“Colpevole” di Laura Elliot edito da Newton Compton (Estratto)

Alla mia unica e sola, amata sorella, Deirdre Mullally
Grazie per l’amore, il sostegno e l’amicizia

Prologo

La notte ha preso possesso di Cherrywood Terrace. La luce dei lampioni allaga i marciapiedi e i dispositivi antifurto ammiccano dalle mura delle case addormentate. Una striscia di luce sfugge tra le tende della camera da letto dell’anziano signor Shannon. Lui non dorme mai la notte, o almeno così le ha detto. Resta sveglio a fare cruciverba o a leggere poesie, per non farsi cogliere di sorpresa dalla morte, se mai dovesse arrivare alle ore piccole.

Nella stanza accanto, i suoi genitori stanno dormendo. Il lieve, ritmico russare di suo padre è l’unico suono che turba il silenzio, mentre lei fruga nel disordine dell’armadio. Dall’interno di un vecchio stivale tira fuori un cellulare e legge l’ultimo messaggio che ha ricevuto – e ignorato, fino a ora. La sfida è chiara. È pericolosa, piena di rischi, temeraria, inutile. Non deve accettarla, ripete a se stessa, ma allo stesso tempo sente già crescere l’eccitazione, la stupida esaltazione di chi sa che può farcela. Andrà fino in fondo e nessuno le darà più della codarda.

Ficca nello zaino le bombolette spray, una torcia e il telefono. Meglio togliere le scarpe da tennis e mettere gli stivali: Turnstone Marsh sarà un acquitrino. Si ferma sul pianerottolo. Perché lo sta facendo? Ma la rabbia che l’ha portata fin lì è così forte che la trascina di corsa giù dalle scale.

Si ferma a guardare una casa sull’altro lato della strada. Era lì dentro, poche ore fa, e ne è uscita in silenzio come vi era entrata. Si scrolla di dosso quel ricordo e cammina spedita verso la scorciatoia per Turnstone Marsh, appena oltre le villette a schiera.

È più buio, qui, e i suoi passi risuonano troppo forte. Il vento che si insinua tra le alte mura alla sua destra e alla sua sinistra le scompiglia i capelli. Vede agitarsi le ombre ai suoi piedi e si ferma, teme che qualcuno la stia seguendo. Quando si volta, però, tutto è immerso nel silenzio. Nessun rumore di passi, né dietro né davanti a lei. Raggiunge la fine del vicolo e svolta in direzione della palude.

Le bianche corolle dei convolvoli ondeggiano come fantasmi ai lati della strada: esita di nuovo, incerta tra il desiderio di tornare a casa per nascondersi sotto le coperte e il bisogno di andare avanti e portare a termine la sfida. Scala un terrapieno e si lancia di sotto, atterrando sull’erba morbida. Conosce alla perfezione le cunette e i dossi di quel posto. Ci veniva in mountain bike, quand’era più piccola, ma ora le sembra diverso, carico di mistero e minaccioso. Prende la torcia dallo zaino e la punta sul profilo frastagliato di Toblerone Range. Si ricorda bene la fatica di scalare in bici il picco più alto, e poi la corsa a perdifiato sui dossi. Il brivido di scendere senza toccare il freno e senza cadere. Ora deve affrontare una sfida ancora più grande, e ha fretta di portarla a termine, prima che i suoi genitori si sveglino e scoprano che non è in casa.

Segue il viottolo che costeggia il fiume. Il terreno è più stabile ora, più sicuro dei sentieri ricoperti dall’erba. Superata la palude, attraversa Orchard Road e si ferma davanti alla casa maledetta. Il cancello è chiuso da un lucchetto. Con la torcia illumina il muro di cinta, fino a trovare un punto in cui i mattoni che hanno ceduto le offrono un sostegno per arrampicarsi.

Le mura esterne sono ricoperte da graffiti. L’anno scorso, per Halloween, qualcuno ha divelto la porta e l’ha utilizzata per un falò. All’ingresso, l’odore di muffa è così forte da costringerla a fermarsi. Ancora una volta si chiede perché si è cacciata in una sfida così insensata. È terrificante, una follia. Un uomo è morto in questa casa: l’ha scoperto il postino, sette giorni fa. Il suo fantasma potrebbe essere lì dentro, in attesa, pronto a ululare contro di lei non appena varcherà la soglia. E d’accordo, magari i fantasmi non esistono, ma certo ci saranno mille ratti ad aspettarla, pronti a mordere.

