“Che cosa sa Minosse” storia di fantasmi e gente strana di Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli edito da Giunti disponibile in tutte le librerie e on-line. Estratto

Trama

Una casa in mezzo al bosco, una quercia secolare, un gatto nerissimo che spalanca gli occhi nel buio. Guccini e Macchiavelli evocano i fantasmi del loro amato Appennino per regalarci una nuova storia piena di emozione e poesia. Una radura poco lontano dal fiume, un prato dominato da una grande quercia e un’antica casa che domina il bosco: quando lo scrittore e sua moglie Caterina vi capitano durante una delle loro scorribande per l’Appennino, non possono credere ai loro occhi. Il posto che sognavano, per scrivere in pace e vivere lontano dai ritmi assurdi della grande città, esiste davvero! La coppia si è trasferita da poco nella casa ristrutturata quando Caterina fa irruzione nella torretta che è diventata lo studio dello scrittore; lei e la governante Isolina sono spaventate per l’ennesimo episodio sinistro: rumori inspiegabili, luci che si accendono nel buio, e il gatto Minosse che gonfia il pelo come se qualcosa di invisibile lo avesse terrorizzato. Lo scrittore è irritato, lui vorrebbe solo concentrarsi in cerca di una buona storia da consegnare all’editore. Ma quando, sceso in paese in cerca di informazioni sul passato della casa, scopre le vicende legate alla “quercia di Pietrapesa” che le dà il nome, capisce che una storia ancor più intrigante di quelle che immagina per i suoi libri è venuta a cercarlo, ed esige che lui la percorra fino in fondo…

Estratto

Prologo

L’auto era un Maggiolino Volkswagen color antracite e percorreva la quieta strada di montagna fiancheggiata da una folta vegetazione, ancora verdeggiante nonostante fosse agosto inoltrato. Al volante c’era Maurizio, uno scrittore cinquantenne in ottima forma; al fianco la moglie Marta, un po’ più giovane di lui.

Quel giorno di domenica la coppia aveva lasciato la città per fare un giro sull’Appennino e mangiare in una trattoria, che un amico aveva loro indicato. Discorrevano della bontà del cibo e dell’amabile servizio che là avrebbero trovato.

«Si mangia bene da “Gianni”. Però, che strano nome per una trattoria!»

Maurizio sorrise: «Strana gente da queste parti».

«Davvero.»

«Certo. Senza contare» aggiunse lui «che in città avremmo speso il doppio.»

«Sono proprio dei bei posti, questi» concluse la donna, che all’improvviso si mise a gridare: «Ferma, ferma!».

La macchina si arrestò di colpo: «Cosa c’è?» chiese lui.

Marta indicò un viottolo che digradava dolcemente: «Ho visto una cosa interessante».

Scese dall’auto e si avviò verso la vegetazione. Poco sotto il livello della strada si apriva un’ampia radura, dove si ergeva una quercia colossale che ombreggiava un antico edificio con torre, tipica costruzione medievale di quella parte dell’Appennino.

L’edificio non era in buone condizioni, evidentemente era stato abbandonato da qualche tempo. I muri sembravano invasi dai tralci dell’edera e, qua e là, chiazzati dai ciuffi della parietaria. Qualche finestra pencolava appesa a un cardine e la porta d’ingresso, sebbene ancora ben serrata, dimostrava tutti gli anni che aveva.

«Che posto magnifico» disse Maurizio. «Questa quercia sembra più che centenaria.»

Marta sorrise, saggiandone il tronco con la mano. Quindi passeggiarono attorno all’edificio, seguiti dal frinire delle cicale nella calura estiva.

Marta tirò Maurizio per un braccio: «Guarda, c’è un cartello lì di fianco. C’è scritto: IN VENDITA».

«Già, in vendita. E chi la compera? Nessuno, a quanto vedo.»

«E se la comperassimo noi?» disse Marta dopo averci pensato un attimo.

«Noi?! Sei matta? E con che soldi?»

«Be’, anzitutto non sappiamo cosa costa, e poi potremmo vendere l’appartamento in città, più il denaro del nuovo contratto che devi firmare per il nuovo libro che scriverai. Hai detto che ne stai parlando con l’editore, no? Sarebbe un posto ideale, con la sua gran quiete, per scrivere il libro in santa pace. E poi siamo stanchi tutti e due della vita in città, con quel traffico e le polveri sottili che l’assediano. Se riuscissimo a comperarla subito, iniziando subito il restauro, la prossima estate potremmo venirci ad abitare.»

«Questi son sogni a occhi aperti, Marta. Corri troppo.»

«Correrò anche troppo, ma questo posto mi fa sognare, e non è bello spezzare i sogni sul nascere. Questa casa, il bosco, la quercia… c’è una pace immensa, proprio quello che ci vorrebbe per noi. Forse è stato proprio il destino a portarci qui, e poi chiedere non costa niente.»

Risalirono in auto e ne parlarono fino all’arrivo in città.

La mattina dopo Maurizio telefonò all’agenzia immobiliare: solo in quel momento seppe che si chiamava Pietrapesa, la casa torre.

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Rilassato contro lo schienale della sedia, Maurizio accese la sigaretta, diede alcune lente tirate e tornò a guardare la grande quercia, verde o argentata, a seconda del vento, che svettava in mezzo al prato, a una ventina di metri dalla finestra dello studio.

Per lui quella meraviglia della natura aveva un fascino straordinario. Era stato quell’albero a condizionare la scelta di comprare la casa dove abitava con Marta. Superava il tetto. Non della torre, che era più o meno della stessa altezza. Un vero e proprio gigante.

«Quanti anni avrà?» aveva chiesto a Nino, uno dei due muratori che stavano terminando i lavori di restauro della casa.

Domanda sciocca, a pensarci su. Che ne poteva sapere un muratore dell’età di una quercia?

Per Maurizio, chissà per quale motivo, la gente della montagna doveva sapere un po’ di tutto.

Nino aveva sospeso il lavoro e, guardato l’albero, si era stretto nelle spalle: «A dir la verità l’ho sempre vista lì da quando son nato, e sempre così grande» aveva risposto.

Poi rivolto a Fonso, l’altro muratore, gli aveva fatto un cenno col capo, come per invitarlo a dire la sua. Cosa che aveva puntualmente fatto: «Secondo me ha più anni dei miei e dei 

tuoi messi assieme.» Così l’età esatta era rimasta un segreto da lei stessa gelosamente custodito.

Maurizio era tornato al computer per rileggere l’ultimo capoverso:

Spegne la luce ad acetilene e sul soffitto balugina la fiamma del camino che dà forme diverse all’ombra delle travi. Il vento fa cigolare porte e finestre, gli alberi si lamentano, la pioggia batte sul tetto e gli animali stanno rintanati chissà dove ad aspettare che la notte finisca.

Quel romanzo proprio non decollava. Forse era colpa delle troppe interruzioni al lavoro o della mancanza di spunti, ma non riusciva proprio a costruire un intreccio avvincente, e le telefonate dell’editore diventavano pressanti.

Anche nella realtà che era là fuori, la mattina si era presentata all’insegna del vento. Dal rettangolo della finestra vedeva l’accavallarsi delle nubi bianche e grigie, che si fondevano e si sfilacciavano di continuo. Nel primo pomeriggio il vento era cessato e le nubi sparite oltre le cime dei monti. La serata si avviava a diventare notte e il cielo chiaro si preparava alle stelle.

Sì, avevano scelto bene, Marta e lui, dove vivere e lavorare. Luogo ideale per scrivere.

Con calma finì la sigaretta, poi la spense sulle cicche di quelle già fumate. Poteva ricominciare. Aveva un bel po’ di notte davanti.

Un paio d’ore più tardi a Maurizio parve di sentire passi leggeri sui gradini della scaletta che portava al suo studio, al primo piano della torre. Gradini di legno, ognuno dei quali emetteva, nel magnifico silenzio di quell’ora e di quel luogo, un particolare scricchiolio. Di solito, quando lavorava fino a tardi, Marta saliva lì per venire a dargli la buona notte.

