“La libraia di Auschwitz” di Dita Kraus, traduzione di Laura Miccoli edito da Newton Compton in tutte le librerie e on-line dal 7 Gennaio 2021. Estratto

TRAMA

Una commovente storia vera
«Le memorie di una testimone degli orrori dell’Olocausto.»

A soli tredici anni Dita viene deportata ad Auschwitz insieme alla madre e rin­chiusa nel settore denominato Campo per famiglie (tenuto in piedi dalle SS per dimostrare al resto del mondo che quello non fosse un campo di stermi­nio): quello che conteneva il Blocco 31, supervisionato dal famigerato “Angelo della morte”, il dottor Mengele. Qui Dita accetta di prendersi cura di alcuni libri contrabbandati dai prigio­nieri. Si tratta di un incarico perico­loso, perché gli aguzzini delle SS non esiterebbero a punirla duramente, una volta scoperta. Dita descrive con parole di una stra­ordinaria forza e senza mezzi termini le condizioni dei campi di concentra­mento, i soprusi, la paura e le preva­ricazioni a cui erano sottoposti tutti i giorni gli internati. Racconta di come decise di diventare la custode di pochi preziosissimi libri: uno straordinario simbolo di speranza, nel momento più buio dell’umanità. Bellissime e commoventi, infine, le pagine sulla liberazione dei campi e del suo incontro casuale con Otto B Kraus, divenuto suo marito dopo la guerra. Parte della storia di Dita è stata rac­contata in forma romanzata nel best­seller internazionale La biblioteca più piccola del mondo, di Antonio Iturbe, ma finalmente possiamo conoscerla per intero, dalla sua vera voce.

La vera storia di Dita Kraus, la giovanissima bibliotecaria di Auschwitz, diventata un simbolo della ribellione, finalmente raccontata da lei stessa

«Nessuno che non sia stato prigioniero ad Auschwitz può descrivere che cosa significa aver vissuto quell’orrore. Non esistono parole adatte nel nostro vocabolario.»
Dita Kraus

«Quella della Libraia di Auschwitz è una storia di resilienza: perciò, a dispetto degli orrori che rievoca, resta un libro di grande ispirazione. Una lettura necessaria e indimenticabile.»
The Sunday Times

ESTRATTO

Capitolo uno

Una vita in pausa

La mia non è una vita vera. È qualcosa che avviene prima che abbia inizio la “vita vera”, una sorta di prefazione agli eventi narrati. Non è ancora ciò che conta, ma una semplice prova prima dello spettacolo. E c’è qualcuno che osserva da dietro le quinte, o forse dall’alto, e giudica. Un’entità che controlla e valuta il mio comportamento. Forse in realtà non è là fuori, ma dentro di me. Che sia mia madre? O mia nonna? O magari è qualcosa di più interiore… il mio Io? Non ne ho idea. Eppure è una presenza costante, è sempre lì davanti a me con uno specchio invisibile tra le mani.

Riesco a percepirne l’approvazione o la disapprovazione, e quest’ultima mi fa contorcere le viscere, mentre cerco di sopprimere la mia coscienza assillante, o di trovare delle scuse, ma quella terribile sensazione è tanto tenace da non poter essere scacciata via. Mi sforzo di trovare delle ragioni per aver fatto o detto ciò che il mio controllore trova inaccettabile, ma allo stesso tempo so che è solo un tentativo di giustificare le mie malefatte.

Non so ancora in che modo tutto questo abbia a che fare con la sensazione di aver messo in pausa la mia vita. Da che ho memoria, mi sembra di essere stata sempre più concentrata sul futuro, piuttosto che sull’esperienza che stavo vivendo in quel determinato momento. 