Si volta per tornare indietro, ma poi ci ripensa. Deve andare avanti se vuole guadagnarsi il suo posto nei Fearless. Scende gli scalini che portano al seminterrato. Il fascio di luce della torcia coglie vecchi mobili marci, pentole e padelle arrugginite. Quasi inciampa su una sella da cavallo. Da uno squarcio fuoriesce l’imbottitura, aggrovigliata come un nido di corvi. Tira fuori le bombolette dallo zaino. I muri sono già ricoperti di graffiti, stupidi scarabocchi, segni senza senso e parolacce. Puro e semplice vandalismo. I graffiti dovrebbero avere uno scopo, per come la vede lei. Dovrebbero mandare un messaggio. Una protesta contro l’autorità, in particolare contro quei genitori che hanno dimenticato cosa significa essere giovani. Posiziona la torcia sul pavimento e si mette al lavoro.

Finito. Fa un video della sua opera con il telefono dei Fearless. La cover è allentata, le sbatte contro la mano. Infastidita, libera il telefono e ricomincia a filmare la spazzatura sparsa in giro: darà un tocco d’atmosfera al video. Sente delle zampette strisciare sul pavimento e si fionda su per le scale.

Finalmente è fuori, all’aperto. L’aria fresca è umida sulla pelle, e può riprendere a respirare liberamente. La rabbia, che pure le aveva donato il coraggio per affrontare la sfida, si tramuta in sollievo. Venato di rimorso. Ha infranto una promessa a una persona speciale. Ma poi mette da parte il senso di colpa: in fondo gli amici sono più importanti, si dice. Perché è importante sentirsi parte di qualcosa. E dopo questa notte lei sarà riammessa nella sua cerchia. Anzi, ne sarà il cuore.

I jeans le si impigliano in un rovo. Nell’oscurità, le sembra che una mano le abbia afferrato la caviglia. Si piega per liberarsi, imprecando sottovoce, ma il telefono le scivola dalle mani e finisce nell’erba alta. Lo ritrova con l’aiuto della torcia. Ma la cover è caduta tra i cardi. Le spine le pungono le dita, recuperarla è impossibile. Allora la lascia lì, ha fretta di andar via da quel posto derelitto e sinistro.

Si infila nel varco nel muro di cinta, poi si lancia di sotto, su Orchard Road. Fa una ripresa del cancello e dell’esterno della tetra casa, in cui il fantasma di Isaac Cronin vaga ancora tra le stanze ammuffite.

Preme il tasto RECORD sul telefono e grida: «Messaggio per i Fearless: missione compiuta. D’ora in poi nessuno mi darà della fifona». Fila via verso la strada, eccitata dal trionfo. Non vede l’ora di raccontarlo. Come una perla, la luna splende alta nel cielo, fredda e impassibile, sugli ultimi gloriosi istanti della giovane vita di Constance Lawson.

 

Capitolo uno

Primo giorno

Tutto ebbe inizio con una telefonata. Ancora addormentato, Karl Lawson afferrò il cellulare sul comodino, sorpreso di vedere il nome di suo fratello sullo schermo. Justin non chiamava mai di mattina. Si alzava sempre presto e di solito a quell’ora era già sulla M50, per arrivare a Junction 9 senza restare bloccato nel traffico.

«Constance è con te?», gli chiese senza lasciargli il tempo di dire una sola parola.

«No», rispose lui, già completamente sveglio. Il tono di Justin l’aveva messo in allarme. «Perché mai dovrebbe essere qui a quest’ora?»

«L’hai sentita stamattina o ieri notte?»

«Non la vedo da giorni. Perché? C’è qualche problema?».

Justin esitò, come per scegliere le parole giuste. «Non è nella sua stanza. Ho pensato che magari ti avesse chiamato per parlare».

«Parlare di cosa?». Karl si alzò dal letto e andò alla finestra, da cui si vedeva la casa di suo fratello. La macchina di Justin era ancora nel viale.

«C’è stata un po’ di tensione, ieri sera», ammise Justin, «e di solito lei corre da te quando ha la sensazione che le stiamo tarpando le ali».

“Tensione” era un eufemismo. “Furia incontrollabile” sarebbe stata una definizione più calzante, pensò Karl. Conosceva bene le discussioni tra Constance e i genitori. Lei era la primogenita, e spesso si lamentava di aver dovuto fare da battistrada per i due fratellini. Justin aveva ragione, Constance spesso si confidava con lui. Ma non stavolta.

«È stata una brutta lite?»

«Che importanza ha?»

«Be’, direi che ha molta importanza, se pensi che sia corsa qui da me».

«Non le abbiamo dato il permesso di andare al concerto dei Blasted Glass».

«Ma Justin, santo cielo, voi non potete…».

«Ne abbiamo parlato con gli altri genitori», tagliò corto Justin. «E siamo tutti d’accordo. Le ragazze sono troppo piccole. E tu avresti dovuto chiedere il nostro parere prima di annunciare che avevi i biglietti».

«Non pensavo che potesse essere un problema. Le ragazze aspettano quel concerto da settimane».

«Non voglio discuterne ora», sbottò Justin. «Devo trovarla subito o farà tardi al campo estivo».

«Hai sentito le sue amiche?»