Si girò per riceverla ma gli scricchiolii finirono e Marta non apparve. “Scherzi che fa il legno ad ogni cambio di stagione” pensò.

Lo studio, Maurizio se l’era scelto al primo piano della torre che gli era piaciuta fin dalla prima visita. Si era affacciato alla piccola finestra ad arco e aveva avuto una rivelazione: a destra, il prato fino all’inizio del bosco che poi saliva il monte. A sinistra, un po’ lontano, i tetti del paese e il campanile. “Qui ci faccio il mio studio” aveva decretato.

Il primo piano della torre era di cinque gradini più in alto delle camere, che però appartenevano alla parte centrale del fabbricato mentre la torre si alzava nella parte destra, superando il tetto della casa.

Più tardi sentì di nuovo i gradini scricchiolare, e Marta spalancò la porta dello studio: «Se non sapessi che sei tu, penserei a un fantasma» le disse con ironia.

Negli ultimi giorni era scoppiato un piccolo diverbio fra loro. Divergenze di vedute e di prospettive sulla casa che abitavano da qualche mese.

«Sì, puoi fare lo spiritoso quanto vuoi, ma non mi convinci.»

Si chinò su Maurizio per sfiorargli le labbra in un bacio leggero: «Tarderai molto?».

«Non so. Vorrei finire il capitolo.»

«Penso che leggerò un poco» e i cinque gradini scricchiolarono ancora, quando Marta li scese per raggiungere il piano delle camere. Non sarebbe stata l’ultima volta, quella notte. Né per quegli scricchiolii, né per salirli e scenderli quegli scalini.

Verso mezzanotte Maurizio sospese il lavoro per chiudere i vetri. L’aria si era raffreddata.

I mozziconi di sigaretta traboccavano dal posacenere, quando rilesse le ultime righe che aveva scritto. Ne fu soddisfatto, salvò il lavoro, cliccò su Arresta il sistema e, mentre il computer con calma si avviava a spegnere lo schermo, si stirò sulla sedia allungando le gambe da sotto la scrivania.

Proprio in quel momento la porta si spalancò con un lento cigolio, come sospinta dalla mano invisibile di uno spirito inquieto. Al rumore Maurizio si voltò e vide entrare, ronfante e miagolante, il gatto di casa.

Qualche giorno dopo essersi insediati a Pietrapesa, Marta se l’era trovato fra i piedi, sbucato dalle scale di cantina veloce come un fulmine: aveva rischiato di cadere. Un gatto magro eppure sempre in movimento, tutto nero, “come un tizzone d’inferno”, aveva detto subito Maurizio. Aveva una sola piccola macchia, un candido ciuffetto di pelo sotto il mento.

Come quasi tutti i gatti era riuscito a farsi adottare, accordando graziosamente ai padroni la propria presenza e compagnia. Nei pochi mesi di convivenza quel minuscolo felino era diventato un animale che stazzava un discreto tonnellaggio: un soriano dalla testa tonda, dal pelame folto e lustro e gli occhi vivaci, uno marron scuro e l’altro verdastro, con le vibrisse frementi, sempre pronto a dar battaglia e a cacciare. In parole povere, un vero gatto.

Una piccola discussione si era accesa al momento della scelta del nome. Maurizio, ben conscio dell’impossibilità di scoprire il vero, autentico nome del felino, noto solo al gatto stesso, avrebbe scelto Macchietta, per quell’unica stigmate sul collo della bestia, un’imperfezione bianca o un segno del destino sul nero dominante.

Senonché Marta aveva osservato: «Non vedi com’è tutto nero, nero come un fuochista di locomotiva a vapore? L’hai detto tu stesso, “nero come l’inferno”. Io lo chiamerei Minosse».

«Quale Minosse?» aveva obbiettato lo scrittore prendendola in giro. «Il Minosse re di Creta, marito di Pasife che ha partorito il Minotauro o il Minosse dantesco, quello che…» e frugando tra le memorie di antiche interrogazioni liceali aveva recitato, con voce stentorea:

«Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia

essamina le colpe ne l’intrata;

giudica e manda secondo ch’avvinghia.»