Persino adesso, quando mi capita di andare a un concerto, i miei pensieri si concentrano sul viaggio di ritorno e sui programmi per il giorno dopo, non sulla musica che sto ascoltando. Quando mangio, la mia mente va al momento in cui laverò i piatti; quando mi metto a letto sto già pianificando ciò che dovrò fare quando mi alzerò. Non sono mai nel qui e nell’ora, e sento di non riuscire a godere del presente. Ci sono troppe cose da controllare: mai lasciarsi andare; mai rilassarsi del tutto. Avverto costantemente la presenza dell’“Osservatore”, sempre pronto a giudicare.

Credo di aver cominciato a mettere in pausa la mia vita fin dalla più tenera età. Era un modo per posporre a tempo indefinito, in una sorta di soddisfazione differita. Come facevo a “metterla in pausa”? Accettavo l’amara consapevolezza che non avrei ottenuto ciò che volevo, di sicuro non subito e forse addirittura mai. Dicevo a me stessa di attendere con pazienza; magari la soddisfazione sarebbe arrivata più tardi. Oppure non sarebbe arrivata affatto. Pensavo che forse, se avessi messo in pausa la speranza e non ci avessi più pensato, un giorno le cose sarebbero andate a buon fine.

Da qualche parte nel profondo, continuo a credere che un giorno il cerchio si chiuderà e le cose si sistemeranno da sole nella giusta sequenza, che tutto tornerà al proprio posto; io non devo far altro che attendere.

Tuttavia, per qualche strana ragione, questi passaggi lasciati in sospeso – questi spazi vuoti – hanno creato delle spaccature, così che nel mosaico della mia vita sono presenti dei punti ciechi che rendono incompleta l’immagine.

E le spaccature ora sono così tante. Come potrei riempirle? Il tempo sta per finire; chi lo sa quanto ancora mi resta da vivere. Sono già nonna di quattro nipoti e bisnonna di altrettanti bisnipoti. Molte delle persone della mia vita passata non ci sono più e non possono rispondere alle mie domande. Proverò allora a raccogliere i frammenti e a metterli nero su bianco; forse emergerà uno schema che potrebbe riempire gli spazi vuoti del mosaico…

Capitolo due

Infanzia

Le prime reminiscenze emergono dal vuoto che precede la memoria cosciente. Assomigliano a un’immagine che sfarfalla sullo schermo per un istante e poi scompare di nuovo nell’oscurità. Eppure, ognuna di quelle immagini effimere è soffusa di emozione.

Vengo appoggiata sulla bilancia per bambini sul tavolo coperto dall’incerata bianca, nell’ambulatorio della dottoressa. Sono nuda e sento il metallo freddo e duro contro la schiena. Ho all’incirca due anni o poco più. Mia madre e la dottoressa, con il suo camice bianco, sono in piedi sopra di me. Non ho paura perché sorridono.

La dottoressa Desensy-Bill era la nostra pediatra. Ricordo le ultime visite, quando mi appoggiava il palmo della mano sul petto, dava un colpetto con il dito medio e poi ascoltava, premendomi l’orecchio contro la pelle. Il suo ambulatorio era collegato alle stanze private mediante una porta rivestita in pelle marrone con i bottoni in ottone.

Talvolta mia madre restava a parlare con la dottoressa e io venivo mandata oltre la porta massiccia – che, per quanto pesante, si apriva con facilità e senza fare rumore – per andare a giocare con sua figlia Lucy. Lucy aveva all’incirca la mia età, ma non mi trovavo bene con lei; era noiosa.

Un altro ricordo. È notte e sono in piedi sul letto, in lacrime e in preda al terrore. Ero ancora molto piccola, perché mi rivedo aggrappata alla rete protettiva del box con entrambe le mani. Mia madre e Mitzi, la domestica, sono lì con me e cercano di tranquillizzarmi. Ma io non riesco a calmarmi, perché appena un attimo prima una mano ha attraversato la parete e ha cercato di afferrarmi. La mamma mi solleva dal lettino e mi porta dall’altra parte del muro, dove c’è il bagno, per mostrarmi che non c’è nessun buco nella parete. Sia lei che Mitzi mi stanno dicendo che nessuna mano può passare attraverso una superficie solida. Ma che ne sanno loro? Non hanno visto la mano. Io sì. Quando smetto di piangere, mi rimettono a letto, credendo di avermi convinta. Mi coprono e spengono la luce. Eppure il terrore non mi abbandona e per molte settimane dopo l’episodio riesco a addormentarmi solo se il box viene allontanato dal muro.

