In una Londra di fine anni Settanta trascina i suoi giorni il giovane Gavin, un timido e sensibile parrucchiere di modesta estrazione. Il suo mestiere lo porta a essere il confidente di molte donne: con loro Gavin è brillante e prodigo di consigli, mentre è assai goffo con le ragazze che gli piacciono. Ha anche un caro amico, un ragazzo omosessuale di nome Harry. È proprio lui a rimescolare le carte della vita del giovane aprendogli le porte della mondanità e portandolo a una festa presso una casa aristocratica. La padrona di casa, Joan, è una donna adulta molto carismatica, colta, capace di sfidarlo intellettualmente, e Gavin ne è subito irretito. Quella sera, però, conosce anche la giovanissima Minerva: ricca e infelice, cresciuta in un ambiente indifferente e anaffettivo, ha un disperato bisogno di attenzioni. Dopo aver sperimentato, non senza scottarsi, i due opposti modelli femminili, Gavin sembra finalmente accorgersi dell’esistenza di una ragazza che gli è sempre stata molto vicina…
A Ursula Vaughan Williams
con amore da Jane
Uno
«Gavin! La signora Whittington è pronta!».
Si voltò e vide dall’altra parte del salone una donna corpulenta di mezz’età con la testa sotto il casco e il colorito opaco e livido di una barbabietola con tutta la buccia.
«Toglila dal casco, Mandy. E preparala. Dille che arrivo fra due minuti».
Stava pettinando Lady Blackwater, che aveva una sparuta capigliatura del colore, ma non della consistenza, della lana d’acciaio. Il riflessante azzurro nobilitava questa caratteristica, e dopo aver spazzolato le rade ciocche ricciute Gavin si accingeva a un sapiente lavoro di cotonatura per dare l’illusione del volume. Lady Blackwater lo guardava fiduciosa coi suoi occhietti tondi, arrossati, color sciacquatura dei piatti. Gavin ispirava fiducia. Adesso stava sistemando la parte alta della chioma sopra l’impalcatura cotonata che aveva allestito sotto, creando un gioco di linee diagonali: se prima sembrava una negretta invecchiata precocemente, adesso Lady Blackwater somigliava più a un buffo personaggio sorpreso a letto su una stampa del diciottesimo secolo e poi finalmente – era questo il risultato per cui pagava – a una distinta lesbica di mezz’età, membro della Royal Society e famosa per qualche oscuro contributo alle scienze o alle arti del regno.
Gavin fece un passo indietro per valutare il suo lavoro e porse uno specchio alla cliente.
Costei si osservò con grande attenzione. L’effetto scolpito enfatizzava le pieghe carnose e le linee più nette di un volto che di suo era sempre stato piuttosto anonimo.
«Ottimo lavoro, Gavin».
«Un po’ di lacca?».
Scosse la testa e per poco non arrossì. La lacca le sembrava una cosa frivola e vagamente depravata.
Entrò nel salone una ragazza della reception.
«Gavin, ce la fai a parlare un momento con la signora Buckmaster a proposito della figlia?».
Lui si ficcò in tasca il pettine e lanciò un’altra occhiata alla signora Whittington. Non stava leggendo la sua rivista e lo aspettava con una certa ostentazione. Vide che Mandy si era limitata a toglierla da sotto il casco, ma non aveva nemmeno toccato i bigodini.
«Mandy!».
Mandy lo raggiunse con passo strascicato. Sembrava afflitta da un mal di piedi.
«Ti ho detto di preparare la signora Whittington. Toglile i bigodini e sistema tutto nel carrello».
«È alla reception che ti aspetta. Le dico che arrivi?», insistette l’altra.
«D’accordo. Puoi accompagnare tu Lady Blackwater?»
Mentre si voltava per salutarla, si accorse che Lady Blackwater gli aveva afferrato la giacca e stava cercando goffamente di infilargli dei soldi in tasca. Due monete di piccolissimo taglio rotolarono sul linoleum a scacchi bianchi e neri. Per una volta vedranno tutti quanto è tirchia, pensò Gavin mentre raccoglieva il denaro, la ringraziava e poi correva dalla signora Whittington per dirle che sarebbe stato da lei in un battibaleno. La signora Whittington non era contenta. «Non ho tutto il pomeriggio a disposizione, sai, Gavin?», disse mentendo. Mandy le stava togliendo i bigodini con indolenza e le ciocche sciolte somigliavano a grosse salsicce color crème caramel.
«Due secondi, signora Whittington!», le disse correndo alla reception. Ma prima di arrivarci per poco non si scontrò con la signora Courcel, una donna giovane vestita sempre in modo impeccabile per la quale la messa in piega era una vera ossessione.