«… Però, me la ricordo ancora» aveva esclamato soddisfatto e, alzato un braccio, aveva declamato:

«Dico che quando l’anima mal nata

li vien dinanzi, tutta si confessa;

e quel conoscitor de le peccata

vede qual loco d’inferno è da essa;

cignesi con la coda tante volte

quantunque gradi vuol che giù sia messa.»

Era scoppiato a ridere: «Vuoi che il nostro gatto sia infernale? E allora che Minosse sia!» e quel nome era rimasto.

Minosse, intanto, si era accomodato sopra la scrivania, seduto sulle zampe posteriori, il corpo eretto e la coda, prima fluttuante, messa a cingere le zampe anteriori. Restò così qualche istante poi, attirato da chissà quale misterioso richiamo, balzò a terra, prese la porta e sparì.

«Gatti, curiosi animali» commentò a bassa voce Maurizio.

Andò alla finestra: lo splendore della luna piena bagnava le cime dei monti. Attorno, il silenzio e la pace. Spalancò i vetri e respirò riempiendo i polmoni di tutta l’aria che potevano contenere. Sperava così di annullare gli effetti della nicotina che aveva aspirato durante la giornata. Stava per richiudere…

«E quello che cos’è?»

Un chiarore filtrava fra i tronchi e gli sterpi, là dove il prato lasciava posto al bosco. Era fermo in un punto e baluginava come se vi ardesse una piccola fiamma.

«Non è una torcia elettrica. Piuttosto… si direbbe una vecchia lanterna a petrolio.»

Ma chi poteva andare per il bosco alle due della notte?

Si stava chiedendo se andare a controllare che non si trattasse del focolaio di un incendio, quando il chiarore si spostò di alcuni metri e lentamente si affievolì fino a spegnersi.

Rimase a guardare ancora per un paio di minuti. Non accadde più nulla. Allora chiuse la finestra e scese i cinque gradini che lo dividevano dalla camera da letto, al primo piano.

Marta si era addormentata con la luce accesa sul comodino e il libro aperto posato sul petto. Glielo tolse, rimise il segnalibro. Non sopportava che si piegassero gli angoli delle pagine. Marta lo faceva, e lui ci aveva messo anni per toglierle quella brutta abitudine, ma qualche volta lei lo faceva ancora, per pigrizia.

Spense la luce sul comodino della moglie, s’infilò sotto le coperte e per un poco guardò il rettangolo di cielo che occupava il vano della finestra e le poche stelle che, in quello spazio, facevano scuro e profondo il cielo. La luna era già tramontata.

Gli autori

FRANCESCO GUCCINI è nato a Modena nel 1940. Cantautore-poeta e scrittore di assoluta originalità, è un mito per generazioni di italiani. Esordisce nel 1989 con Cròniche epafániche per pubblicare poi: Vacca d’un cane (1993), Racconti d’inverno (1993; con Giorgio Celli e Valerio Massimo Manfredi), La legge del bar e altre comiche (1996), Cittanòva blues (2003), Icaro (2008), i due volumi del Dizionario delle cose perdute (2012 e 2014), Un matrimonio, un funerale, per non parlar del gatto (2015), Tralummescuro (2019) e Non so che viso avesse (2020) che – così come il disco L’ultima Thule con cui ha concluso la sua carriera musicale – hanno avuto uno straordinario successo di pubblico.

LORIANO MACCHIAVELLI, bolognese, è un maestro riconosciuto del noir italiano e il creatore di Sarti Antonio, uno dei più popolari poliziotti della nostra narrativa, la cui ultima avventura, Uno sterminio di stelle. Sarti Antonio e il mondo disotto, è da poco uscita per Mondadori. Ha all’attivo più di trenta romanzi, oltre a opere teatrali e sceneggiature per il cinema e la tv.

Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la curatrice del blog letterario "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga.