L’ autrice Stefania Auci dopo i “leoni di Sicilia” torna in libreria con il secondo volume della saga dei Florio “L’inverno dei Leoni” edito da Nord edizioni in tutte le librerie e on-line da oggi 24 Maggio 2021. Estratto

La saga dei Florio continua

«Stefania Auci torna a intrecciare la storia alle storie, la forza alle fragilità, la magnificenza al decadimento. Nel fluire magico di queste pagine c’è tutto: chi siamo, chi siamo stati, chi saremo. »
Nadia Terranova

Hanno vinto, i Florio, i Leoni di Sicilia. Lontani sono i tempi della misera putìa al centro di Palermo, dei sacchi di spezie, di Paolo e di Ignazio, arrivati lì per sfuggire alla miseria, ricchi solo di determinazione. Adesso hanno palazzi e fabbriche, navi e tonnare, sete e gioielli. Adesso tutta la città li ammira, li onora e li teme.
E il giovane Ignazio non teme nessuno. Il destino di Casa Florio è stato il suo destino fin dalla nascita, gli scorre nelle vene, lo spinge ad andare oltre la Sicilia, verso Roma e gli intrighi della politica, verso l’Europa e le sue corti, verso il dominio navale del Mediterraneo, verso l’acquisto dell’intero arcipelago delle Egadi. È un impero sfolgorante, quello di Ignazio, che però ha un cuore di ghiaccio. Perché per la gloria di Casa Florio lui ha dovuto rinunciare all’amore che avrebbe rovesciato il suo destino. E l’ombra di quell’amore non lo lascia mai, fino all’ultimo…
Ha paura, invece, suo figlio Ignazziddu, che a poco più di vent’anni riceve in eredità tutto ciò suo padre ha costruito. Ha paura perché lui non vuole essere schiavo di un nome, sacrificare se stesso sull’altare della famiglia. Eppure ci prova, affrontando un mondo che cambia troppo rapidamente, agitato da forze nuove, violente e incontrollabili. Ci prova, ma capisce che non basta avere il sangue dei Florio per imporsi. Ci vuole qualcos’altro, qualcosa che avevano suo nonno e suo padre e che a lui manca. Ma dove, cosa, ha sbagliato?
Vincono tutto e poi perdono tutto, i Florio. Eppure questa non è che una parte della loro incredibile storia. Perché questo padre e questo figlio, così diversi, così lontani, hanno accanto due donne anche loro molto diverse, eppure entrambe straordinarie: Giovanna, la moglie di Ignazio, dura e fragile come cristallo, piena di passione ma affamata d’amore, e Franca, la moglie di Ignazziddu, la donna più bella d’Europa, la cui esistenza dorata va in frantumi sotto i colpi di un destino crudele.
Sono loro, sono queste due donne, a compiere la vera parabola – esaltante e terribile, gloriosa e tragica – di una famiglia che, per un lungo istante, ha illuminato il mondo. E a farci capire perché, dopo tanti anni, i Florio continuano a vivere, a far battere il cuore di un’isola e di una città. Unici e indimenticabili.

L’INVERNO DEI LEONI

LA SAGA DEI FLORIO – II

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A Eleonora e Federico, 
per tutta la tenerezza e per l’affetto. 
Sono molto orgogliosa di voi.

«Ho vissuto abbastanza: il sentiero della vita
scende alla terra vizza, la foglia gialla,
e quanto dovrebbe andare con la vecchiaia,
come rispetto, affetto, ubbidienza,
amici attorno, non devo sperarlo. Invece
maledizioni, basse ma profonde, omaggi
di bocca, fiato che il povero cuore
vorrebbe rifiutare, e non osa…»

WILLIAM SHAKESPEAREMacbeth

«Qui tutto all’intorno il cielo è chiaro e limpido, di rado ho visto un cielo così limpido. Apri gli occhi, capitano, e dillo tu stesso. Vedi una sola nuvola all’orizzonte, sia pure la più piccola?»