«Le ha chiamate Jenna. Non hanno idea di dove sia. Si sono scambiate dei messaggi ieri sera, riguardo al concerto. Avranno vomitato tutto il loro odio sui genitori, immagino, però Constance non ha detto dove sarebbe andata stamattina… e non ha parlato di uscite nel cuore della notte». La voce di Justin si fece più acuta, come se quell’ultima possibilità fosse troppo spaventosa anche solo per immaginarla.

«Constance non farebbe mai una cosa del genere». Ma persino mentre lo diceva, Karl sapeva bene che non era affatto vero. La preoccupazione che traspariva dalle domande di suo fratello aumentò la sua inquietudine.

«E la scuola di equitazione?», chiese. «Dà una mano nelle stalle, durante le vacanze, no?»

«Non senza avvertirci… Almeno di solito», disse Justin. «Ma forse hai ragione. Controllerò. Dev’essere lì. Oppure sarà al parco ad allenarsi con gli Harriers».

«Presumo che l’abbiate già chiamata sul cellulare».

«L’ha lasciato sul comodino».

«Allora non può essere lontana. Quel telefono è come un’estensione naturale del suo braccio». Karl era scalzo, ma non era il pavimento di legno gelido a scatenargli il brivido che gli attraversava tutto il corpo: era un’inquietudine imprecisata, vaga. «Io do un’occhiata alla spiaggia», disse.

«Perché proprio la spiaggia?», chiese Justin, sorpreso.

«Se è uscita a cavallo, forse è andata lì per smaltire la rabbia. La troveremo presto».

Karl chiuse la telefonata. Si sedette sul bordo del letto a rileggere i suoi messaggi. L’ultima conversazione con Constance risaliva a tre giorni prima.

 

Hai preso i biglietti, zio Karl?

 

Lui aveva risposto:

 

Non solo li ho presi, ma ho anche dei pass per il backstage. Sei in debito con me, ragazza. Di brutto.

 

Ma che problemi avevano Justin e Jenna?, si chiese, infilandosi una maglietta e un paio di jeans. Constance era una fan dai Blasted Glass fin dalla prima volta che Karl glieli aveva fatti ascoltare. Era riuscito a mettere le mani su dei biglietti gratis per lei e le amiche. Chissà quanto ci era rimasta male, la sera prima. Quanto doveva essersi infuriata per la decisione dei suoi.

Sasha aprì la porta, Karl sentì il rumore leggero dei suoi passi.

 

«Papà, papà». Corse dentro la camera, con le due teste di Dora l’Esploratrice che si agitavano sulle pantofole e la vaporosa vestaglia di Dora l’Esploratrice che si allungava dietro di lei. Gli saltò tra le braccia.

La sollevò e se la mise a cavalcioni sulle spalle. Scesero insieme per le scale, cantando la sigla di Dora a squarciagola. Sasha restò aggrappata al suo collo, per poco non lo strozzava, finché lui non la fece scendere sulla poltrona e mise un DVD.

«Dieci minuti e basta», le disse. «Poi devi vestirti per il campo estivo».

Sasha lo ignorò, tutta concentrata sullo schermo. Era passata senza soluzione di continuità dai Teletubbies a Barney e poi a Dora, e quest’ultima fase non sembrava avere ancora imboccato il viale del tramonto.

Nicole entrò in cucina. Aveva ancora la divisa da infermiera. Era stanca, di rientro dal turno di notte al pronto soccorso.

Karl le diede un bacio sulla testa. «Nottata dura?»

«Un casino, come al solito», rispose lei, «ma niente di drammatico». Si versò il caffè appena fatto, e il profumo invase la cucina. «E nel resto del mondo, ci sono novità?»

«Ha appena chiamato Justin». Prese la tazza di caffè che lei gli porgeva e lo bevve in piedi. «Sembra che Constance sia nei guai».

«Cioè?»

«Ha litigato con i suoi, ieri sera».

«Di nuovo?»

«Stavolta però pare decisa a tenerli sulle spine. Non era in camera, stamattina, quando Jenna è andata a svegliarla».

«Non è da lei». Nicole si mise a sedere e sbadigliò. Aveva delle sbavature di mascara sotto gli occhi e delle ciocche bionde le ricadevano davanti alle guance.

«Ha tredici anni», disse Karl. «Sta allargando i suoi orizzonti».

«È strano che non sia venuta qui. Di solito sei tu il suo rifugio, quando le cose si mettono male a casa».

«È quello che ha detto anche Justin», rispose lui. «Ma non è andata così. So che sei stanca, ma ce la faresti a resistere ancora un po’? Ho promesso a Justin di fare un giro in macchina, per vedere se riesco a trovarla. Tornerò in tempo per accompagnare Sasha al campo estivo».

«Vai pure. Io intanto la vesto. Immagino che stia guardando di nuovo Dora».

«E me lo chiedi?». Si chiuse la porta alle spalle e guardò dall’altra parte della strada, verso la casa di suo fratello. Justin era già andato al maneggio.

Il traffico del mattino cominciava a intensificarsi quando Karl raggiunse Glenmoore. Ma non appena superò il paese, trovò la strada libera. Era ancora troppo presto per portare a spasso il cane ma c’era già qualcuno che faceva jogging. Parcheggiò a North Beach Road e percorse le passerelle di legno che portavano alla spiaggia. Nuvole corallo punteggiavano il cielo. Un cormorano, in volo dal mare, atterrò su una roccia, sbattendo le ali. Sarebbe stata una giornata calda.

A parte il cadavere luccicante di una medusa, la spiaggia era deserta e non c’erano tracce di zoccoli. Raggiunse un gruppo di scogli che curvando creavano una baia riparata. Quel posto era chiamato Ben’s Shack, dal nome del ragazzo che per primo ci aveva organizzato una festa. I giovani di Glenmoore ci venivano spesso in estate. Le feste allo Shack erano state un rito di passaggio per lui e Justin intorno ai diciott’anni. I falò, le chitarre, le bevute, le canne e il sesso: un mix potentissimo. Proprio a una di quelle feste Justin aveva conosciuto Jenna, che era di Glenmoore. Spesso si perdevano nei ricordi di quelle notti, ridendo nonostante il velo di tristezza, e giuravano che avrebbero rinchiuso i loro figli in una torre pur di non lasciarli andare a Ben’s Shack.

Karl entrò nella baia. Si aspettava di trovare resti di falò e lattine vuote, invece la sabbia era immacolata. Non c’erano state feste di recente. Tirò un sospiro di sollievo e tornò in macchina.

Un’altra telefonata di Justin. Non aveva trovato Constance alla scuola di equitazione e stava andando a Glenmoore Park. Magari sua figlia aveva deciso di andare a correre con i Junior Harriers.

Quando Karl rientrò a casa, Nicole era distesa sul divano e Sasha, con i jeans e una maglietta di Dora l’Esploratrice, era rannicchiata al suo fianco, gli occhi fissi sul DVD.

«Un buco nell’acqua», disse. «Mi dispiace di averci messo tanto».

«Pensi che dobbiamo preoccuparci?». Nicole strinse più forte Sasha.

«Sono certo che stia bene», rispose Karl. «Più tardi sento Jenna».

«Posso portare io i bambini al campo estivo».

«No, ci penso io. È già tardi per te, vai a letto. Carico Matthew e Lara, poi torno a prendere Sasha».

L’auto di Justin non era nel vialetto. Karl aprì la porta ed entrò in cucina. Trovò Jenna con il cellulare di Constance. Stava parlando con qualcuno.

«Non sarebbe mai uscita a quell’ora senza avvertirci», disse a Karl dopo aver chiuso la telefonata. «Adora dare una mano al campo estivo, a quest’ora sarebbe dovuta essere pronta per uscire. Ho paura che le sia successo qualcosa».

«Non le è successo proprio niente», la rassicurò Karl. «È da qualche parte e sta tenendo il broncio. Magari si sente in colpa, ma ha paura di rientrare a casa e finire nei guai».

Jenna guardava lo schermo del cellulare, come in attesa di un messaggio che potesse risolvere il mistero. «Sto spulciando la sua rubrica. Non immaginavo che conoscesse tutte queste persone».

La porta della cucina si aprì e Lara, la figlia minore di Jenna e Justin, entrò saltellando, ancora in pigiama.

«Dov’è Constance?», chiese.

«È appena uscita, tornerà tra poco», disse Jenna.

«Ma non mi ha fatto neanche una coccola».

«Eccotene subito una». Jenna la prese in braccio. «Constance ti darà tutte le coccole che vuoi, appena rientra». Le tremò la voce, e nascose il volto tra i capelli di Lara. «È ora di vestirsi per andare al campo estivo». Porse il cellulare a Karl: «Potresti fare qualche altra telefonata mentre io vado di sopra? Qualcuno deve pur sapere qualcosa».

«Ok». Karl prese il telefono e compose il numero che Jenna gli aveva indicato. Squillò e squillò. Stava per chiudere quando qualcuno rispose.

«Ehi stronza, che dici?». Era una voce giovane e insolente.

«Parlo con Lucas O’Malley?», chiese Karl.

Il ragazzo trattenne il fiato, esitò, poi riprese con tutt’altro tono: «Chi parla?»

«Sono lo zio di Constance Lawson. Mia nipote è lì con te?»

«No. Che c’è? È successo qualcosa?»

«Non è successo niente, almeno spero. È uscita senza telefono e i suoi genitori stanno cercando di contattarla».

«E allora perché chiama me? Io la conosco a malapena».

«E tu dici “stronza” a una che non conosci nemmeno?»

«È un modo di dire, signore. Niente di più».

«Se vedi Constance, dille di chiamare i suoi immediatamente».

Dopo quattro telefonate, Karl non aveva fatto nessun progresso. Suo nipote Matthew si precipitò in cucina, in tuta e scarpe da ginnastica.

«Davvero Constance è scappata di casa?», chiese, versandosi i cereali nel latte.

«Certo che no», disse Karl. «Forse è con i suoi amici».

«Lei sta sempre con i suoi amici, sempre». Masticò una cucchiaiata di Rice Krispies e li mandò giù. «Constance odia vivere con noi. Ha detto così ieri notte. Le ragazze sono così stupide. Hanno sempre una scusa per piagnucolare».

Karl lasciò il nipote alle sue riflessioni sulla sorella maggiore e tornò in soggiorno per chiamare il numero successivo. Continuava a guardare fuori dalla finestra: era sicuro che Constance sarebbe spuntata davanti al cancello, con la coda fra le gambe, sconcertata per quella raffica di telefonate ai suoi amici.

Quando Jenna ridiscese con Lara, Karl fece salire in macchina Matthew e la piccolina, poi ripassò da casa per prelevare Sasha.

C’era un gran viavai di auto al Glenmoore College, che durante le vacanze ospitava il campo estivo. Matthew raggiunse il gruppo di calcio e Karl lasciò le bambine al laboratorio di arte. Poi attraversò il campo di atletica leggera, guardandosi intorno, nella speranza di scorgere Constance tra i volontari. E invece niente, nessuna traccia di lei. Justin, che doveva aver avuto la stessa idea, era già lì a parlare con l’allenatore. Si capiva dal suo aspetto avvilito che Constance non era ancora saltata fuori. Nessuno l’aveva vista alla stazione e al centro commerciale e neanche ai bar del paese, disse a Karl mentre tornavano verso le macchine.

Jenna intanto aveva chiamato tutta la rubrica di Constance.

«So che è presto per chiamare la polizia», disse Justin. Abbandonato sulla sedia, si grattava il mento. «Ma ho paura a lasciar passare altro tempo».

«Chiamare la polizia adesso mi sembra una mossa esagerata», disse Karl. «Sono passate solo poche ore».

«La situazione è esagerata», rispose Jenna. «Sono le dieci e non abbiamo idea di quanto tempo fa sia uscita».

«I suoi amici hanno parlato di una sfida, per caso?», chiese Karl.

«Una sfida?». Justin si tirò su. «Quale sfida?»

«Constance ha fatto una stupidaggine, qualche settimana fa». Esitò. Si sentiva addosso il peso dei loro sguardi. «Mi aveva implorato di non raccontarvelo. Aveva paura della vostra reazione».

«Piantala con le stronzate e dicci cosa è successo», tagliò corto Justin.

Il mattino era stato derubato di tutta la sua luminosità. Un velo di oscurità schermò la luce nel momento esatto in cui cominciò a parlare. Il suo futuro si era incupito. Macchiato. E non avrebbe mai potuto immaginare che i contorni familiari della sua vita non sarebbero mai più stati gli stessi.

Capitolo due

«A Ben’s Shack», disse. «Tre settimane fa. Sono andato lì a prendere Constance». Vide Justin sussultare, colse lo sguardo accigliato che lanciò a Jenna, dall’altra parte del tavolo. Rimasero entrambi in silenzio mentre lui raccontava della telefonata di Constance. Aveva chiamato alle prime ore del mattino. Nicole e Sasha dormivano, lui era ancora al piano di sotto a lavorare al portatile. Farfugliava e diceva cose senza senso, tra un singhiozzo e l’altro, tanto che Karl aveva pensato fosse uno scherzo. Una ragazza ubriaca che preme tasti a casaccio. Stava per chiudere quando aveva riconosciuto la voce di Constance.

«Zio Karl, aiutami, zio Karl, per favore aiutami».

«Calmati», le aveva detto. «Rallenta un attimo e dimmi cosa sta succedendo».

Constance era uscita di casa dopo che i suoi genitori erano andati a letto, era corsa a una festa a Ben’s Shack. Poi la festa era finita e lei era rimasta da sola sulla spiaggia. Le chiavi di casa le erano cadute dalla tasca ed erano scomparse chissà dove in mezzo alla sabbia. L’aveva pregato di andare a prenderla e di portare il suo mazzo di chiavi. Ma non voleva che avvertisse mamma e papà. Se li avesse visti, si sarebbe gettata in mare. La sua voce era alterata, sembrava davvero intenzionata a dare seguito a quella minaccia, così Karl, non sapendo se fosse ubriaca o drogata o tutte e due le cose, aveva preso la macchina e l’aveva raggiunta.

Aveva tagliato per le dune, lungo un sentiero in mezzo alla macchia d’alberi. C’era bassa marea, e il bagnasciuga luccicava alla luce della luna. Ben’s Shack era deserto, ma le braci ancora accese del falò lo avevano guidato da Constance. Era rannicchiata dietro gli scogli, si portava addosso l’odore del vomito, gli occhi lucidi e lo sguardo disorientato.

«Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace così tanto…». Mentre lui la portava via in braccio, aveva piagnucolato per tutto il tragitto. Le gambe secche come due stuzzicadenti, era leggerissima tra le sue braccia. Gli aveva fatto pensare a una bambola di pezza con dei vestiti troppo eccentrici addosso. La minigonna era sollevata ben sopra le cosce, un top attillato e glitterato le fasciava il petto. Un folletto, sospeso sul crinale che divideva un’infanzia capricciosa e densa di pericoli da una sensualità che era sul punto di sbocciare.

In macchina, Constance aveva provato a dargli delle spiegazioni. Faceva parte di una gang, i Fearless. Un gruppo esclusivo in cui ci si sfidava a vicenda a compiere imprese di ogni tipo. Fare graffiti sui muri, lanciare uova contro la porta di un professore, gettare bombe d’acqua contro le macchine, mostrare documenti falsi al pub per ordinare Red Bull e vodka, intrufolarsi al cimitero e scattarsi selfie sdraiati sulle lapidi… Le tremava la voce mentre elencava le sfide che i membri avevano accettato. Ma quando Karl le aveva chiesto dei nomi, era rimasta sul vago. Confessare l’identità di un membro o rifiutare una sfida comportava la cacciata immediata dai Fearless. L’avevano sfidata a rubare una bottiglia di vodka dall’armadietto degli alcolici dei suoi e intrufolarsi a Ben’s Shack.

Aveva mostrato a Karl il video che aveva girato alla festa. Le fiamme di un falò che guizzavano verso l’alto. Un giovane a cavalcioni su uno scoglio che suonava una chitarra. Due ragazze che ballavano insieme, i corpi che si sfioravano, le braccia alzate, le bottiglie in mano. Dovevano avere tutti almeno cinque anni più di lei. Constance aveva confessato di aver girato il video nascosta dietro le rocce, troppo spaventata per unirsi a loro. Si era scattata delle foto mentre buttava giù la vodka, ma l’aveva fatto solo per darsi coraggio. Poi aveva vomitato. La notte era finita nel peggiore dei modi quando si era resa conto di aver perso le chiavi.

«Perdio, Constance. Ho sempre creduto che tu fossi una ragazza giudiziosa». Karl era indignato per la sua avventatezza. «Che cosa diranno i tuoi quando lo verranno a sapere?»

«Per favore, zio Karl, non dirglielo. Promettimi che non glielo dirai mai».

«Non pensarci neanche», aveva risposto lui. «Ho il dovere di farlo. Stanotte poteva finire male».

«Ma io ho chiamato te perché ero sicura che avresti capito». Constance era terrorizzata, singhiozzava, lo implorava, per favoreper favoreper favoreAvrebbe fatto qualsiasi cosa purché lui mantenesse il segreto. «Mi seppelliranno in casa per sempre se lo scoprono. Non hai idea di come sono fatti. Sono così rigidi. Non ricordano cosa significa essere giovani. Ma tu sì».

Karl le aveva detto che doveva lasciare i Fearless. Lei aveva piagnucolato per un po’ e alla fine, quando erano quasi arrivati, aveva promesso che lo avrebbe fatto. Cherrywood Terrace era deserta. Si erano fermati davanti alla casa di Constance.

«Grazie, zio Karl, sei il migliore». Gli aveva gettato le braccia al collo e lo aveva baciato sulle guance. «Vorrei che fossi tu mio padre». Era andata via incespicando sul vialetto, si era voltata per salutarlo, poi era entrata chiudendosi la porta alle spalle.

Nelle settimane seguenti, Karl le aveva ricordato la sua promessa. Lei gli aveva giurato di essere uscita dal gruppo e lui le aveva creduto sulla parola. Ma ora che vedeva crescere l’ansia sul volto dei suoi genitori, il peso di ciò che Constance gli aveva confidato era come un macigno che gli schiacciava il cuore.

«Nostra figlia si è ubriacata, si è imbucata a una festa a Ben’s Shack e tu ce lo hai tenuto nascosto». Jenna sembrava più incredula che arrabbiata.

«È stato stupido da parte mia. Me ne rendo conto», disse Karl. «Ma Constance aveva promesso che non sarebbe successo più. Le ho dato fiducia. Tutti abbiamo fatto delle sciocchezze a…».

«Non a tredici anni». Justin sbatté il pugno sul tavolo. «Gesù Cristo, Karl. Non riesco a crederci!». Nella sua rabbia si sentiva l’eco di vecchi dissapori. Quel tono era sempre lì, proprio sotto la superficie, pronto a riemergere ogni volta che si preparava a fare i conti con l’incoscienza di suo fratello.

«Era terrorizzata dalla vostra reazione».

«Tu avevi la responsabilità di avvertirci! Siamo i suoi genitori. A questo dovevi pensare». Jenna lo fissò con rabbia. «Se Constance si è cacciata in un guaio, non te lo perdonerò mai».

«Non è il momento di litigare», cercò di calmarla Karl. «Ho controllato la spiaggia perché ho pensato che ci fosse stata un’altra festa. Era un’ipotesi un po’ campata in aria e infatti mi sbagliavo. Ma magari ha accettato una nuova sfida. Controlla i suoi messaggi e…».

«Li ho già controllati», disse Jenna. «Non c’è nessuna informazione utile». Mostrò il telefono a Karl. Constance era arrabbiata, inveiva contro i suoi genitori ed era furiosa per il concerto, ma non c’era niente sui Fearless e le loro assurde sfide. Karl studiò le foto, esaminò le date in cui erano state scattate, ma il video che gli aveva mostrato non c’era più.

«Deve averlo cancellato». Restituì il telefono a Jenna. «I suoi amici sanno qualcosa, di sicuro. Prova a richiamare Tracey e Gillian. Secondo me fanno parte del gruppo».

«Se sanno davvero qualcosa, non lo nasconderanno alla polizia». Justin si alzò e si cacciò le mani nelle tasche del giubbotto. «Abbiamo perso anche troppo tempo. Vado alla stazione 

di polizia di Glenmoore a denunciare la sua scomparsa. Tu vieni con me. Racconterai tutto quello che sai di queste sfide».

Alla stazione della Garda Síochána l’agente di turno si era appena versata una tazza di caffè caldo. Ma la lasciò lì accanto al suo gomito a raffreddarsi, mentre ascoltava i dettagli forniti da Justin. Dopo una breve attesa, Justin e Karl vennero fatti accomodare in un ufficio sul retro. Li accolse una donna robusta, con i capelli corti e neri: il sergente Moran. Li invitò a sedersi e subito sparò una raffica di domande a Justin. Constance aveva un ragazzo? Aveva l’abitudine di fare tardi? Aveva dato qualche segnale di inquietudine, mostrato una perdita d’interesse per la scuola? C’erano state discussioni a casa?

«Una specie», ammise Justin.

«Non esistono specie di discussioni, per una tredicenne», disse il sergente. «Qual era il punto?». Stando alla sua espressione cupa, anche lei doveva essere madre di un adolescente, pensò Karl. La sua apprensione cresceva a ogni sguardo della poliziotta.

«Era contrariata perché le abbiamo negato il permesso di andare a un concerto», disse Justin. «È andata a letto alle undici, all’incirca, ma ci siamo resi conto solo stamattina che era scomparsa». Si voltò verso Karl: «Dille perché hai pensato che potesse essere andata alla spiaggia».

Il sergente Moran ascoltò impassibile il racconto di Karl. «Potrebbe benissimo essere una bravata», disse alla fine. «Faremo qualche controllo preliminare negli ospedali e parleremo con i suoi amici più stretti. Appena avremo un quadro più chiaro della situazione vi contatteremo. Nel frattempo, continuate a cercare e chiamateci se ci sono novità».

Nicole era a letto quando Karl rientrò a casa. Era indeciso se svegliarla o no, ma poi decise di lasciarla dormire.

Chiamò in ufficio e si fece passare Barbara Nelson, la sua vicedirettrice. Le spiegò la situazione.

«Qui è tutto sotto controllo», lo rassicurò lei. «Posso cavarmela fino al tuo rientro».

Karl deglutì, la gola improvvisamente secca. «Non so cosa sia successo, Barbara. Non è normale che Constance si sia allontanata senza avvertire i genitori».

«Tornerà presto», disse Barbara. «Anch’io sono scappata di casa una volta, a quattordici anni. Non ricordo neanche perché l’ho fatto. Era il periodo della bulimia o dei furtarelli?». Rise. «Ah, l’adolescenza, Karl. Preferirei ammazzarmi che riviverla. Cento volte meglio la crisi di mezza età».

«Mi sa che hai ragione». La sua ironia fu un sollievo per Karl. «Ti chiamo dopo».

