Buongiorno lettori, sicuramente in molti conoscerete già questo romanzo, è stato pubblicato tanti anni fa.
Ho deciso di riproporlo, perchè è uno di quei romanzi che dopo che li leggi lasciano il segno…
Io l’ho letto molti anni fa prendendolo in prestito dalla biblioteca di un paese, e da allora ho sempre desiderato averlo nella mia libreria, e così un giorno mentre facevo un giretto in un negozio dell’usato “eccolo”, non potevo non prenderlo ,e insieme a questo romanzo ho trovato anche “E l’eco rispose” altra storia ricca di sentimenti…gli altri li ho comprati in libreria 😉
Un romanzo coinvolgente, che emoziona che ci porta a conoscere la vita in Afganistan, ci accompagna alla scoperta di una cultura che incuriosisce e allo stesso tempo sconvolge.
Tutti i romanzi di Khaled Hosseini sono ricchi di sentimenti.
Se non li avete ancora letti, consiglio di leggerli tutti.
Il cacciatore di aquiloni
Autore: Khaled Hosseini
Casa editrice: Piemme
Si dice che il tempo guarisca ogni ferita. Ma, per Amir, il passato è una bestia dai lunghi artigli, pronta a inseguirlo e a riacciuffarlo quando meno se lo aspetta. Sono trascorsi molti anni dal giorno in cui la vita del suo amico Hassan – il ragazzo dal viso di bambola, il cacciatore di aquiloni – è cambiata per sempre in un vicolo di Kabul. Quel giorno, Amir ha commesso una colpa terribile. Così, quando una telefonata inattesa lo raggiunge nella sua casa di San Francisco, capisce di non avere scelta: deve partire, tornare a casa, per trovare il figlio di Hassan e saldare i conti con i propri errori mai espiati. Ma ad attenderlo, a Kabul, non ci sono solo i fantasmi della sua coscienza. C’è un mondo violento, assurdo e sinistro, dove le donne sono invisibili, la bellezza è fuorilegge e gli aquiloni non volano più.
Estratto
Questo libro è dedicato a Haris e Farah,
entrambi noor dei miei occhi,
e ai bambini dell’Afghanistan.
Prefazione
Iniziai a scrivere Il cacciatore di aquiloni nel marzo del 2001 per raccontare a me stesso una storia che aveva messo radici nella mia mente: la storia di due ragazzi, uno tormentato emotivamente e moralmente incerto; l’altro puro, leale, di grande bontà e integrità. Sapevo che la loro amicizia era condannata e che la rottura del loro rapporto avrebbe influenzato in modo profondo la vita di entrambi. La ricerca del perché e del come di questa rottura fu la ragione, lo stimolo che mi guidò nella creazione della storia. Sapevo che dovevo scrivere Il cacciatore di aquiloni, ma pensavo di scriverlo per me stesso.
Potete quindi immaginare il mio sbalordimento di fronte all’accoglienza riservata a questo libro, un volta pubblicato, dai lettori di tutto il mondo. Mi stupisce ricevere le loro lettere – dall’India, dal Sud Africa, da Tel Aviv, da Sidney, da Londra, dall’Arkansas -, in cui mi esprimono il loro entusiasmo. Molti vogliono inviare denaro in Afghanistan; alcuni vogliono addirittura adottare un orfano afghano. Da queste lettere emerge l’eccezionale capacità che ha la scrittura di creare legami tra le persone, e la consapevolezza che alcuni sentimenti umani sono assolutamente universali: vergogna, colpa, rimpianto, amicizia, amore, iperdono, espiazione.
Per molti aspetti la mia infanzia si rispecchia in quella di Amir, quindi da lungo tempo so che la vita ispira e modella la scrittura, ma dopo aver ultimato Il cacciatore di aquiloni, forse ho acquisito una consapevolezza ancora più profonda: di come l’atto creativo possa influenzare la vita dei lettori e persino quella dell’autore. Nel marzo del 2003, quando il romanzo era ormai in bozze, ritornai a Kabul per la prima volta dopo ventisette anni. Benché i primi due terzi de Il cacciatore di aquiloni fossero ispirati alle esperienze della mia famiglia, dapprima in Afghanistan e poi in California, avevo scritto il viaggio di ritorno in patria del protagonista prima di compiere effettivamente io stesso il medesimo percorso. Avevo lasciato l’Afghanistan a undici anni, esile ragazzino che frequentava il settimo anno di scuola primaria; vi ritornavo a trentotto anni, medico, scrittore, marito e padre di due figli.