JOSEPH ROTHLa milleduesima notte

I FLORIO

1799 – 1868

Originari di Bagnara Calabra, i fratelli Paolo e Ignazio Florio sbarcano a Palermo nel 1799, decisi a fare fortuna. Sono aromatari – commerciano in spezie – e la concorrenza è spietata, ma la loro ascesa appare subito inarrestabile e ben presto le loro attività si espandono: avviano il commercio di zolfo, acquistano case e terreni dagli spiantati nobili palermitani, creano una compagnia di navigazione… E questo impulso – nutrito da una caparbia determinazione – non si ferma neppure quando Vincenzo, figlio di Paolo, prende le redini di Casa Florio: nelle cantine di famiglia, un vino da poveri – il marsala – viene trasformato in un nettare degno della tavola di un re; a Favignana, un metodo rivoluzionario per conservare il tonno – sott’olio e in lattina – ne rilancia il consumo… In tutto ciò, Palermo osserva il successo dei Florio con un misto di ammirazione, d’invidia e di disprezzo: quegli uomini rimangono comunque «stranieri», «facchini» il cui sangue «puzza di sudore». Ed è proprio un bruciante desiderio di riscatto sociale che sta alla base dell’ambizione dei Florio e segna nel bene e nel male la loro esistenza pubblica e privata. Perché gli uomini della famiglia sono individui eccezionali ma anche fragili e – sebbene non lo possano ammettere – hanno bisogno di avere accanto donne altrettanto eccezionali: come Giuseppina, la moglie di Paolo, che sacrifica tutto – compreso l’amore – per la stabilità della famiglia, oppure Giulia, la giovane milanese che entra come un vortice nella vita di Vincenzo e ne diventa il porto sicuro, la roccia inattaccabile.

Vincenzo muore nel 1868, a neanche settant’anni, lasciando il destino di Casa Florio nelle mani dell’unico figlio maschio, il trentenne Ignazio, che ha sposato due anni prima la baronessa Giovanna d’Ondes Trigona, portando finalmente «sangue nobile» in famiglia. Ignazio è cresciuto nel culto del lavoro, nella consapevolezza che i Florio devono sempre guardare oltre l’orizzonte. E si appresta a scrivere un nuovo capitolo della storia della sua famiglia…

MARE

settembre 1868 – giugno 1874

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Aceddu ’nta l’aggia ’un canta p’amuri, ma pi’ raggia.
«L’uccello in gabbia non canta per amore, ma per rabbia.»

PROVERBIO SICILIANO

Sono passati sette anni da quando – il 17 marzo 1861 – il Parlamento ha proclamato la nascita del Regno d’Italia, con Vittorio Emanuele II come sovrano. Le elezioni del primo Parlamento unitario si sono tenute a gennaio (su oltre 22 milioni di abitanti, poco più di 400.000 ha avuto diritto al voto) e hanno visto trionfare la Destra Storica, composta prevalentemente da proprietari terrieri e industriali e orientata a un pesante fiscalismo, considerato necessario per risanare i debiti contratti dal Paese per il processo di unificazione. Particolare risentimento suscita la cosiddetta «tassa sul macinato» (1º gennaio 1869), cioè sul pane e sui cereali, che colpisce in maniera diretta i poveri e scatena proteste anche molto violente. Benché considerata da alcuni politici un «dazio da Medioevo, tassa da tempi borbonici e feudali» rimarrà in vigore fino al 1884. E, nel 1870, il ministro delle Finanze Quintino Sella presenta un’altra serie di duri provvedimenti, deciso a imporre «economie fino all’osso».

La fine del Secondo Impero (1852-1870) e l’inizio della Terza Repubblica francese (1870-1940) hanno un’importante conseguenza anche per la storia italiana: privato del sostegno della Francia, lo Stato Pontificio cade il 20 settembre 1870. Dopo un breve cannoneggiamento, al grido di «Savoia!» le truppe italiane entrano a Roma attraverso una breccia a Porta Pia. Il 3 febbraio 1871, Roma diventa ufficialmente la capitale d’Italia, dopo Torino (1861-1865) e Firenze (1865-1871). Il 21 aprile 1871 il governo italiano approva la cosiddetta Legge delle Guarentigie, intesa ad assicurare al papa la sovranità personale e la libertà di compiere il suo ministero spirituale, ma Pio IX – che si considera «prigioniero dello Stato italiano» – la respinge con l’enciclica Ubi Nos (15 maggio 1871). Il 10 settembre 1874, la Santa Sede decreta poi il cosiddetto non expedit, cioè il divieto ai cattolici di prendere parte alla vita politica italiana, divieto che verrà spesso aggirato fino al suo decadimento, nel 1919.

La progressiva riduzione del deficit, il completamento di grandi opere in Italia (dalla ferrovia del Moncenisio, inaugurata il 15 giugno 1868, al traforo del Fréjus, aperto il 17 settembre 1871), nel mondo (il canale di Suez viene inaugurato il 17 novembre 1869) e l’afflusso di capitali stranieri fanno sì che il periodo 1871-1873 sia il «triennio febbrile», decisivo per la nascita dell’industria italiana. Uno slancio che però s’interrompe nel 1873, in seguito alla crisi finanziaria che investe l’Europa e gli Stati Uniti; la «grande depressione», causata da una serie di speculazioni e di investimenti azzardati, continuerà, tra alti e bassi, fino al 1896 e certo non aiuterà a colmare il profondo divario tra il Nord e il Sud dell’Italia, quest’ultimo penalizzato anche dal fatto che i notevoli investimenti nella rete ferroviaria del Nord non trovano riscontro nel Meridione, dove il governo concentra i propri sforzi nello sviluppo della marineria.

U’mari unn’avi né chiese né taverne, dicono i pescatori anziani. Non ha luoghi in cui ci si può rifugiare, il mare, perché di tutto il creato è l’elemento più maestoso e sfuggente. L’essere umano non può che inchinarsi al suo volere.

Da sempre, i siciliani hanno capito una cosa: il mare porta rispetto solo a chi lo rispetta. È generoso: dà il pesce e il sale per il nutrimento, dà il vento per le vele delle barche, dà il corallo per i gioielli di santi e di re. Ma è anche imprevedibile e, in ogni istante, può riappropriarsi con violenza di quei doni. Per questo i siciliani lo rispettano, per questo lasciano che definisca la loro stessa essenza: che forgi il loro carattere, che segni la loro pelle, che li sostenga, che li sfami, che li protegga.

Il mare è confine aperto, in continuo movimento. Ecco perché chi vive in Sicilia è inquieto, e cerca sempre la terra oltre l’orizzonte e vuole scappare, cercare altrove ciò che spesso, alla fine della propria vita, scopre di avere sempre avuto accanto a sé.

Per i siciliani, il mare è padre. E se ne accorgono quando ne sono lontani, quando non possono sentire quell’odore forte di alghe e sale che li avvolge nel momento in cui il vento si alza, portandolo fin nei vicoli delle città.

Per i siciliani, il mare è madre. Amato e geloso. Imprescindibile. Talvolta crudele.

Per i siciliani, il mare è forma e confine della loro anima.

Catena e libertà.

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All’inizio è un sussurro, un mormorio portato da una bava di vento. Nasce nel cuore dell’Olivuzza, al riparo di tende tirate, in stanze immerse nella penombra. Il vento afferra la voce e questa sale d’intensità, si mescola al pianto e ai singhiozzi di una donna anziana che stringe una mano fredda.

«Murìu…» dice la voce, e trema, incredula. La parola crea la realtà, sigilla ciò che è avvenuto, dichiara l’irreversibile. Il sussurro raggiunge le orecchie dei servitori, da lì passa alle loro labbra, esce, si affida di nuovo al vento, che lo porta attraverso il giardino, verso la città. Rimbalza di bocca in bocca, si veste di sorpresa, pianto, timore, spavento, astio.

«Murìu!» ripetono i palermitani, con gli occhi rivolti all’Olivuzza. Non possono credere che un uomo come Vincenzo Florio sia morto. Certo, era vecchio, malato da tempo, ormai aveva affidato la gestione della casa commerciale al figlio, eppure… Per la città, Vincenzo Florio era un titano, un uomo così poderoso che niente e nessuno era in grado di fermare. E invece se n’è andato per un colpo apoplettico.

C’è pure chi gioisce. Da anni, in certe anime, l’invidia, la gelosia, la sete di vendetta nei suoi confronti si erano fatte la casa. Ma è una soddisfazione vana. Vincenzo Florio è morto in pace, nel suo letto, confortato dall’amore della moglie e dei figli. Ed è morto ricco, circondato da tutto ciò che, per volontà o per fortuna, era riuscito a ottenere. Anzi: quella morte sembra aver riservato a Vincenzo una pietà che lui spesso non ha riservato ad altri.

«Murìu!»