«Sono venuta per il solito», disse come se la cosa avesse dovuto entusiasmarlo.
«Forse dovrà aspettare un po’», le disse lui. La signora Courcel veniva quasi tutti i giorni e oltre alle varie operazioni di lavaggio, taglio e tinta, all’acquisto di innumerevoli prodotti e alla messa in piega, lo costringeva sempre a una lunga discussione su un ipotetico cambio d’immagine. Non aveva figli e si annoiava, ma Gavin aveva smesso da tempo di provare simpatia per lei; non aveva niente da fare tutto il giorno e lui non riusciva a non invidiarle quelle ore libere dalla necessità di guadagnarsi da vivere, che lui, invece, avrebbe saputo impiegare in modo piacevole e interessante .
Da un divano Chesterfield di pelle bianca si levò una donna imperiosa, vestita di tweed: la signora Buckmaster.
«Ah, Gavin! Prima di prenderle l’appuntamento, ho pensato che forse potevi darle qualche buon consiglio. Cynthia!».
Quando tornò dalla signora Whittington, la trovò che sfogliava «Vogue» con aria stizzita.
«Lo chiedo a te, Gavin. Pensi davvero che una persona possa andare in giro conciata in questo modo?». E gli mostrò la fotografia di una ragazza con addosso quella che sembrava una gonna pantalone ricoperta di paillettes lilla con due spesse bretelle, cariche di lustrini anche quelle, che le coprivano per miracolo i capezzoli. I capelli biondo fragola si sollevavano al vento, mentre se ne stava in posa su un ponte palladiano in un bellissimo parco.
«Non lo trovi assurdo? Quale ragazza andrebbe in giro con questa roba addosso?».
Le sorrise con simpatia mentre cominciava a spazzolare le salsicce color crème caramel.
«Non saprei proprio, signora Whittington». Si stava chiedendo se il ponte fosse quello di Towe, di Stourhead, di Wilton oppure di Blenheim.
«Insomma, se ti fermi un attimo a pensarci, è disgustoso. È inaccettabile! Se proponessi a mia figlia di uscire di casa abbigliata in quel modo, mi riderebbe in faccia».
Gavin conosceva la figlia della signora Whittington: aveva l’aspetto di un corpulento poliziotto di provincia vestito da donna. Gavin aveva tremato all’idea di metterle le mani nei capelli, che erano neri e molto crespi, come un cespuglio d’erica.
«Il mondo è vario», disse lui come da copione. Con la signora Whittington la conversazione non doveva riservare sorprese.
«Oh, a quanto pare sì». Le spazzolò i grossi boccoli e la testa della signora assunse l’aspetto di una gigantesca meringa. Lei fece un gran sospiro pieno di tolleranza, mise via la rivista e cominciò a spiegargli per filo e per segno quello che pensava della legge sull’aborto.
Dopo la signora Whittington, ebbe giusto il tempo di placare lo scontento della signora Courcel circa il suo aspetto di quel giorno, perché poi lo aspettava una poderosa opera di ristrutturazione su una cantante lirica in pensione che aveva prenotato taglio e permanente per la sua lunga chioma. La signora Courcel gli aveva fatto perdere la sua pausa pranzo.
Sebbene si trovasse nel cuore di Londra, il salone dove lavorava Gavin non era di quelli alla moda. Non aveva una clientela giovane: niente musica, niente personaggi in vista come modelle, pop star o gente la cui faccia appariva regolarmente su riviste e in tivù. Le clienti erano tutte anziane o al massimo di mezz’età. A un servizio molto serio e professionale abbinavano premure particolari che i saloni di grido non offrivano, ed era forse questa la ragione per cui le clienti
tendevano ad affezionarsi, come anche il personale. Il problema più grosso era reperire forza lavoro giovane, perché erano sempre meno le ragazze (o i ragazzi) disposte ad affrontare tre anni di faticoso apprendistato durante il quale dalle nove alle sei dovevano fare solo quello che gli veniva ordinato: spazzare, lavare capelli oppure stare in piedi per ore a passare bigodini e forcine ai colleghi più anziani, con un solo giorno a disposizione per studiare e uno stipendio inferiore a quello che avrebbero potuto avere in qualsiasi altro posto. Già adesso, a volte, Gavin e gli altri tre parrucchieri dovevano fare dei turni al lavaggio o alle pulizie, e poiché gli appuntamenti erano sempre tanti, arrivavano a fine giornata esausti.
A Gavin, che era di gran lunga il più giovane tra loro, non dispiaceva. Dava sempre il massimo e lavorare con e per persone più grandi di lui si addiceva al suo carattere. Il pensiero di un salone pieno di gente giovane e bella lo avrebbe terrorizzato. Aveva trentun anni, faceva il parrucchiere da quattordici e nel tempo l’esperienza e i buoni risultati avevano alleviato un po’ la sua penosa timidezza, almeno al salone. Fuori era un po’ più difficile, perché, sebbene avesse imparato a nascondere il suo disagio, non aveva ancora la più pallida idea di come fare a sbarazzarsene.
Aveva concepito una specie di Scala della Paura: al primo gradino c’era stare in compagnia di persone che conosceva già, e poi salendo dover parlare con loro, parlare con una di loro in particolare, stare con gente che non conosceva, doverci parlare, e così via fino ad arrivare all’inconcepibile situazione in cui incontrava una bella ragazza e doveva parlare con lei… La Scala della Paura del resto era solo un modo per catalogare i problemi in ordine di difficoltà – da un piccolo fremito di disagio al panico vero e proprio – e non offriva nessun tipo di soluzione.
Eppure gli anni trascorsi al salone (aveva cominciato lì come apprendista e lì era rimasto) avevano sicuramente migliorato le sue attitudini sociali: ora non provava più nessuna difficoltà a parlare con le signore dei loro capelli e a consigliarle o partecipare a qualsiasi genere di conversazione. Inoltre le clienti del salone, di età media o avanzata che fossero, costituivano un ottimo diversivo alla compagnia di suo padre e sua madre, i cui interessi esclusivi erano rispettivamente guadagnare denaro e tenere la casa lucida come uno specchio.
Sul treno delle sei e venti si preparò alla serata che lo aspettava: sarebbe arrivato a casa alle sette e cinque e per prima cosa avrebbe salutato sua madre – naturalmente lei sentiva benissimo il rumore del cancello e della porta d’ingresso ma pretendeva lo stesso che lui annunciasse il suo ritorno –, sarebbe andato a lavarsi e poi ridisceso per la cena, a seguire una tazza di caffè, un Willem II e infine… poteva guardare quel programma sulla Cina o ascoltare quel nuovo disco di Strauss o finire l’ultimo libro di Anthony Powell. Dopodiché a letto.
In treno si ritrovò seduto di fronte a una ragazza che parlava e rideva molto con un’altra, più bruttina e più grande di lei. Aveva i capelli corti e ricci biondo rame, una bella carnagione nonostante le lentiggini e occhi chiari, color genziana. Strappava grandi risate alla sua amica, e Gavin avrebbe tanto voluto sentire cosa diceva, anche solo qualche parola per capire se era davvero divertente o se erano solo sciocchezze da adolescenti. Si accorse quasi subito che anche gli altri passeggeri la guardavano: in effetti tutti gli uomini che le passavano davanti per scendere le lanciavano un’occhiata, alcuni restavano persino a fissarla. Non l’avrebbe definita bella, no, ma di certo attirava gli sguardi. Lui aveva standard molto severi quanto a bellezza, era puntiglioso e sapeva il fatto suo. La ragazza aveva i seni piccoli e distanziati ben segnati dal maglioncino sintetico bianco. Poiché era seduta, Gavin non poteva formarsi un giudizio sul resto della sua persona, finché non le guardò le caviglie, che erano molto lontane dalla perfezione. L’amica invece era proprio bruttina. Gavin provò una fitta di compassione per lei, ma che poteva farci? La natura non le aveva donato nemmeno un briciolo di bellezza.
Casa sua era a una ventina di minuti di cammino dalla stazione; quando pioveva prendeva l’autobus, ma andava a piedi tutte le volte che poteva, perché una volta un dottore gli aveva detto che, per i problemi di pelle, l’esposizione all’aria fresca era importante tanto quanto l’alimentazione. Lui quei problemi li aveva quasi sempre a primavera: capitava a un sacco di persone, il corpo si liberava dalle impurità dell’inverno. Era una bella serata; per qualche motivo la luce della tarda primavera, languida e misteriosa, gli ricordava la costa del Suffolk.
Elizabeth Jane Howard, figlia di un ricco mercante di legname e di una ballerina del balletto russo, ebbe un’infanzia infelice a causa della depressione della madre e delle molestie subite dal padre. Donna bellissima e inquieta, ha vissuto al centro della vita culturale londinese della seconda metà del Novecento e ha avuto una vita privata burrascosa, costellata di una schiera di amanti e mariti, fra i quali lo scrittore Kingsley Amis. Da sempre amata dal pubblico, solo di recente Howard ha ricevuto il plauso della critica. Scrittrice prolifica, è autrice di quindici romanzi. La saga dei Cazalet è la sua opera di maggior successo, con un milione di copie vendute.
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