Sotto questa strana luce, le prime due settimane del mio soggiorno a Kabul mi sembrarono decisamente surreali: quotidianamente scorgevo luoghi e cose che avevo già visto nella mia immaginazione, con gli occhi di Amir. Mi tornarono in mente alcune righe de Il cacciatore di aquiloni, poiché d’un tratto i pensieri di Amir erano diventati i miei: mi stupii di scoprire dentro di me un attaccamento così profondo alla mia terra… Pensavo di averla dimenticata. Ma non era così… Forse neppure l’Afghanistan mi aveva dimenticato.Un vecchio adagio dice che oggetto della scrittura sono le proprie esperienze. Io, invece, stavo per sperimentare nel concreto ciò di cui avevo già scritto.
Ben presto il confine tra i ricordi di Amir e i miei cominciò a offuscarsi. Nelle pagine de Il cacciatore di aquiloni Amir era vissuto dei miei ricordi e ora, sorprendentemente, io mi ritrovavo a vivere dei suoi.
Ma forse l’impatto più sconvolgente tra realtà e finzione m’investì quando ritrovai la casa di mio padre a Wazir Akbar Khan, la casa dove ero cresciuto, così come Amir aveva riscoperto la vecchia casa di Baba in quello stesso quartiere. Mi ci vollero tre giorni di ricerche – non avevo l’indirizzo e la zona era cambiata in modo radicale – ma continuai a cercare, finché, sopra il portone d’ingresso, riconobbi l’arco che ben ricordavo.
Riuscii a ripercorrere gli spazi della mia vecchia casa – i soldati del Panjshir che la occupavano furono tanto gentili da concedermi questo nostalgico tour. Scoprii che, proprio come nella casa d’infanzia di Amir, la pittura alle pareti era sbiadita, l’erba in giardino era avvizzita, gli alberi erano spariti e i muri si stavano sgretolando. E, lo giuro, quando entrai dall’ingresso principale, scorsi sulla pavimentazione del viale d’accesso una chiazza d’olio che sembrava una macchia di Rorschach, proprio come quella che aveva visto Amir sul vialetto della casa di Baba. Mentre ringraziavo e salutavo i soldati, mi resi conto di un’altra cosa: l’emozione nel ritrovare la casa di mio padre sarebbe stata più intensa se non avessi scritto Il cacciatore di aquiloni. Dopo tutto, era un’esperienza che avevo già vissuto. Ero rimasto accanto ad Amir all’ingresso della casa di suo padre e avevo sofferto della sua perdita. L’avevo osservato mentre posava le mani sulle sbarre arrugginite del cancello in ferro battuto, insieme avevamo osservato il tetto imbarcato e i gradini fatiscenti dell’entrata. L’aver scritto quella scena aveva in qualche modo smussato la mia esperienza diretta. Potremmo dire: quando è la Vita ad imitare l’Arte.
Sono passati dieci anni dalla pubblicazione de Il cacciatore di aquiloni. Non ho smesso di amare questo libro. Lo amo come si ama un figlio difficile, turbolento, indisciplinato e un po’ sgraziato, ma in fondo onesto e generoso. E sono ancora sorpreso dall’accoglienza che in questi dieci anni i lettori di tutto il mondo hanno riservato al mio romanzo. Come scrittore, mi emoziona il modo in cui reagiscono alla storia, ai colpi di scena della trama, ai personaggi, al tormentato Amir, oppresso dal senso di colpa, al puro Hassan, destinato a una fine dolorosa. Come afghano, mi sento onorato quando i lettori mi dicono che questo libro li ha aiutati a rendere l’Afghanistan un luogo reale. Che per loro non si identifica più soltanto con le caverne di Tora Bora, le coltivazioni di papavero e Bin Laden. È un grande onore per me quando i lettori mi dicono che questo romanzo li ha aiutati a dare un volto particolare all’Afghanistan e che ora vedono la mia terra natale non più solo come l’ennesimo paese infelice, cronicamente senza pace, tormentato. Spero sia così anche per voi.
Grazie, come sempre, per il vostro sostegno e il vostro incoraggiamento.
Khaled Hosseini
Marzo 2013
Uno
Dicembre 2001
Sono diventato la persona che sono oggi all’età di dodici anni, in una gelida giornata invernale del 1975. Ricordo il momento preciso: ero accovacciato dietro un muro di argilla mezzo diroccato e sbirciavo di nascosto nel vicolo lungo il torrente ghiacciato. È stato tanto tempo fa. Ma non è vero, come dicono molti, che si può seppellire il passato. Il passato si aggrappa con i suoi artigli al presente. Sono ventisei anni che sbircio di nascosto in quel vicolo deserto. Oggi me ne rendo conto.
Nell’estate del 2001 mi telefonò dal Pakistan il mio amico Rahim Khan. Mi chiese di andarlo a trovare. In piedi in cucina, il ricevitore incollato all’orecchio, sapevo che in linea non c’era solo Rahim Khan. C’era anche il mio passato di peccati non espiati. Dopo la telefonata andai a fare una passeggiata intorno al lago Spreckels. Il sole scintillava sull’acqua dove dozzine di barche in miniatura navigavano sospinte da una brezza frizzante.
In cielo due aquiloni rossi con lunghe code azzurre volavano sopra i mulini a vento, fianco a fianco, come occhi che osservassero dall’alto San Francisco, la mia città d’adozione. Improvvisamente sentii la voce di Hassan che mi sussurrava: Per te qualsiasi cosa. Hassan, il cacciatore di aquiloni.
Seduto su una panchina all’ombra di un salice mi tornò in mente una frase che Rahim Khan aveva detto poco prima di riattaccare, quasi un ripensamento. Esiste un modo per tornare a essere buoni. Alzai gli occhi verso i due aquiloni. Pensai ad Hassan. A Baba e ad Ali. A Kabul. Pensai alla mia vita fino a quell’inverno del 1975. Quando tutto era cambiato. E io ero diventato la persona che sono oggi.
Due
Da bambini Hassan e io ci arrampicavamo su uno dei pioppi lungo il vialetto che portava a casa mia e da lassù infastidivamo i vicini riflettendo la luce del sole in un frammento di specchio. Ci sedevamo uno di fronte all’altro su un ramo, le gambe nude a penzoloni, e mangiavamo more di gelso e castagne di cui avevamo sempre le tasche piene. Usavamo il frammento di specchio a turno, ci tiravamo le more e ridevamo come matti. Vedo ancora i raggi di sole che filtrano attraverso il fogliame illuminando il viso di Hassan: perfettamente tondo, come quello di una bambola cinese di legno, con il naso largo e piatto, gli occhi a mandorla, stretti come una foglia di bambù, giallo oro, verdi, o azzurri come zaffiri a seconda della luce. Ricordo le piccole orecchie dall’attaccatura bassa e il mento appuntito, che sembrava un’appendice carnosa, aggiunta al viso in un secondo momento. E quel labbro spezzato, un errore del fabbricante di bambole, cui forse era sfuggito lo scalpello, per stanchezza o disattenzione.
Talvolta, mentre ce ne stavamo nascosti sugli alberi, proponevo ad Hassan di estrarre la sua fionda e mitragliare di castagne il pastore tedesco del nostro vicino. Lui non voleva mai, ma se io glielo chiedevo, glielo chiedevo veramente, cedeva. Non mi avrebbe mai rifiutato nulla. E la sua fionda era infallibile. Quando suo padre Ali ci scopriva, si arrabbiava – per quanto si potesse arrabbiare una persona gentile come lui – e minacciandoci con il dito ci faceva scendere dall’albero. Poi ci requisiva lo specchio e ci ripeteva quello che sua madre diceva a lui quando era piccolo: che anche il diavolo usa gli specchi per distrarre i musulmani dalla preghiera. «E ride mentre lo fa» aggiungeva sempre, guardando severamente il figlio.
«Sì, padre» balbettava Hassan con gli occhi a terra. Ma non mi ha mai tradito. Non ha mai confessato che tanto lo specchio quanto le castagne erano idee mie.
Il vialetto di mattoni rossi che conduceva al cancello in ferro battuto continuava all’interno della proprietà di mio padre, terminando nel giardino sul retro della casa.