Ora la voce – carica di stupore, pena, rabbia – penetra nel cuore di Palermo, sorvola la Cala e cade in picchiata in mezzo alle stradine che circondano il porto. Arriva a via dei Materassai portata da un servitore trafelato. Una corsa inutile, perché quel grido, quel «Murìu!» è già entrato dalle porte e dalle finestre ed è rotolato sulle maioliche del pavimento, fin dentro la stanza da letto di Ignazio, dove c’è la moglie del nuovo padrone di Casa Florio.

Nel sentire le grida e gli scoppi di pianto per strada, Giovanna d’Ondes Trigona alza la testa di scatto, facendo ondeggiare la lunga treccia nera, afferra i braccioli della poltrona e guarda con aria interrogativa donna Ciccia, che è stata la sua governante e adesso è la sua dama di compagnia.

Bussano alla porta con forza. D’istinto, donna Ciccia protegge la testa del neonato che ha in braccio – Ignazziddu, il secondogenito di Giovanna – e va ad aprire. Ferma il servitore sulla soglia, chiede seccamente: «Chi fu?»

«Murìu! Don Vincenzo, ora ora.» Sempre ansimando, il servitore appunta lo sguardo su Giovanna. «Vostro marito, signora, ve lo manda a dire e dice di prepararvi e di fare sistemare la casa per le visite dei parenti.»

«Morto è…?» chiede lei, più stupita che addolorata. Non può provare pena per la scomparsa di quell’uomo cui non ha mai voluto bene e che anzi le ha sempre messo addosso un disagio così profondo che difficilmente riusciva a parlare in sua presenza. Sì, già da qualche giorno si era aggravato – anche per quello non avevano festeggiato la nascita di Ignazziddu –, ma lei non si aspettava una fine così rapida. Si alza a fatica. Il parto è stato doloroso; anche soltanto stare in piedi la stanca. «Mio marito è là?»

Il servitore annuisce. «Sì, donna Giovanna.»

Donna Ciccia arrossisce, si aggiusta una ciocca di capelli neri sfuggita alla cuffia e si volta a guardarla. Giovanna apre la bocca per parlare, ma non ci riesce. Allora allunga le braccia, prende il neonato e se lo stringe al seno.

Donna Giovanna Florio. Così la chiameranno d’ora in poi. Non più «signora baronessa», come vorrebbe il titolo che le spetta per nascita, quel titolo che tanta importanza ha avuto nel suo essere ammessa in quella casa di ricchi mercanti. Adesso non conta più essere una Trigona, appartenere a una delle famiglie più antiche di Palermo. Conta solo il fatto che lei è la padrona.

Donna Ciccia le va davanti, le prende il bambino dalle braccia. «Dovete vestirvi a lutto», le mormora. «Tra poco arriveranno i primi ospiti a porgere le condoglianze.» Nella voce una nuova deferenza, un accento che Giovanna non ha mai sentito. Il segnale di un cambiamento irreversibile.

Adesso ha un ruolo preciso. E dovrà dimostrare di esserne all’altezza.

Sente il respiro nascondersi nella cassa toracica, il sangue defluire dal viso. Afferra i lembi della vestaglia, li stringe. «Date ordine che vengano coperti gli specchi e aprite il portone a metà», dice poi, con voce ferma. «Quindi venite ad aiutarmi.»

Giovanna si avvia verso lo spogliatoio, oltre il baldacchino del letto. Le mani le tremano, ha freddo. Nella testa, un solo pensiero.

Sono donna Giovanna Florio.

foto presa dal web

Stefania Auci è nata a Trapani, ma vive da tempo a Palermo, dove lavora come insegnante di sostegno. Con I Leoni di Sicilia, che ha avuto uno straordinario successo – più di cento settimane in classifica, in corso di traduzione in 32 Paesi –, ha narrato le vicende dei Florio fino alla metà dell’Ottocento, conquistando i lettori per la passione con cui ha saputo rivelare la contraddittoria, trascinante vitalità di questa famiglia. Una passione che attraversa anche L’inverno dei Leoni, seconda e conclusiva parte della saga, e che ci spalanca le porte del mito dei Florio, facendoci rivivere un’epoca, un mondo e un destino senza pari.

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Per chi volesse saperne di più sul primo libro di questa saga familiare

Vi presento “I leoni di Sicilia” di Stefania Auci edito Nord
Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la curatrice del blog letterario "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga.