Audrey Hepburn “Sotto un cielo di stelle”

Un romanzo toccante e avvincente in cui si svela la storia di un’icona del cinema mondiale.
Olanda, 1944.
La danza è l’unica cosa che distrae la giovane Audrey dagli orrori della guerra e dai morsi della fame. Sogna di diventare una prima ballerina, ma una dopo l’altra le sue compagne di ballo, sempre più magre e deboli, si ritirano fino a che la scuola non decide di chiudere. È il momento più cupo di quegli anni difficili, con il padre filonazista che li ha abbandonati e i fratelli lontani impegnati nella Resistenza. Un giorno, però, fuori da casa compaiono due soldati che hanno qualcosa di diverso: parlano inglese, la lingua paterna che per anni non ha potuto usare, e le porgono un regalo tanto prezioso quanto raro: una tavoletta di cioccolato. Gli alleati sono finalmente sbarcati e stanno liberando l’Europa dai tedeschi. Ha così inizio una nuova vita fatta di passione, sacrifici e grande determinazione che dai teatri di Londra la porterà fino a Broadway. Una scalata verso il firmamento di Hollywood, tra i vari successi che l’hanno resa iconica, a partire dal ruolo in Vacanze romane che le vale l’Oscar come migliore attrice nel 1954. Ma dietro la notorietà e i film accanto a grandi interpreti come Gregory Peck e Humphrey Bogart e oltre lo scintillio della star, si nasconde una ragazza fragile e introversa, che continua a scegliere l’uomo sbagliato. Malinconica e sognante, raffinata ed efebica: per tutti è l’indimenticabile protagonista di Colazione da Tiffany. Ma chi era la vera Audrey?

I was born with an enormous need for affection,
and a terrible need to give it.

Sono nata con un enorme bisogno di affetto
e un terribile bisogno di donarlo.

Audrey Hepburn

Prologo

Bruxelles, maggio 1935

Audrey era rannicchiata nell’armadio della sua cameretta e stringeva forte il peluche che, dopo innumerevoli notti trascorse a letto insieme, era ormai completamente logoro. La scimmietta era un regalo di suo padre Joseph, l’unico di cui lei avesse ricordo nei suoi primi sei anni di vita. Il padre gliel’aveva regalata di ritorno da un viaggio di lavoro.

«Mi ha fatto pensare a te, scimmietta. Ha grandi occhi marroni come i tuoi» le aveva detto, spettinandole i corti capelli castani e tornando poi ai suoi affari. Quel gesto l’aveva sorpresa. Di solito suo padre le riservava per lo più un freddo riserbo, così come ai suoi fratelli maggiori, Alex e Ian.

«Vorrei non dover più chiedere soldi a mio padre!» sentì sibilare sua madre Ella dal salotto accanto. «Come glielo spiego che siamo di nuovo a corto di soldi, quando in realtà in banca guadagni abbastanza bene, Joseph?»

Audrey trasalì nel sentire il padre rispondere in tono di scherno: «Sarebbe indegno per la baronessa Ella van Heemstra chiedere un piccolo contributo a suo padre? Non te lo negherà mai, sai che stravede per te».

«Sei un irresponsabile!» gli gridò Ella. La sua voce fremeva di rabbia repressa. Audrey si premette le ginocchia piegate contro le orecchie. Per lei era terribile sentire sua madre, di solito sempre così posata e composta, perdere il controllo in quel modo.

La risposta del padre si ridusse a un lieve mormorio, che Audrey non riuscì a comprendere dall’armadio. Per un po’ sentì solo i passi della madre sulle assi scricchiolanti del pavimento del salotto.

«Come osi sperperare il nostro, anzi il mio, patrimonio!» La voce di Ella si fece ancora più forte e Audrey rabbrividì. Avrebbe tanto voluto che i suoi fratelli fossero a casa, si sentiva così sola e smarrita. I suoi genitori litigavano spesso, ma mai con tanto risentimento.

«E poi… e poi non mi piace affatto il modo in cui continui a simpatizzare con questo movimento nazionalsocialista.»

Ora le parole di suo padre si fecero di nuovo chiare, irrompendo nell’armadio di Audrey. Tesa, la bambina affondò il naso nella pelliccia della scimmietta.

«Smettila, Ella» disse Joseph, con voce pericolosamente pacata. «Anche tu credevi che questo movimento fosse ragionevole. Chiunque sia dotato di un po’ di buon senso la pensa così.»

«Sì, all’inizio alcuni punti di questa ideologia mi sembravano condivisibili» ammise Ella. «Ma ora sento il bisogno di dissociarmene sempre di più. L’ideologia nazista è troppo inumana per me.»

Audrey giocherellava con gli orli dei suoi vestiti, che erano appesi sopra di lei e le sfioravano la testa. Non capiva di cosa stessero parlando i genitori, usavano troppe parole sconosciute.

«E il tuo odio per gli ebrei» balbettò Ella «per i cattolici, i neri… mi fa paura, Joseph.»

Della risposta del padre Audrey riuscì a cogliere solo frammenti incomprensibili. I suoi genitori parlarono per un bel po’, con più calma e a voce più bassa di prima. Audrey sperava che il loro litigio si fosse finalmente concluso, quando improvvisamente sentì uno stridio di sedie e un fragoroso tonfo. Spaventata, trattenne il fiato, stringendo la scimmietta talmente forte da appiattirla quasi completamente. La porta del salotto si aprì, e Audrey sentì dei passi energici dirigersi verso il portone d’ingresso.

Lasciò cadere la scimmietta, spinse l’anta dell’armadio e si precipitò alla finestra, colta da un cattivo presentimento. Appena sentì il portone chiudersi al piano di sotto, prese uno sgabello, vi salì sopra e aprì la finestra. Si sentì gelare il sangue nelle vene quando vide suo padre scendere i gradini di casa con una valigia in mano.

«Papà!» gridò con voce strozzata. Poi, visto che lui non sembrava sentirla, urlò con più forza: «Papà!».

Joseph si fermò, con la valigia in mano, e si voltò verso di lei. I suoi occhi freddi e inespressivi si posarono sulla figlia, poi si voltò e si allontanò senza dire una parola.

Gli occhi terrorizzati di Audrey si riempirono di lacrime. «Papà!» piagnucolò di nuovo, ma lui non si voltò.

Per molto tempo, anche dopo che l’uomo scomparve dalla sua vista, Audrey rimase in piedi sullo sgabello a piangere.

Aveva il cuore spezzato e la vaga sensazione che la sua vita non sarebbe mai più stata la stessa.

Sua madre aprì silenziosamente la porta ed entrò nella cameretta, anche lei in lacrime. Strinse sua figlia tra le braccia e per un po’ rimasero così in silenzio, prigioniere della medesima infelicità.

«Tornerà?» sussurrò Audrey.

Ella scosse la testa e si morse le labbra.

«No, mia cara. Se n’è andato.»

«Ma dove va?»

Sua madre fece un vago cenno con la mano.

«Non lo so. Forse a Londra, nella sua vecchia casa.»

Tirò fuori un fazzoletto ricamato e si asciugò le lacrime.

«Che ne sarà di noi? Senza un padre?» sussurrò Audrey.

Ella la abbracciò di nuovo e la bimba capì, dalla stretta della madre, che sarebbe tornata a essere la solita donna energica e volitiva di sempre, che non tollerava alcuna emozione. «Ce la caveremo da soli, Audrey. Tu, io e i tuoi fratelli.»

Poi le porse il fazzoletto. «Ora asciugati le lacrime. Non voglio che la cameriera ci veda in questo stato.»

Audrey obbedì e si asciugò le guance, prese la sua scimmietta e ci affondò dentro la faccia. Si sentiva stordita. La sensazione che da quel momento in poi nella sua vita le sarebbe sempre mancata una grossa fetta d’amore si fece più intensa, e non l’avrebbe mai più abbandonata.

PARTE I

BOMBE E BALLETTO

1944-45

On the one hand maybe I’ve remained infantile, while on the
other I matured quickly, because at a very young age I was
very aware of suffering and fear.

Da un lato forse sono rimasta infantile, mentre dall’altro
sono maturata rapidamente, perché in giovane età ero molto
consapevole della sofferenza e della paura.

Audrey Hepburn

1

Maggio 1944

Due aerei tuonarono sopra Arnhem, facendo tremare le vetrate a piombo della sala da ballo del conservatorio. Le ragazze continuarono a ballare come se niente fosse. Erano abituate a sentire il rombo degli aerei da guerra sovrastare la musica del grammofono.

«Un, deux, trois» ripeteva tranquillamente Madame Marova «un, deux, trois, allongé…» Indossava un abito lungo e fluttuante e un paio di logore scarpette da ballo, risalenti a prima della guerra. Camminava lungo la fila di ragazze alla sbarra correggendo qua e là, con dolcezza, la posizione di un braccio o l’inclinazione di una testa. «La mano verso l’esterno, Frida. Femke, i piedi! I piedi!»

Le ragazze facevano del loro meglio per accontentare Madame Marova. Era severa ma molto affettuosa, e una vera autorità del conservatorio di Arnhem, anche se le sue condizioni di lavoro erano peggiorate di mese in mese. Da quattro anni l’Olanda si trovava sotto l’occupazione tedesca. La popolazione viveva nella paura, chiunque conosceva almeno un concittadino che era stato fucilato dai tedeschi per presunti reati di qualsiasi tipo. Molte allieve di danza classica non osavano quasi più uscire di casa e non andavano più a lezione. Inoltre il cibo scarseggiava, le ragazze che continuavano a frequentare i corsi erano secche come chiodi, alcune addirittura pelle e ossa.

Madame Marova raggiunse la fine della fila. «Molto bene, Edda» si complimentò, e lasciò per un attimo il suo sguardo posarsi sulla quindicenne completamente assorbita dai suoi movimenti.

Audrey trasalì. Non riusciva ancora ad abituarsi a quel nome, Edda, anche se ormai la chiamavano così dall’inizio dell’occupazione tedesca, sia a scuola che al conservatorio. Sua madre aveva insistito molto su quel punto, quando allo scoppio della guerra si erano trasferiti in Olanda per andare a vivere dai nonni.

«Audrey è assolutamente troppo britannico» aveva detto Ella, squadrandola dalla testa ai piedi. «Purtroppo all’epoca è stato tuo padre a insistere per un nome inglese. Ma di questi tempi non possiamo correre il rischio di chiamarti così. I tedeschi odiano tutto ciò che è britannico. E se scoprissero che sei mezza inglese potrebbero portarti via.»

Da allora la mente di Audrey si era riempita di scene terribili che le tormentavano il sonno; in diverse occasioni aveva visto madri e bambini, anche intere famiglie ebree, trascinati fuori dalle loro case, stipati nei camion e condotti alla stazione ferroviaria per essere poi deportati in Germania. Nessuno ne parlava pubblicamente, ma era chiaro a tutti che quelle famiglie non sarebbero mai più tornate. Così le era sembrato prudente cambiare il suo nome in uno olandese, e da quel momento in poi Audrey era conosciuta da tutti come Edda.

«Hai fatto molti progressi negli ultimi mesi» le sussurrò l’insegnante, probabilmente con un filo di voce per evitare di far ingelosire le altre ragazze. In quel periodo il balletto era l’unica cosa che le permettesse di evadere per un’ora dalla sua tetra quotidianità.

«Penso che potresti diventare una vera prima ballerina!»

Audrey arrossì di gioia per i complimenti e, seguendo le successive istruzioni dell’insegnante, posò con grazia la gamba sulla sbarra. Si morse le labbra quando le cadde lo sguardo sui suoi collant bianchi, rammendati in più punti. Non c’era nulla di cui vergognarsi, anche alle altre ragazze mancava di tutto. Molte indossavano tutù pieni di piccoli buchi, altre avevano scarpette di fortuna, eppure Audrey desiderava che non fosse così.

«Un, deux, trois, demi-plié…»

Chiuse gli occhi e si abbandonò alle note del grammofono. Si rifugiò in un mondo sfavillante, immaginò di essere una prima ballerina con un tutù bianco come la neve a balze morbide, un paio di impeccabili scarpette da punta e fiori bianchi nei capelli castani, intenta a ballare sul palco nella parte di Odette del Lago dei cigni. Quella era la sua unica via di fuga dalla quotidianità tormentata dalla guerra, il suo sogno, che perseguiva ogniqualvolta voleva distrarsi dallo stomaco che brontolava o dalla paura per i due fratelli maggiori. Alex si nascondeva da qualche parte in clandestinità, e Ian era stato deportato in Germania per i lavori forzati, sotto gli occhi scioccati della famiglia.

Audrey fu colta da un leggero capogiro mentre si rialzava per passare alla posizione successiva, ma dietro le palpebre chiuse continuava a immaginarsi come una celebre ballerina che si godeva lo scroscio di applausi.

«Che cos’hai, Edda?» La voce preoccupata di Madame Marova le giunse all’orecchio. «Non ti senti bene?»

Audrey aprì gli occhi e sbatté le palpebre per scacciare via le vertigini. «No, tutto bene.» Se avesse ammesso quanto si sentiva debole, Madame Marova le avrebbe fatto interrompere le lezioni.

«Per oggi basta!» esclamò l’insegnante battendo le mani. «Non vorrei che svenissi, Edda. Come Vicky la settimana scorsa. Questa maledetta guerra ci sta spingendo ai limiti delle nostre forze. Riesci a mangiare abbastanza a casa?»

Audrey la guardò ammutolita e l’insegnante si diede un colpetto bruscò sulla fronte. «Che domanda stupida, perdonami, bambina mia. Chi riesce a mangiare abbastanza di questi tempi?»

Quella sera di maggio il tempo era piacevolmente mite. Il sole al tramonto inondava Arnhem di una luce tenue, illuminando i sentieri ben curati del parco, con tutte le loro aiuole e fontane, che Audrey attraversava per tornare a casa. La città sarebbe parsa idilliaca se non fosse stato per i soldati tedeschi che bighellonavano in giro, osservando tutto e tutti.

Poco dopo Audrey raggiunse la vecchia villa dei nonni, dove lei e la madre avevano trovato rifugio. Una volta era stata un edificio signorile, sebbene ormai da tempo necessitasse di qualche lavoro di ristrutturazione: due finestre erano rotte e l’ultima tempesta primaverile aveva fatto cadere diverse tegole dal tetto. In quel paese devastato dalla guerra, dalla fame e dalla paura costante delle forze di occupazione, nessuno aveva il tempo o la possibilità di occuparsi di certe cose.

Lo stomaco di Audrey brontolò, una familiare sensazione di vuoto. A pranzo aveva mangiato solo una misera minestra e sperava che per cena ci sarebbe stato qualcosa di meglio di quel terribile pane fatto di farina di piselli.

«Eccoti qua, bambina mia» la salutò il nonno, mentre ripuliva l’ingresso dalle erbacce. «Entra, ti stavamo aspettando per cena.»

«Pane di farina di piselli?» chiese Audrey storcendo il naso.

Suo nonno scoppiò a ridere. «Ora, non fare tante storie. Di questi tempi è una prelibatezza. Intere nazioni ci invidierebbero se sapessero del nostro delizioso pane fatto con la farina di piselli.»

«Sì, come no» mormorò Audrey sarcastica.

«Ma è avanzata un po’ di marmellata di lamponi della nonna da metterci sopra» promise il nonno accompagnandola in casa.

«Be’, già qualcosa.»

Ella e sua nonna erano sedute al tavolo della cucina.

«Com’è andata la lezione di danza?» chiese sua madre mentre distribuiva il pane. Ognuno di loro aveva diritto solo a una misera fetta.

«Bene. Come al solito.» Per un attimo nella mente di Audrey comparvero di nuovo scene di una spettacolare esibizione di danza, con lei che si muoveva in modo aggraziato nel ruolo di prima ballerina. «Vicky non viene più. Madame Marova dice che è talmente denutrita che sarebbe troppo rischioso per lei ballare.»

Ella non rispose, ma lasciò vagare il suo sguardo sul corpo ossuto della figlia. Audrey si legò rapidamente il tovagliolo al collo per nascondersi, masticando quasi con stizza un pezzo di crosta.

Era impensabile che la madre le proibisse di ballare. Senza la danza, che le permetteva di continuare a sognare, si sarebbe sentita una persona a metà. Le fantasie sul balletto la aiutavano a prendere sonno di notte, anche quando aveva fame, e i suoi sogni sulla danza classica la distraevano durante il giorno dalle domande sul destino dei fratelli.

Il nonno, che aveva notato lo sguardo di Ella, intervenne in aiuto della nipote. «Sono sicuro che la nostra Audrey potrà continuare a ballare. È quasi estate, e nell’orto della nonna ci sarà pur qualcosa di commestibile, no?»

Come per rassicurarla, la nonna spinse il barattolo di marmellata verso di lei.

«Mangia, piccola mia.»

«Ho solo paura del prossimo inverno» mormorò il nonno preoccupato, guardando in lontananza. «La fine della guerra è ancora lontana. L’inverno sarà duro.»

«Se solo potessimo avere notizie dei ragazzi» sospirò Ella.

Audrey tenne il capo chino per non vedere il dolore negli occhi della madre. Ogni volta che parlavano dei suoi fratelli, le si spezzava il cuore. 

foto presa dal web

JULIANA WEINBERG è nata a Neustadt e vive con il marito e i figli nella foresta del Palatinato. È un’insegnante e una scrittrice di romanzi storici di grande successo, tradotti in numerosi Paesi. Audrey Hepburn. Sotto un cielo di stelle è il suo primo libro a essere pubblicato in Italia.

Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la curatrice del blog letterario "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga.

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