romanzo si incontrano e si riconoscono, come in una vertigine, il tempo dei protagonisti e il nostro, la vita e la letteratura.

A Renzo, che non si chiama Tramaglino,
el mè omm un cicinin laghee

Cet homme est vraiment fait suivant mon coeur.
(Quest’uomo è fatto proprio come il mio cuore vuole.)
Lettera di Teresa Borri Stampa alla madre parlando di Manzoni,
dopo aver letto I promessi sposi nell’edizione del 1827

PROLOGO

COME IL MIO CUORE VUOLE

Giugno 1827

«Fossi in te, Teresin, quell’uomo lì lo terrei alla larga» disse mia madre, stizzita. «Ma sei grande abbastanza per fare come ti pare.»

Quando parlava di Tommaso Grossi le si formava una ruga dritta sulla fronte che la faceva sembrare più vecchia e anche più severa.

«Perché?» le domandai. «Tommaso mi è stato molto utile nella causa con mia suocera quando sono rimasta vedova e lei ha cercato di portarmi via tutto, compreso il bambino.»

«Contro quella vipera francese avevi già i migliori legali della Lombardia, compreso tuo fratello, e non sarà certo stato Grossi a far la differenza» ribatté lei.

«Tommaso è un amico, un galantuomo, un poeta…»

«Uh, sai che poeta! Damm à traa, Teresin, dammi retta, se il Tasso non fosse già morto e sepolto da un bel pezzo, si sarebbe suicidato sulla sua spada al primo canto di quel pastrocchio che Grossi ha scritto dicendo di essersi ispirato alla sua Gerusalemme Liberata. Un’agonia! E non sono la sola a dirlo.»

«Opinioni… Però quando scrive versi in milanese son tutti d’accordo che è bravo quasi come il suo amico Porta, buonanima…» lo difesi.

«Poteva imparare qualcosa di meglio dal suo amico, e non solo a far bisboccia nelle osterie con tutti quegli altri perdigiorno e a mettersi nei guai con la polizia austriaca…»

Sapevo a che cosa si stava riferendo, anche se all’epoca dei fatti ero quasi una bambina. Da giovanotto Tommaso Grossi aveva scritto una satira feroce contro l’imperatore d’Austria. La polizia austriaca non l’aveva trovata affatto divertente e si era convinta che l’autore di quel crimine di lesa maestà dovesse essere proprio Carlo Porta, il più famoso di quel giro di intellettuali che esprimevano il loro dissenso in versi milanesi. C’erano state delle perquisizioni e, rendendosi conto che il suo amico avrebbe potuto andarci di mezzo, Tommaso aveva preferito confessare di essere lui l’autore del poemetto incriminato. Per fortuna lo avevano rilasciato dopo avergli fatto assaggiare qualche giorno di carcere, raccomandandogli di rigare dritto. Una di quelle avventure da raccontare ai nipotini, dalla quale era uscito intero e indenne.

«Mi pare che anche in quella circostanza si sia comportato più che bene…» obiettai. Aveva dimostrato un bel coraggio.

Mia madre alzò le spalle. «Mica poteva lasciare che fosse accusato un innocente. E deve solo dir grazie al buon governatore Saurau che non ha buttato le chiavi della sua cella nel Naviglio.»

Dovevo aver preso da mamma Marianna la mia testa dura e lei a sua volta doveva averla presa da nonna Maria ­Notburga de Boul, austriaca di Vienna, della famiglia dei baroni de Boul. A dire la verità anche mio padre don Cesare era per metà austriaco: la sua mamma era una baronessa von Liebesfels. In ogni caso avevo in saccoccia un argomento vincente. «Comunque, maman» conclusi «è merito di Tommaso se ho avuto subito tra le mani il nuovo romanzo di Manzoni. E di questo gli son proprio riconoscente!»

«Magari esageri un cicinino, eh, Teresa?» Mia madre sollevò le sopracciglia. «Questi Promessi sposi saranno anche un gran bel libro, ma non è che fino adesso non sia stata scritta una pagina di romanzo degna di questo nome…»

«L’hai letto, almeno?» ribattei, appoggiando con un certo slancio sul tavolino ovale il terzo volume, fresco di stampa dei tipi del Ferrario. Adoravo quel buon odore d’inchiostro. «Tu, che sei stata in confidenza con Parini, certo non giudicherai prima di vedere!» Sapevo quanto la mamma ci tenesse a quella sua giovanile e prestigiosa frequentazione col celebre abate poeta. Nella villa di famiglia di Canzo, prima che per colpa di mio padre la situazione economica precipitasse, erano ospiti celebrità e grandi nomi.

Piccata, lei sollevò la lorgnette, l’occhialino cerchiato di tartaruga che portava appeso al collo con la catenella d’argento, e diede uno sguardo al frontespizio. «Converrà che mi sbrighi, perché dice tuo fratello che questi Promessi sposi rischiano di essere messi all’Indice…»

Sollevai le mani. «I censori dimostrerebbero di non aver capito niente! E comunque per una voce che lo giudica blasfemo ce ne sono cento che ne parlano come di un capolavoro.»

«Ah, sentila, la mia Giovanna d’Arco! Ho ben letto la lettera che mi hai mandato quand’ero in vacanza a Torricella con tuo padre ed era appena uscito il primo volume, dove mi dicevi addirittura che don Alessandro è fatto… aspetta, com’era? Suivant mon cœur… sì, come il mio cuore vuole. E parlavi di lui, eh, dell’uomo, non del libro!» Rise divertita. «Parole così piene di fuoco! Ho quasi pensato che ti fossi innamorata… salvo che don Alessandro, il nostro don Lisander, è sposatissimo con la sua brava Enrichetta che gli ha dato una decina di figlioli!»

«Lo so bene, parlavo di una affinità spirituale, è ovvio! Lui nemmeno mi conosce…» Risi anch’io, arrossendo un po’. Le avevo scritto proprio così, sull’onda dell’entusiasmo, appena letti i primi capitoli: «quest’uomo è fatto proprio come il mio cuore vuole». Ed era vero che don Lisander non mi conosceva, se non di vista. Ma io lo conoscevo benissimo, perché con uno scrittore non c’è bisogno di parlare, basta leggerlo: e tra me e il suo romanzo era stato un incontro di quelli che lasciano il segno. L’autore che stava dietro a quella storia mi piaceva tanto. Era stata una dolce agonia, letto il primo tomo, aspettare l’uscita del secondo, e soprattutto del terzo, che si era fatto tanto sospirare. E prima mancava la carta, e poi bisognava apportare le ultime correzioni, e poi si attendeva il nulla osta… E finalmente tutta una galoppata riga per riga, per arrivare dritti all’ultima pagina del capitolo 38, quando prima della parola «fine» Manzoni dice con tanto candore che, se la storia ha dato al lettore qualche diletto, bisogna volere un po’ di bene a chi l’ha raccontata. Be’, io sentivo di volergliene tanto, di bene.

Mia madre non aveva alcuna intenzione di cambiare discorso. «Non ci sarebbe niente di male se… sì, insomma, se cominciassi a guardarti intorno, per trovare un uomo alla tua altezza: sei vedova da più di sei anni, oramai, è tempo di smetterlo, questo lutto, per te e per il tuo Stefano, che avrebbe bisogno di un padre… I prossimi che compirai son ventotto, cara la mia Teresin, nessuno ringiovanisce.»

Ero venuta al mondo alla fine del secolo a Brivio, in quel villaggio di pescatori sulle rive dell’Adda dove i miei erano finiti ad abitare per gli incarichi di mio padre, proprio l’anno in cui i cosacchi al servizio degli austro-russi avevano devastato il borgo per cacciare un contingente francese. I briviesi se lo ricordavano ancora, quel 1799, con la soldataglia che razziava casa per casa. I miei erano scampati per miracolo, rifugiandosi dai parenti di mia madre a Canzo con mio fratello Giuseppe in fasce, nato a gennaio, e la mamma già di nuovo incinta di me, che sarei nata in novembre.

«E nel frattempo tieni l’avvocato Grossi al suo posto: la gente chiacchiera» concluse la mamma.

Tommaso era scapolo, io vedova da un pezzo, e lui mi corteggiava con discrezione. Nessuna donna avrebbe potuto equivocare i suoi sguardi e le sue parole, per quanto sempre misuratissimi. Era una bella amicizia, una affinità intellettuale profonda senza contare il piacere di sentirmi desiderata. Aveva un suo senso dell’umorismo disincantato e un po’ aspro da uomo di lago: era nato a Bellano, un paese non lontano da quello di Renzo e Lucia.

Me lo aveva buttato lì una volta, tra il serio e il faceto: «Nevicherebbe verde, se un avvocatucolo poeta di mezza tacca potesse aspirare alla mano dell’illustrissima vedova del conte Decio Stampa…».

Ne ridevamo insieme, come di una facezia, ma nei suoi occhi scuri e profondi non c’era divertimento. C’era amore senza speranza.

«Lascia che parlino, mamma, a me non importa proprio» ribattei. «Mi hai insegnato tu che quello che conta è avere la coscienza pulita.»

Lei sbuffò. «Ricordati che sei stata la moglie del conte Decio Stampa. Sei la mamma del contino Stefano Stampa. E sei la figlia della sottoscritta, donna Marianna dei conti Meda, e di don Cesare dei conti Borri…»

Le posai una mano sul braccio. «Non sono solo la vedova o la figlia o la madre di qualcuno, sai. Io sono io. Sono Teresin. Teresa e basta.»

«Bah.» Seguì un momento di silenzio. Anche se le piaceva ricordare le nostre nobili radici e invecchiando si era un po’ irrigidita su certe posizioni, si era sempre data un gran da fare nella vita a rimediare ai pasticci economici del papà e a combattere i rovesci della sorte. Di certo era una gran donna e capiva il mio punto di vista.

Presi dalla mensola vicino all’orologio i biglietti e glieli tesi, per rompere quell’imbarazzo. «Guarda, mamma, domani invece che usare la nostra carrozza facciamo una bella corsa sul velocifero nuovo, quello che hanno appena messo in servizio, fino a Crescenzago, e ci fermiamo a mangiare in una locanda sul Naviglio, dove fanno dei gamberi grossi così… Stefanì si divertirà tantissimo.»

Lei fece una smorfia. «I postiglioni che guidano quella diligenza leggera son dei balossi, cara mia, corrono come disperati, anche la settimana scorsa se n’è ribaltata una della tratta per Bergamo… Stai tanto addosso al tuo bambino, hai paura a ogni spiffero che ti si ammali di polmoni come il suo povero papà, e poi lo vuoi portare su quel mezzo infernale?»

«Gliel’ho promesso. Se non vuoi venire, maman, andrò da sola con lui» tagliai corto. «O magari con Tommaso…» aggiunsi, maliziosa.

Per tutta risposta, lei mi tirò dietro il lavoro di ricamo su telaio che aveva sulle ginocchia. Lo schivai per un pelo e scoppiammo entrambe a ridere.

foto presa dal web

MARINA MARAZZA, ex manager editoriale, scrittrice, giornalista, è specializzata in tematiche di storia, di società e di costume. Collabora con diverse riviste tra cui «Io Donna». È autrice di romanzi, saggi e narrative non fiction, tra cui i titoli usciti con Solferino L’ombra di Caterina (2019), Io sono la strega (2020, vincitore del Premio Salgari, Premio Selezione Bancarella 2021), Miserere (2020) e La moglie di Dante (2021).

Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la curatrice del blog letterario "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga.