Luckas, giornalista affermato, è un uomo appagato e sicuro di sé almeno sino a quando non incrocia sulla sua strada Clara, una giovane ed esordiente pittrice, una donna enigmatica e dal forte carisma. Tra i due si innescherà uno strano gioco fatto di ripicche, dispetti e sciocche rivendicazioni che sfocerà in un amore travolgente e appassionato ma Clara è sposata con un russo emigrato in Italia dedito alla contraffazione d’opere d’arte e ritenuto una sorta di “Padrino” nel traffico degli affari illeciti. Sarà proprio il timore verso quest’uomo che li porterà a consumare il loro amore di nascosto ma sarà proprio la forza di quest’amore che li convincerà, successivamente, a uscire allo scoperto. Da quel momento in poi, per i due amanti, nulla sarà più come prima, le loro vite cambieranno per sempre e con esse anche il loro destino.
CAPITOLO 1
Mi domandai perché?
Cos’è che mi aveva impedito sino ad allora di fare ciò che volevo.
Vagavo nel salone della mia casa, dove la scia del suo profumo aleggiava ancora, dove il silenzio sembrava piombare ogni qual volta restavo solo.
A pranzo sarebbe tornata ma probabilmente non mi avrebbe trovato. Era giusto che le dicessi qualcosa? Era giusto che le dessi almeno una spiegazione?
Quanto potevano servire le parole consolatorie di chi ti sta lasciando?
Non c’erano parole che avrebbero potuto evitare il dolore che le avrei inflitto, come non c’erano parole che lei avrebbe potuto usare per trattenermi dall’andare via. Avevo la sensazione di aver sprecato la mia vita sino a quel momento sebbene lei l’avesse riempita d’amore.
Non avevo nulla da rimproverarle, nulla per cui colpevolizzarla ma nonostante tutto volevo andare via da lei.
Guardai la nostra foto appesa alla parete, una delle prime scattate assieme. Avevo mentito anche quel giorno? Avevo solo creduto di amarla?
Più volte l’avevo chiesto a me stesso e più volte non avevo saputo darmi una risposta.
Piegai le maniche della camicia e la riposi nella valigia, guardai il vecchio orologio a cucù appeso sulla testata del letto, finalmente non avrei udito più neanche il suo ticchettare.
Raccolsi le ultime cose che avevo lasciato sparse per casa incluso il bizzarro cappello che mi aveva portato di regalo, qualche mese fa, da uno di quei mercatini di paese a cui le piaceva tanto andare.
Chiusi il mio borsone e lo tirai giù dal letto. Presi le chiavi della mia auto e prima di uscire di casa guardai il divano rosso che insieme avevamo acquistato; la immaginai, seduta tra quei cuscini, piangere la mia assenza.
A volte si spera di soffrire più di quanto si possa far soffrire l’altro per poter dire anch’io sto male, per potersi sentire sollevati dall’aver inflitto dolore ma io non stavo male neanche un po’, neanche all’idea di come disperatamente l’avrebbe presa.
Prima ancora di uscire da quella casa mi sentivo rinato, libero da ogni vincolo o costrizione, libero di seguire il mio istinto che sino ad allora avevo cercato di reprimere.
Avrei ricostruito la mia vita e l’avrei fatto senza di lei perché solo ora mi rendevo conto che nei miei progetti lei non c’era mai stata.
Lasciai sul tavolo della cucina una rosa, era il mio saluto silente.
Una rosa bianca come l’immagine pura che ne avevo, una rosa dal colore candido come l’essenza del suo essere.
L’avevo acquistata nel piccolo chiostro di fiori vicino casa, l’avevo acquistata con tutt’altro spirito rispetto a quello che solitamente accompagna la volontà di un uomo nel regalare dei fiori a una donna.
L’avevo scelta bianca, sì, perché nessun altro colore sembrava potesse rappresentare nel migliore dei modi le mie intenzioni e allora avevo optato per quella scelta che, più di ogni altra, mi era sembrata potesse esprimere al meglio la mia volontà di dirle addio senza rancori.
Avevo optato per quella scelta anche per la percezione che, ad oggi, avevo della sua persona. La vedevo come un essere limpido, pulito, dall’animo integro e innocente; talmente incontaminato da risultare ai miei occhi addirittura trasparente.
Così cristallina da brillare ma comunque incapace di suscitare in me le emozioni di quella vita a colori ricercata sin dalla mia infanzia.
Il bianco, un colore certamente accomodante, rassicurante ma io volevo il rosso della passione, il giallo della gelosia, il verde della speranza.
Quella rosa era il modo più cortese che avessi trovato per dirle addio dato che non avevo parole per giustificare il mio gesto. Era il mio modo cortese per dirle comunque grazie per la dedizione, l’affetto, la cura e l’interesse che aveva dimostrato per me in questi anni.
Era stata una donna impeccabile ma questo non era bastato a farmi capitolare.
Più volte provai a scrivere due righe da lasciare su un biglietto accanto al mio dono.
Pensai e ripensai alle parole che avrei potuto usare ma nessuna parola mi sembrava giusta o comprensibile ai suoi occhi. Più volte accartocciai quel biglietto e provai a ricominciare. Più volte finii col gettarlo nella spazzatura.
Alla fine decisi di non scrivere nulla, non volevo mentirle se significava addolcire quel momento né tanto meno volevo assestare il colpo se significava essere sincero.
Presi il mio impermeabile e nel farlo mi accorsi di avere ancora in tasca la lista della spesa che mi aveva lasciato la sera prima. Accartocciai anche quella e la rinfilai da dove l’avevo presa.
Attraversai il lungo corridoio che dalla cucina portava all’ingresso ancora avvolto da quel trambusto di pensieri che sembravo portarmi in spalla come un macigno, un peso che sembrò diventarmi improvvisamente più leggero alla vista dell’ultima soglia da varcare.
Aprii la porta di casa e andai via senza ripensamenti, senza dubbi, senza paure e sebbene la mia mente continuasse a ripetermi che stavo commettendo una follia, il mio istinto continuava a dirmi che sarebbe valsa la pena commettere qualsiasi follia se fosse servita a farmi raggiungere la felicità!
CAPITOLO 2
Conobbi Clara quando avevo solo 28 anni e non dico che me ne innamorai da subito ma quasi.
Ricordo che la prima volta che la vidi ne rimasi folgorato, era straordinariamente bella.
Capelli neri come la pece che le correvano ondeggianti lungo quasi tutta la curva della schiena, occhi scuri dal taglio inusuale per un’europea.
Mi trovavo per uno dei miei tanti articoli a Venezia a una mostra di giovani artisti e mi fu fatta notare da un collega che l’aveva ritenuta uno degli astri emergenti del momento.
La prima cosa che mi colpì è che fosse in compagnia del signor Komansky, un pezzo grosso, un russo emigrato in Italia definito una sorta di “padrino” negli affari del mondo dell’arte; si vociferava facesse traffici illeciti di falsi d’autore e, sebbene tutti sapessero, nessuno era mai riuscito a trovare sufficienti prove per incastrarlo. Non ci diedi troppo peso, tutti sapevamo anche che bazzicava queste mostre alla ricerca dei migliori talenti.
“La natura e la sua imponenza trionfano sulle tele di Clara Cantone. Un senso di verticalità tende ad esaltare le scene, l’esplorazione della natura diventa interprete e avvolgente…” cominciai a scrivere sul mio taccuino. I suoi lavori erano davvero accattivanti ed era da tempo che non mi capitava di trovarmi di fronte a una tale originalità.
Finito di trascrivere i miei appunti, decisi con Fabio mio assistente e caro amico, di fermarci a pranzo al “Rugantino”, uno dei ristoranti più vicini alla sede della mostra e forse anche uno dei più prestigiosi. Tra un antipasto e l’altro la rividi.
Aveva preso posto al tavolo di fronte al nostro ed era ancora insieme al signor Komansky…provai a immaginare cosa le stesse proponendo.
Nell’andirivieni delle varie portate il mio sguardo cadeva inevitabilmente sempre su di loro o, per meglio dire, su di lei ma mai una sola volta le vidi rivolgermi lo sguardo; mai una sola volta, neanche per sbaglio, indirizzò i suoi occhi verso me.
Io ne ero rimasto completamente ammaliato mentre lei, a differenza mia, non si era neanche lontanamente accorta della mia esistenza.
Era così concentrata ad ascoltare le parole del suo accompagnatore che sembrava non prestare attenzione a nient’altro ruotasse all’infuori della sfera del loro tavolo; nemmeno a me che, forse da ore, la stavo fissando.
Poi, quasi come accade nei film, la vidi andar via in compagnia dell’uomo ma nell’uscire, sbadatamente, qualcosa le cadde dalla borsa.
Non ebbi neanche il tempo di richiamarli prima che i due, in maniera frettolosa, si dileguassero tra gli stretti vicoletti cittadini affollati dai turisti.
Solo dinanzi alla porta d’ingresso mi resi conto di avere in mano il suo portamonete.
Cominciai a sbirciarci dentro: un paio di banconote, qualche ricevuta, documenti e alcuni bigliettini da visita su cui spiccava in neretto e a caratteri maiuscoli:
CLARA CANTONE
VIA XXII MARZO
30121 VENEZIA
Anna Laura Littero nasce a Torremaggiore (FG) il 12/05/1982.
Con la sua famiglia e suo marito vive a San Severo (FG) dove coltiva, in parallelo al suo lavoro aziendale, la passione per la scrittura.
“Il Casolare Amaranto”, suo romanzo d’esordio, segue la pubblicazione del racconto “La terra dei non ricordi” edito nella raccolta “Puglia Quante Storie 3”.