Incapace di starsene con le mani in mano a casa, lasciò un biglietto per Nicole e andò a Glenmoore Woods. Gli alberi formavano delle cupe gallerie sopra di lui e la luce del sole tremolava in mezzo alle chiome. Gridava e gridava il nome di Constance. Da bambino andava sempre a giocare nel bosco. A quei tempi lo conosceva alla perfezione, palmo per palmo. Adesso ogni angolo gli sembrava uguale all’altro. Nessun segno distintivo, nessun punto di riferimento, niente che permettesse di distinguere i vari sentieri tra gli alberi. Pensò a qualche motivo che avrebbe potuto spingere Constance ad andare fin lì. Per incontrare qualcuno, magari. Forse un ragazzo? Si erano baciati, nascosti da qualche parte? Karl prese un bastone e smosse un po’ la vegetazione, sperando di trovare qualcosa, un brandello di vestito, un fermacapelli, una scarpa, una prova che Constance fosse passata da quelle parti. Il fruscio mise in fuga un uccello, che gli sfiorò la faccia con le ali. Si rese conto che sua nipote non sarebbe mai andata lì. Stava soltanto perdendo tempo. Continuò a battere il bosco lo stesso, finché non gli arrivò una telefonata. Era Justin. I gardaí stavano organizzando una spedizione di ricerca. Il sergente Moran voleva parlare di nuovo con Karl. In quel momento era diretta a casa di Justin.

Il sergente sembrava ancora più minacciosa con il giubbotto giallo fluorescente. La sua presenza sembrava risucchiare l’aria dal soggiorno. Con lei c’era un giovane poliziotto, l’agente Finnegan. Avevano contattato gli amici di Constance, disse il sergente. Nessuno di loro aveva mai sentito parlare né di una sfida né dei Fearless. Avevano esaminato le foto sui loro cellulari ma non avevano trovato niente che potesse essere riconducibile agli eventi descritti da Karl.

L’agente più giovane prendeva appunti mentre Karl raccontava dei Fearless. Aveva ben poche informazioni, e vaghe per giunta, e ogni volta che la ripeteva tutta quella storia gli pareva ancora più assurda. Poco dopo arrivò l’agente incaricato dei rapporti con la famiglia. Shauna Robertson era una donna sicura di sé e al tempo stesso gentile, la sua voce sembrava ben allenata a calmare i parenti sconvolti. Era necessario fare delle domande a Matthew e Lara. Sarebbero state poste con grande tatto, li rassicurò Shauna, e in presenza dei genitori. Se si fossero fatti avanti dei giornalisti, l’ufficio stampa della Garda avrebbe saputo gestirli. Bisognava evitare titoloni sensazionalistici che avrebbero potuto spaventare Constance e rendere più difficile la ricerca. Gli agenti se ne andarono poco dopo, portandosi via il cellulare e il portatile di Constance. Jenna li accompagnò alla porta. Tratteneva a stento il terrore.

Davanti alla casa si radunarono i vicini, incuriositi dalla presenza di una pattuglia a Cherrywood Terrace. La notizia cominciava a diffondersi: una ragazza era scomparsa. Una piccola scossa che in breve si sarebbe trasformata in un terremoto. In cucina si formò una piccola folla, tutti volevano abbracciare Jenna e Justin, ribadivano che doveva esserci una spiegazione razionale per la scomparsa di Constance. Sarebbe anche stato inutile perdere tempo a cercarla. Però parlavano tutti troppo in fretta, come per non lasciare spazio a dubbi e timori.

Il campanello suonò di nuovo. Quando Karl aprì la porta si trovò davanti un fotografo, accompagnato da una donna più giovane.

«Buon pomeriggio». Gli occhi della donna si spalancarono, come se fosse sorpresa di vederlo. «Sono Amanda Bowe, di “Capital Eye”», disse. «Posso parlare con Justin o Jenna Lawson?»

«Capital Eye» era un tabloid specializzato in notizie a tinte forti e articoli scandalistici. Il pensiero che quegli avvoltoi potessero piombare su Constance diede il voltastomaco a Karl.

«Mi dispiace», disse, «ma né mio fratello né sua moglie sono disposti a parlare con la stampa».

«Allora forse potrebbe rispondere lei ad alcune domande». La reporter si passò la lingua sui denti, un gesto involontario. Doveva essere sui venticinque anni, ipotizzò Karl. Indossava un tailleur pantalone nero e una camicetta bianca, pareva una raffinata donna d’affari. L’ultimo bottone lasciato aperto sulla scollatura lasciava intravedere un reggiseno in pizzo. Allungò un registratore verso Karl. «È vero che Constance Lawson non era nel suo letto questa mattina quando la madre è entrata in camera sua?»

foto presa dal web

Laura Elliot è lo pseudonimo con cui June Considine, giornalista e scrittrice di libri per bambini, firma i suoi libri per adulti. È nata a Dublino, e vive a Malahide, una città costiera sul lato nord dell’Irlanda. Ha all’attivo romanzi di grande successo. Prima di Colpevole, la Newton Compton ha già pubblicato Non parlare con gli sconosciuti.

 

Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la responsabile editoriale della rivista on-line "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga. Ha conseguito i seguenti corsi di formazione: "Lettura e benessere personale come rimedio dell'anima" " Avvicinare i bambini alla lettura con i racconti di Gianni Rodari"