Tutti ritenevano che casa nostra, la casa di Baba, fosse la più bella di Wazir Akbar Khan, un quartiere nuovo e ricco nella zona nord di Kabul. C’era addirittura chi pensava che fosse la più bella della città. Il vialetto d’accesso, fiancheggiato da cespugli di rose, conduceva a una grande costruzione con pavimenti in marmo e finestre immense.
Il pavimento dei quattro bagni era rivestito da intricati mosaici di piastrelle, scelte personalmente da Baba a Isfahan. Alle pareti delle stanze erano appesi arazzi intessuti con fili d’oro, che Baba aveva acquistato a Calcutta.
Al piano superiore c’erano la mia camera da letto, quella di Baba e il suo studio, chiamato anche la “stanza del fumo”, che profumava sempre di tabacco e cannella. Baba e i suoi amici se ne stavano lì, dopo cena, sdraiati sulle poltrone di pelle nera. Caricavano le pipe – Baba diceva “rimpinzare” – e discutevano dei loro tre argomenti preferiti: politica, affari, calcio. A volte chiedevo a Baba il permesso di rimanere con loro, ma lui ogni volta mi rispondeva: «Questo è il momento degli adulti. Perché non vai a leggere un libro?». Poi chiudeva la porta lasciandomi solo a domandarmi perché con lui fosse sempre il momento degli adulti. Mi sedevo in corridoio, le ginocchia piegate contro il petto, e a volte rimanevo lì un’ora, anche due, ad ascoltare chiacchiere e risate.
Il soggiorno al pianterreno aveva una parete curvilinea con mobili costruiti su misura. Sui muri immagini di famiglia. Una vecchia foto sgranata del nonno con re Nadir Shah, del 1931, due anni prima che il sovrano venisse assassinato: stivali da caccia, fucile in spalla e ai loro piedi un cervo abbattuto. C’era una foto del matrimonio dei miei genitori: mio padre elegantissimo nel suo completo nero, mia madre una giovane e sorridente principessa in bianco. In un’altra foto mio padre e il suo migliore amico e socio in affari, Rahim Khan, ritratti all’esterno della casa. Nessuno dei due sorride. Ci sono anch’io, in braccio a mio padre che ha l’aria stanca e triste. Le mie dita stringono il mignolo di Rahim Khan.
Di fianco al soggiorno c’era la sala da pranzo. Dal soffitto a volte pendeva un lampadario di cristallo e al centro della stanza c’era un tavolo di mogano intorno al quale potevano sedersi una trentina di invitati – cosa che, dato che mio padre amava dare feste sontuose, accadeva quasi ogni settimana. Sulla parete di fronte alla porta c’era un imponente camino di marmo che per tutto l’inverno splendeva di fiamme rosso-arancio.
Attraverso un’ampia porta scorrevole in vetro si accedeva a una terrazza semicircolare che dava su un prato con alcune file di ciliegi. Lungo il muro orientale Baba e Ali avevano seminato un piccolo orto con pomodori, peperoni, menta e del granturco che non attecchì mai. Io e Hassan lo chiamavamo “il muro del mais malato”.
All’estremità meridionale del giardino, all’ombra di un nespolo, c’era la casa dei domestici, una capanna di argilla dove abitavano Hassan e Ali e dove io, nei diciotto anni in cui vissi lì, entrai pochissime volte. Era una stanza spoglia ma pulita, male illuminata da due lampade al cherosene e arredata con due materassi appoggiati alle pareti, uno di fronte all’altro, un vecchio tappeto di Herat con i bordi sfilacciati, uno sgabello a tre gambe e, in un angolo, un tavolo dove Hassan disegnava. Appeso al muro, solo un piccolo arazzo con le parole Allah-u-akbar, ricamate a perline, che Baba aveva regalato ad Ali di ritorno da uno dei suoi viaggi a Mashad.
Era in quella capannuccia che Sanaubar, la madre di Hassan, l’aveva messo al mondo nell’inverno del 1964. Mentre mia madre era morta dandomi alla luce, Hassan aveva perso la sua una settimana dopo la nascita, in un modo che per un afghano è peggio della morte: Sanaubar era fuggita con una compagnia di ballerini e cantanti girovaghi.
Hassan non parlava mai di lei, come se non fosse mai esistita. Mi chiedevo se la sognava, se immaginava che aspetto avesse e dove si trovasse. Mi domandavo se desiderava incontrarla. Provava anche lui la nostalgia struggente che provavo io per la madre che non avevo mai conosciuto?
Un giorno, mentre andavamo al cinema Zainab a vedere un nuovo film iraniano, prendemmo la scorciatoia che attraversava la caserma vicino alla scuola media Istiqlal. Baba ce l’aveva severamente proibito, ma in quel periodo si trovava in Pakistan con Rahim Khan. Scavalcammo lo steccato che circondava la caserma, superammo un torrente e sbucammo in uno spiazzo di terra battuta dove arrugginivano vecchi carri armati abbandonati. Alcuni soldati giocavano a carte e fumavano all’ombra di uno di quei relitti. Uno ci scorse e, dando di gomito al suo vicino, chiamò Hassan.
«Ehi, tu. Io ti conosco.»
Non l’avevamo mai visto prima. Era un uomo tarchiato con la testa rasata e una barba nera di qualche giorno. Il modo in cui ci guardava, con un sorriso lascivo, mi spaventò. «Non fermarti» dissi tra i denti.
«Ehi, hazara! Guardami in faccia quando ti parlo!» gli urlò il soldato. Passò la sigaretta al suo vicino, unì indice e pollice della mano destra e infilò il medio della sinistra in quel cerchietto. Dentro e fuori. Dentro e fuori. «Ho conosciuto tua madre, lo sapevi? L’ho conosciuta proprio bene. L’ho presa da dietro laggiù, vicino al torrente.»
I soldati scoppiarono in una risata. Uno fischiò. «Non fermarti, non fermarti» ripetei.
«Che fica stretta e zuccherosa aveva!» diceva ghignando il soldato, mentre i suoi camerati gli stringevano la mano. Più tardi, nel buio del cinema, sentii Hassan singhiozzare. Le sue guance erano rigate di lacrime. Lo attirai a me. Lui appoggiò la testa sulla mia spalla. «Ti ha scambiato per qualcun altro» sussurrai. «Ti ha scambiato per qualcun altro.»
Nessuno si era stupito quando Sanaubar era scappata, ma tutti erano rimasti perplessi quando Ali, che sapeva il Corano a memoria, aveva sposato quella donna bella e senza scrupoli, che aveva diciannove anni meno di lui e una pessima reputazione. Come Ali, Sanaubar era una sciita di etnia hazara, ed essendo sua prima cugina era naturale che lui l’avesse chiesta in moglie. Tuttavia, i due non avevano niente in comune. Si vociferava che i lucenti occhi verdi e il sorriso malizioso della ragazza avessero indotto al peccato innumerevoli uomini e che il sensuale ondeggiare dei suoi fianchi evocasse fantasticherie di infedeltà.
Ali, invece, aveva una paralisi ai muscoli della mascella, che gli impediva di sorridere. Aveva un’espressione perennemente cupa, ma talvolta i suoi occhi a mandorla si illuminavano in un sorriso o si spegnevano nel dolore. Si dice che gli occhi siano lo specchio dell’anima, niente era più vero per Ali, che solo attraverso gli occhi rivelava se stesso.
Inoltre la poliomielite gli aveva atrofizzato la gamba destra, rendendo la massa muscolare sottile come un foglio di carta. Ricordo che un giorno, avevo circa otto anni, mi aveva portato con sé al bazar per comperare del naan. Camminavo dietro di lui canterellando e lo guardavo procedere faticosamente, sollevando la gamba scheletrica che descriveva un ampio arco prima di posarsi a terra, mentre lui spostava tutto il peso del corpo sulla sinistra. Era un miracolo che non cadesse a ogni passo. Quando provai a imitarlo per poco non andai a finire nel fango. Ridacchiai e Ali si girò, ma non disse niente. Né allora né mai. Continuò a camminare.
La faccia e l’andatura di Ali spaventavano i bambini più piccoli del quartiere, ma quelli più grandi lo seguivano canzonandolo mentre arrancava per le strade. «Ehi, Babalu, chi hai mangiato oggi?» lo apostrofavano in un coro di risate. «Chi hai mangiato oggi, Nasopiatto?»
Ali aveva i tratti mongolici caratteristici degli hazara. Per anni tutto ciò che avevo saputo di loro era che discendevano dai mongoli e che assomigliavano ai cinesi. I libri di testo quasi non ne parlavano. Poi, un giorno, nello studio di Baba, trovai un vecchio libro di storia di mia madre, scritto da un iraniano. Quella sera, a letto, lo lessi e fui sorpreso di trovare un intero capitolo sugli hazara. Un intero capitolo dedicato alla popolazione di Hassan! Scoprii che la mia gente, i pashtun, li aveva perseguitati e oppressi. Da secoli, periodicamente, gli hazara cercavano di ribellarsi, ma i pashtun “li reprimevano con inaudita violenza”. Il libro diceva che la mia gente li aveva uccisi, torturati, aveva bruciato le loro case e venduto le loro donne. E una delle ragioni era che loro erano sciiti e noi sunniti. Il libro diceva cose che nessuno mi aveva mai detto. Ma anche cose che io sapevo benissimo, per esempio che gli hazara erano chiamati nasipiatti, mangiaratti, asini da soma.
La settimana seguente mostrai al mio maestro il libro. Scorse in fretta un paio di pagine e me lo restituì con un sorrisetto di sufficienza. «Se c’è una cosa che gli sciiti sanno fare bene è passare per martiri.» E quando pronunciò la parola “sciiti” fece una smorfia, come se si trattasse di una malattia infettiva.
Nonostante Sanaubar appartenesse alla stessa etnia e addirittura alla stessa famiglia di Ali, non esitava a unirsi ai ragazzini nel dileggiare il marito.
La gente finì per sospettare che il matrimonio fosse stato combinato tra Ali e suo zio, il padre di Sanaubar, per restituire una parvenza di dignità al nome della famiglia che la ragazza aveva spudoratamente macchiato.
Ali non si vendicò mai dei suoi aguzzini, non solo perché non era in grado di acciuffarli, ma soprattutto perché era impermeabile agli insulti. Aveva trovato la gioia e un antidoto al dolore con la nascita di Hassan. Il parto era andato liscio come l’olio. Nessuna ostetrica, nessun anestesista, nessun sofisticato strumento di monitoraggio. Sanaubar, stesa su un materasso, aveva partorito con l’aiuto di Ali e di una levatrice. In realtà non aveva avuto bisogno di grande assistenza, perché sin dalla nascita Hassan aveva dato prova della sua vera natura, della sua incapacità a fare del male. Qualche grido, un paio di spinte e Hassan era venuto al mondo. Con un sorriso.
Secondo la confidenza che l’indiscreta levatrice aveva fatto alla serva di un vicino, Sanaubar aveva dato un’occhiata al neonato che Ali teneva in braccio e, visto il taglio sul labbro, era scoppiata in una risata sarcastica.
«Ecco,» aveva detto «ora hai questo idiota di figlio che sorriderà al posto tuo!» Si era rifiutata persino di prendere in braccio il piccolo. Cinque giorni dopo era sparita.
Baba aveva assunto la stessa balia che aveva allattato me. Ali ci aveva raccontato che era una donna hazara con gli occhi azzurri, originaria di Bamiyan, la città con le colossali statue dei Buddha. «Cantava con una voce dolcissima» ci diceva.
Nonostante conoscessimo già la risposta, Hassan e io gli chiedevamo: «Che cosa ci cantava?». Allora Ali si schiariva la voce e iniziava:
Sulla cima di un’alta montagna
gridai il nome di Ali, Leone di Dio.
Oh, Ali, Leone di Dio, Signore degli Uomini,
rallegra i nostri cuori dolenti.
Poi ci ripeteva che c’era una fratellanza tra chi si era nutrito allo stesso seno, una parentela che neppure il tempo poteva spezzare.
Hassan e io avevamo succhiato lo stesso latte, avevamo mosso i primi passi sullo stesso prato e avevamo pronunciato le prime parole sotto lo stesso tetto.
La mia fu Baba.
La sua Amir, il mio nome.
Ripensandoci ora, credo che le radici di ciò che accadde nell’inverno del 1975 – e di tutto ciò che ne seguì – affondassero già in quelle prime parole.
Tre
Secondo una leggenda familiare, una volta, in Belucistan, mio padre aveva lottato a mani nude con un orso bruno. Se questa storia avesse riguardato un’altra persona sarebbe stata giudicata laaf, la tipica tendenza all’esagerazione degli afghani. Ma nessuno avrebbe messo in dubbio un racconto di cui fosse protagonista Baba. E in ogni caso lui aveva la schiena solcata da tre cicatrici parallele. Ho ricostruito quella fantasia nella mente innumerevoli volte. L’ho persino sognata. E nei sogni non riuscivo mai a distinguere l’orso da Baba.
Era stato Rahim Khan a dargli il soprannome con cui poi Baba divenne famoso: Toophan agha, Mister Uragano. Mio padre infatti era una forza della natura, un gigantesco esemplare di pashtun, con una massa di capelli castani ribelli al pari di lui e mani che sembravano capaci di sradicare un salice. Come diceva Rahim Khan, con lo sguardo dei suoi occhi neri avrebbe costretto «il diavolo a chiedere misericordia in ginocchio». Quando faceva il suo ingresso alle feste, tutti si voltavano verso i suoi due metri di altezza come girasoli.
Era impossibile ignorare Baba, anche quando dormiva. Benché io mi tappassi le orecchie con batuffoli di cotone e mi tirassi la coperta fin sulla testa, lo sentivo russare attraverso le pareti. È un mistero come mia madre riuscisse a dormire con lui.
Verso la fine degli anni Sessanta, quando io avevo cinque o sei anni, Baba decise di costruire un orfanotrofio. Rahim Khan mi ha raccontato che fu lui stesso a stendere il progetto, benché non avesse nessuna esperienza in materia. Gli scettici gli consigliarono di affidarsi a un architetto. Naturalmente Baba rifiutò ogni consiglio sensato e agli amici non rimase che scuotere la testa preoccupati. Quando l’edificio fu terminato, però, tutti ammirarono il trionfo della sua ostinazione. Rahim Khan mi ha detto che Baba aveva finanziato l’intero progetto, pagando di tasca sua ingegneri, elettricisti, idraulici e muratori. Per non parlare dei funzionari municipali che aveva dovuto “ungere”.
La costruzione dell’orfanotrofio durò tre anni. La vigilia dell’inaugurazione Baba mi portò al lago Ghargha, qualche chilometro a nord di Kabul. Mi propose di invitare Hassan, ma io mentii e gli dissi che il mio amico non poteva venire, perché aveva la diarrea. Volevo Baba tutto per me. E poi, una volta, su quello stesso lago, Hassan aveva lanciato un sasso che aveva fatto otto rimbalzi, mentre io non ero riuscito a farne più di cinque. Baba aveva battuto la sua manona sulla spalla di Hassan e l’aveva persino abbracciato.
Sedemmo a un tavolo da picnic sulla riva del lago, noi due soli, e ci mettemmo a mangiare uova sode e kofta, polpette di carne con sottaceti, avvolte nel naan. Di venerdì le rive erano affollate, ma quel giorno gli unici nostri compagni erano un paio di turisti, capelloni e barbuti. Erano seduti sul molo, una canna da pesca in mano e i piedi nell’acqua. Chiesi a Baba perché si lasciassero crescere i capelli, ma lui rispose solo con una specie di grugnito. Stava preparando il suo discorso per il giorno seguente. Leggeva e rileggeva una pila di fogli scritti a mano, aggiungendo qua e là un appunto a matita. Diedi un morso al mio uovo e gli chiesi se era vero, come mi aveva detto un mio compagno di scuola, che se inghiottivi un pezzo di guscio poi lo facevi con la pipì. Grugnì di nuovo.
«Penso di avere un saratan» dissi. Un cancro. Allora Baba alzò gli occhi dai fogli e mi disse di andare a prendere l’acqua tonica nel baule della macchina.
Il giorno dopo, all’esterno dell’orfanotrofio, c’era così tanta gente che molti rimasero in piedi. C’era vento. Io mi sedetti sulla piccola pedana davanti all’ingresso principale dietro Baba, che indossava un abito verde e un cappello di astrakan. A metà del discorso il vento gli fece volar via il cappello e tutti risero. Mi fece segno di andare a recuperarlo e io ne fui felice, perché così tutti avrebbero capito che era il mio Baba. Riprese il microfono dicendo che sperava che l’orfanotrofio si dimostrasse più saldo del suo cappello e tutti risero ancora.
Alla fine del discorso ci fu un lungo applauso. Molti gli strinsero la mano. Alcuni la strinsero anche a me. Ero orgoglioso di lui, di noi due.
Nonostante i suoi successi, però, molti dubitavano di Baba. Alcuni sostenevano che avrebbe dovuto studiare legge come aveva fatto suo padre e che non era tagliato per il commercio. Così lui dimostrò loro che avevano torto: non solo divenne un commerciante, ma diventò anche uno dei più ricchi di Kabul. Baba e Rahim Khan aprirono una ditta di esportazione di tappeti, due farmacie e un ristorante. Tutte imprese di grande successo.
La gente lo prendeva in giro dicendo che non avrebbe mai fatto un matrimonio di rango – dopo tutto non aveva sangue reale nelle vene –, ma Baba sposò mia madre, Sofia Akrami, una donna molto colta, da tutti considerata tra le nobildonne più belle, virtuose e rispettate di Kabul. Non solo insegnava letteratura persiana classica all’università, ma era una discendente della famiglia reale, un fatto che mio padre si divertiva a buttare in faccia agli scettici chiamandola “la mia principessa”.
Baba amava modellare il mondo attorno a sé secondo i propri gusti. Io rappresentavo una clamorosa eccezione. Il problema era che mio padre vedeva il mondo in bianco e nero. Ed era lui a decidere cos’era bianco e cos’era nero. Non si può amare una persona così senza temerla. Forse nemmeno senza odiarla un po’.
Quando frequentavo la quinta elementare alla Scuola Istiqlal, avevo un mullah che ci insegnava religione. Si chiamava Mullah Fatiullah Khan, un uomo piccolo e tarchiato con la faccia piena di cicatrici da acne e una voce sgradevole. Ci insegnava le virtù della zakat, il dovere del hadj e il complesso rituale delle cinque preghiere quotidiane, il namaz. Ci faceva imparare a memoria versetti del Corano e, nonostante non ci traducesse mai il testo, pretendeva, spesso aiutandosi con una bacchetta di salice, che pronunciassimo correttamente le parole arabe «perché Dio le possa sentire meglio». Un giorno ci disse che l’Islam considerava il bere alcolici un peccato terribile. I bevitori avrebbero dovuto rispondere del loro peccato nel giorno della Qiyamat, il Giudizio Universale. A quel tempo a Kabul erano in molti a consumare alcolici regolarmente. E benché non fosse prevista la fustigazione pubblica, gli afghani lo facevano in privato, per rispetto delle convenzioni. Lo scotch era reperibile come “medicina” presso speciali “farmacie”, dove veniva venduto avvolto in sacchetti di carta marrone.
Un giorno, nello studio di Baba, gli raccontai ciò che ci aveva insegnato il Mullah Fatiullah Khan. Si stava versando un whisky. Ascoltò, fece un cenno di assenso, bevve un sorso, poi si sedette sul divano di pelle, mise il bicchiere sul tavolo e mi prese sulle sue ginocchia. Inspirò profondamente ed espirò dal naso con un sibilo che parve durare un’eternità. Non sapevo se abbracciarlo o darmi alla fuga.
«Vedo che hai confuso quello che ti insegnano a scuola con l’educazione vera e propria» esordì con la sua voce pastosa.
«Se quello che mi ha detto il mullah è vero, tu sei un peccatore, Baba?»
«Mmh!» Frantumò un cubetto di ghiaccio con i denti. «Vuoi sapere che cosa pensa tuo padre del peccato? …
Foto presa dal web
Khaled Hosseini, figlio di un diplomatico e di un’insegnante, è nato a Kabul, in Afghanistan, nel 1965 e si è trasferito in seguito negli Stati Uniti, dove prima di dedicarsi alla scrittura ha lavorato come medico. Il suo primo libro, Il cacciatore di aquiloni, pubblicato nel 2003, è divenuto un caso editoriale internazionale, rimasto per oltre cinque anni nella bestseller list del New York Times, pubblicato in 70 Paesi con 23 milioni di copie vendute. Un successo replicato con il secondo romanzo, Mille splendidi soli (2007), che ha confermato Hosseini come uno fra i più letti e apprezzati autori contemporanei. Dopo un viaggio in Afghanistan come volontario dell’UNHCR (l’Agenzia per i Rifugiati delle Nazioni Unite), lo scrittore ha dato vita alla Khaled Hosseini Foundation, un ente non profit che fornisce aiuto umanitario alla popolazione afgana.
Vive con la moglie e i due figli a San José, in California.
Ebook a 7,99