Dalle tenebre dell’inconsapevolezza, emerge un’altra scena. Stavolta più inquietante. Sono nella vasca e mia madre è seduta sul bordo. D’un tratto vedo le lacrime scorrerle silenziose dagli occhi. La mamma sta singhiozzando senza fare rumore. Mi spaventa e inizio a piangere anch’io. «Che cos’ho fatto?», domando. «Che cos’ho fatto?», ma lei si limita a scuotere la testa e non risponde. Non so perché stesse piangendo. Qualcuno le aveva fatto del male? Era colpa mia? Mi ero comportata male? Non ne ho la più pallida idea. Persino adesso, mentre ricordo l’episodio, provo pena, senso di colpa e dolore.

Il nome da nubile di mia madre era Elizabeth “Liesl” Adler. Aveva un fratello che si chiamava Hugo, di dieci anni più grande. La loro madre era morta quando Liesl era una bambina e il padre, un giudice, si era risposato. La mamma mi raccontò che la matrigna era giusta e coscienziosa, ma mancava di calore e amore materno. Non mi ricordo di nonno Adler; morì subito dopo la mia nascita. Anche Hugo divenne un giudice. Si sposò ma non ebbe figli. L’ho visto solo due volte in tutta la mia vita.

Quando avevo circa sei o sette anni, io e mia madre ci fermammo a Brno per due o tre giorni, prima di proseguire verso la meta delle nostre vacanze sui monti Tatra. Ricordo vividamente due scene di quella visita. Mia madre che scoppia in lacrime appena entrata nell’appartamento di zio Hugo. Era la stessa casa in cui era cresciuta; quando si era sposata, Hugo era rimasto a vivere là. C’erano ancora gli stessi mobili, che avevano riportato a galla vecchi ricordi.

L’altra scena che rammento si era svolta in tribunale. Hugo, con indosso la toga viola da giudice, presiedeva un processo, mentre noi stavamo sedute in fondo all’aula. Finita l’udienza, mia madre commentò che si aspettava qualcosa di più movimentato ed emozionante, al che Hugo rispose: «Non mi occupo di divorzi; ecco perché i miei processi sono così noiosi».

I miei genitori si trasferirono dalla loro cittadina natale Brno a Praga subito dopo essersi sposati. Presero in affitto un piccolo appartamento al piano terra di una villetta. C’era un giardino con il prato, le aiuole e i cespugli di uva spina tutto intorno allo steccato. Io avevo il permesso di cogliere le bacche di ribes, ma non mi piacevano perché erano pelose e aspre. Il signor Hackenberg, il proprietario, era un amico e collega di partito di mio nonno Johann.

Gli Hackenberg avevano un grosso pastore tedesco di nome Putzi, così gentile da lasciarsi cavalcare. In una fotografia che mi ritrae nuda, a circa due anni, in piedi accanto al cane, siamo alti uguali.

Mi torna alla mente ancora un ricordo: il signor Hackenberg e mia madre sono seduti su una panchina in giardino, mentre io gioco nella sabbiera. Sto scavando a mani nude per costruire un tunnel. D’un tratto, una cosa orrenda, rosa e viscida si contorce e striscia fuori dal buco verso di me. Io grido di paura e corro fra le braccia protettive di mia madre. Quando lei capisce che cosa mi ha spaventata, scoppia a ridere. Anche il signor Hackenberg ride. Io mi vergogno, mi sento umiliata. Come possono ridere se mi sono spaventata così tanto? Mia madre fa comunella con il signor Hackenberg e insieme mi prendono in giro. Mi ha delusa, e tradita. Che ne sapevo io che si trattava solo di un innocente lombrico? Era la prima volta che vedevo una creatura così orribile in vita mia.

Avevo tre o quattro anni quando ci trasferimmo in un altro appartamento a Praga, nel quartiere di Holešovice, e in quello stesso periodo andò via la nostra domestica, Mitzi. Al giorno d’oggi soltanto i ricchi hanno una donna di servizio che vive con loro, ma nell’Europa prebellica era molto comune. Le giovani figlie dei poveri paesani venivano in città per trovare lavoro, imparare a cucinare, apprendere le buone maniere e, con un po’ di fortuna, trovare marito. Occupavano una stanzetta che veniva destinata alla servitù in quasi ogni appartamento, ricevevano un piccolo salario e avevano un pomeriggio e una serata liberi alla settimana. La maggior parte delle volte, però, non rimanevano a lungo con la famiglia, perché erano troppo lente o perché venivano sorprese a rubare, o magari restavano incinte, e dovevano essere licenziate.

Mitzi lasciò l’incarico semplicemente perché stava per sposarsi, e per mia madre era quasi un vanto. Il suo futuro marito era un ciabattino che aveva un negozio dietro l’angolo sulla via principale, accanto alla fermata del tram numero sei. Poco dopo il matrimonio, Mitzi mi invitò a una colazione domenicale. I miei genitori mi diedero il permesso di andare da sola; la domenica mattina la strada era deserta e io ero molto orgogliosa di andare a piedi senza essere accompagnata. Mitzi e il marito vivevano sul retro della bottega, in una stanza che odorava di colla e cuoio. Il negozio non era tanto distante e quando arrivai Mitzi mi fece sentire come se fossi un ospite d’onore. Mi servì una bella fetta del suo Gugelhupf, lo stesso che preparava sempre mia madre, ma chissà perché quello di Mitzi sapeva più di festa. Ero tutta felice e soddisfatta di essere trattata come un’adulta.

Seguirono altre colazioni simili, ma divennero via via meno frequenti e, dopo un po’ di tempo, Mitzi e il suo ciabattino si trasferirono; immagino che abbia chiuso il negozio perché non dava loro di che vivere. Non ricevemmo mai più notizie da parte di Mitzi.

Quando Mitzi era ancora con noi, io e mia madre andammo in vacanza al suo paese natale. Si trovava nella regione di lingua tedesca della Böhmerwald, altrimenti nota come Selva Boema. Per qualche giorno Mitzi rimase con noi, poi tornò a Praga per supervisionare gli imbianchini che ridipingevano l’appartamento durante la nostra assenza. Me lo ricordo perché, quando tornammo a casa, c’era un odore di vernice fresca e pavimenti appena incerati…

L’ Autrice

Dita Kraus è nata a Praga nel 1929. Nel 1942, quando aveva tredici anni, con i genitori venne deportata nel ghetto di Theresienstadt e, in seguito, ad Auschwitz, dove il padre morì. Lei e la madre furono quindi mandate ai lavori forzati in Germania e, infine, al campo di concentramento di Bergen-Belsen. Poco dopo la liberazione, morì anche la madre di Dita.

Dopo la guerra, l’autrice sposò Otto B. Kraus, compagno di prigionia ad Auschwitz e educatore al campo. Emigrarono in Israele nel 1949, dove lavorarono entrambi come insegnanti. Hanno avuto tre figli. Dalla morte di Otto, avvenuta nel 2000, Dita vive da sola a Netanya. Ha quattro nipoti e quattro bisnipoti.

Dita ha ispirato il romanzo di Antonio Iturbe intitolato La bibliotecaria di Auschwitz, divenuto un bestseller internazionale. Otto ha scritto invece il romanzo Il maestro di Auschwitz, resoconto della propria esperienza.

Nonostante gli orrori dei campi di concentramento, Dita ha mantenuto un approccio positivo alla vita. Dipinge delicati acquerelli dei fiori di campo colorati che crescono in Israele.

Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la curatrice del blog letterario "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga.