“Il cuore di un’ape” Il mio anno da apicoltrice di città di Helen Jukes edito da Einaudi in tutte le librerie e on-line

Sinossi

«Questo libro ha conquistato un posto speciale nel mio cuore. È inaspettato, bello, davvero unico: preciso e squisito come il volo di un’ape».
Helen Macdonald

«Fu Coleridge a dire che “Tutti dovrebbero possedere due o tre alveari di api”; tutti dovrebbero anche possedere Il cuore di un’ape, che mi ha commosso e deliziato piú di quanto un libro sugli insetti avesse il diritto di fare».
«The Guardian»

A trent’anni la vita di Helen sembrava girare a vuoto: lavori precari e amori fragili, tanti «contatti» ma pochi amici, città sempre diverse e nessun luogo da chiamare casa. Come tanti trentenni, in fondo. Poi un giorno, quando lo stress al lavoro è tale da svelare il suo vero volto di sfruttamento, Helen capisce che non puoi trovare una casa se non sei disposto a costruirtela tu. Decide cosí di procurarsi un’arnia e dedicarsi all’apicoltura urbana: forte degli insegnamenti di vecchi e nuovi amici, dei libri e di internet, tra passi falsi e preziose conquiste, impara a prendersi cura di una colonia di api. E, con loro, a prendersi cura di sé. «L’arnia – quel posto brulicante in fondo alla staccionata – è diventata una sorta di rifugio, dove mi venivano offerti spazio e possibilità di fare le cose in un modo diverso. Laggiú, vicino all’arnia, lontano dall’involucro coriaceo della città, ho trovato un luogo dove togliermi l’armatura; espormi di piú, diventare capace di toccare e lasciarmi toccare. Forse sono anche diventata piú brava a prendermi cura delle cose». In parte racconto della natura, in parte memoir, Il cuore di un’ape è una meditazione meravigliosamente sincera sulla responsabilità e sulla cura, sulla vulnerabilità e sulla fiducia, sulla creazione di legami e sul trovare nuove strade. Ma è anche una vera e propria guida pratica a come trovare il tempo e lo spazio, nella nostra quotidianità, nelle nostre città, per riallacciare un contatto con la natura attraverso questi animali cosí affascinanti e fondamentali per l’equilibrio dell’ecosistema.

«Una magistrale esplorazione personale dell’arte e della scienza dell’apicoltura. Jukes sa evocare tanto le minuzie pratiche quanto la vita e le scoperte degli scienziati che hanno studiato le api».
«Nature»

«Scritto benissimo e perfetto per questi tempi».
Robert Macfarlane

Estratto

Nota dell’autrice.

Tutte le storie in parte prendono forma quando le si racconta, e si fa presente che, nel mettere questa per iscritto, alcuni nomi e particolari sono stati cambiati.

Il cuore di un’ape

Soglia

Novembre

Il giorno in cui arriva l’idea ho una gran voglia di scappare. Tornata dal lavoro e troppo nervosa per stare dentro casa, apro la porta sul retro, esco. Ai miei piedi c’è uno zerbino sciupato, con tre gufi di un viola stinto sopra la scritta Welcome bella grossa. Ma è messo al contrario, dà il benvenuto a chi se ne va; entrando, lo troveresti a testa in giú. Lo guardo e batto le palpebre. Dietro l’occhio sento tremare un nervo, come se il fruscio che manda lo schermo del computer mi fosse entrato in testa. Ho le spalle curve, il collo rigido. Sulla nuca un fascio di muscoli si è contratto in un bozzo duro, e ora lo massaggio con le nocche, forte.

Sono stanca. E porto ancora le scarpe da ufficio, che non sono adatte per passeggiare in un giardino ghiacciato, al tramonto. Ma stasera devo muovermi – andare da qualche parte, via di qui. Nel giardino sul retro di una casetta, l’ultima di una schiera su una via trafficata che porta fuori dal centro di Oxford, non si va tanto lontano. Conto i passi, arrivo a quindici. Oltre il capanno, con un rampicante che lo ricopre come una parrucca, e la pozza piena di foglie morte. Lungo il muretto di confine col giardino dei vicini, che quando lo tocchi si sgretola appena appena. Poco prima di arrivare in fondo, il muretto s’interrompe e diventa un’alta siepe di faggio. Là c’è una compostiera, poi un groviglio di erbacce.

È da poco che abito qui, con la mia amica Becky. L’ultimo progetto che ho seguito nel Sussex stava per concludersi, quando mi hanno offerto di lavorare per un ente benefico di Oxford. Era un contratto a tempo indeterminato e, dopo la girandola di traslochi degli ultimi anni, sembrava una buona opportunità; un’occasione per stabilirmi in un posto, magari starmene un po’ tranquilla. Quando l’ho chiamata per annunciarle il mio trasferimento, Becky ha suggerito di andare a vivere insieme. E cosí abbiamo trovato questa sistemazione. Una casa di mattoni rossi, con due stanze sotto e due sopra, le tarme nella moquette e uno stretto giardino sul retro che si è riempito di erbacce. È passato qualche mese e finora non è andata a gonfie vele. Il lavoro è pesante, stare dietro a tutte le scadenze mi costa una gran fatica. Vorrei avere la scorza dura ed essere piú brava a gestire certe cose, tipo i giochini di potere, le lampadine a fluorescenza, quelle sedie da ufficio che girano e girano. La settimana scorsa una collega mi diceva che entrambi i miei predecessori si sono licenziati quando il carico di lavoro si è fatto eccessivo, e dalla sua faccia era chiaro che nemmeno stavolta si aspettava un finale diverso.

In fondo al giardino c’è una staccionata. È nascosta dietro una conifera sporgente e arbusti rinsecchiti di uvaspina, poi ancora sotto un garbuglio di rovi, al punto che sarebbe impossibile notarla o capire dove finisce il giardino; se non fosse che di lato, tra un cespuglio di agrifoglio e un beccatoio, si apre un varco che la rende visibile. Mi c’infilo e tocco la staccionata. Mi alzo sulle punte, ma non riesco a vedere oltre. E adesso, per un istante o due, riparata dall’agrifoglio che oltretutto mi punge le cosce, dimentico dove sono. Dimentico quella casa che non sento ancora mia e i ritmi frenetici dell’ufficio. È allora che arriva l’idea. Qui potrebbero stare le api, penso, e subito mi soffermo su quel pensiero. Indietreggio per la sorpresa. Un tempo andare in cerca di varchi come questo era un’abitudine. Non mi tornava in mente da un po’. Ma ora comincio a studiare l’orientamento, l’esposizione ai venti, l’umidità. Guardo in alto, dove l’ombra degli alberi non può arrivare. Un po’ piú in là si vede il tetto di un magazzino, il sole che tramonta. Alle mie spalle, plic, cade una goccia di pioggia.

Di apicoltura ho imparato qualcosa pochi anni fa, quando vivevo a Londra e tramite amici comuni ho conosciuto Luke, che ha alveari in giro per la città. All’inizio lo faceva solo per hobby: gli avevano concesso un fazzoletto di terra al Museo di storia naturale, in cambio di un barattolo di miele all’anno; ma poi la cosa era cresciuta. Presto l’avevano contattato diverse imprese che volevano allevare api, ed erano disposte a pagarlo. Quando mi sono trasferita a Londra e abbiamo fatto conoscenza, Luke teneva alveari presso riviste, atelier di moda, pub, alberghi: oltre a prendersi cura delle api, formava i dipendenti perché riuscissero a cavarsela da soli.

Ai tempi l’apicoltura urbana era ancora poco diffusa, e io non avevo mai visto l’interno di un’arnia. Sembrava divertente, originale e – stordita dalle dimensioni e dall’offerta cosí varia della mia nuova città – ero impaziente di conoscere una persona che prestava attenzione alla vita di creature minuscole e ronzanti.

Al nostro primo appuntamento Luke portava un tre pezzi color crema, una camicia rosa e una paglietta, e faceva dondolare una borsa blu dell’Ikea. Irradiava fascino. – Helen! – si è illuminato vedendomi. – Che bello conoscerti! – Eravamo davanti ai Coram’s Fields, un parco per bambini nel centro di Londra, dove teneva due alveari in una striscia di verde dietro il caffè.

– E allora vuoi vedere le api? – ha chiesto, al che ho annuito. Da sotto il cappello gli spuntavano i capelli grigi e corti. Sembra un po’ una talpa, ho pensato, e intanto sbirciavo gli aggeggi metallici e le maschere di rete nella borsa. – Secondo alcuni le api sentono l’odore della paura, – ha detto, aprendo un cancello per guidarmi al di là della recinzione di ferro e poi lungo un vialetto di ghiaia. Cosí, mentre c’infilavamo la tuta, mi ripetevo che non c’era nulla da temere ma, quando Luke ha sollevato il coperchio di un’arnia e le api sono andate in subbuglio, mi sono fatta prendere dal panico.

Prima di quel giorno non sapevo neanche che le api sono diverse dai bombi; che la loro grande famiglia comprende oltre ventimila specie, di cui solo una piccola parte produce miele. – Apis mellifera, – ha annunciato Luke, come a presentare una cara amica. È l’ape domestica, quella che piú comunemente viene allevata e selezionata.

Quelle api non erano né pelose né soffici. Erano fragili e tremolanti, e quando Luke ha alzato il coperchio non mandavano un ronzio, ma una specie di mmmm, come quello di una macchina, anche se piú incerto, piú esposto all’instabilità. All’interno erano stipati telaini di legno che pendevano perpendicolari al tetto, ognuno coperto fino ai bordi di tante cellette e gremito di api.

– Guarda, – ha detto Luke estraendo un telaio, per indicarmi prima il punto in cui la regina aveva deposto le uova dentro le celle, poi quello dove le operaie avevano immagazzinato il polline per nutrire le giovani larve e infine il punto in cui il nettare si trasformava in miele. Le api mellifere sono tra le poche specie della famiglia a vivere in colonia; i bombi sono sociali in estate, ma d’inverno sopravvive solo la regina. Durante la fioritura le api si danno da fare per produrre quanto piú miele possibile, in modo da avere cibo a sufficienza per la stagione fredda.

Brulicavano dai telai e dalla porticina. Le avevamo importunate, e adesso erano loro a voler importunare noi. Ho lanciato un’occhiata a Luke, che lavorava calmo e abile, con una scioltezza che finora mi era sfuggita.

– Stanno sciamando! – ho gridato.

– Non stanno sciamando, – ha detto lui. – La sciamatura è quando un gruppo si separa dalla colonia e abbandona l’alveare; queste lo stanno solo difendendo.

Ero conquistata. Dalle api, e anche dall’apicoltura: quei gesti precisi e attenti non erano lontani dalla tenerezza; da una specie di intimità. Di lí a poco mi sarei occupata delle api tutte le volte che potevo. Luke mi mandava un messaggio con indirizzo e ora dell’appuntamento, e io andavo ad aiutarlo, sfrecciando per le strade in sella alla mia bici. 

Era come infilare una porta segreta, uscire leggermente dal flusso delle cose ed entrare in una versione diversa della città. Quando facevamo gli apicoltori, niente era come appariva. I muri avevano rientranze, le finestre erano scavalcabili, sui tetti ci si poteva arrampicare. Seguivamo gallerie sotterranee e passaggi nascosti, entravamo in spazi verdi di cui neanche immaginavo l’esistenza. Ma tutto questo era marginale rispetto al nostro vero compito, ossia aprire l’arnia, perché allora dovevamo calmarci e usare molte premure, sia verso la colonia sia verso noi stessi. Dal cappuccio che ci avvolgeva la testa alle galosce che ci fasciavano le caviglie, la tuta da apicoltore ci copriva come se dovesse proteggerci da una contaminazione nucleare piú che dall’apertura di un’arnia. Lí dentro ero nascosta in un bozzolo e al tempo stesso davo particolarmente nell’occhio: quello spazio dietro il caffè dei Coram’s Fields confinava con un marciapiede, e quando eravamo al lavoro spesso i passanti si fermavano ad additarci attraverso l’inferriata del parco. A malapena ci facevamo caso. Una volta tolto il coperchio, eravamo assorti. Ogni movimento di braccia, gambe, mani e testa aveva un peso: bastava afferrare o mollare qualcosa di scatto per agitare le api, e allora dovevamo fermarci a guardarle, in attesa che l’agitazione attraversasse la colonia come un’onda, un cambiamento di frequenza, un brivido…

Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la curatrice del blog letterario "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga.