“L’eredità di Mrs Westaway” di Ruth Ware edito da Corbaccio, genere giallo (estratto)

 

Harriet Westaway vive a Brighton in un piccolo appartamento. Sua madre, che l’ha cresciuta da sola, è morta in un incidente stradale poco prima del suo diciottesimo compleanno e Harriet, dopo aver abbandonato la scuola, ha perso i contatti con tutti gli amici. Un giorno riceve una lettera inaspettata dalla Cornovaglia: la nonna, morendo, le ha lasciato una cospicua eredità. Da una parte è una notizia fantastica, perché Harriet si trova in una pessima situazione finanziaria ed è indebitata con un usuraio, dall’altra è una notizia piuttosto strana, perché la sua vera nonna è morta più di vent’anni prima. Evidentemente si tratta di un caso di omonimia, che però Harriet decide di sfruttare a suo vantaggio utilizzando le sue capacità manipolatorie che le permettono di sopravvivere come cartomante, lo stesso lavoro che faceva sua madre. Se c’è una persona in grado di partecipare a un funerale reclamando un’eredità che non le spetta è proprio lei. Ma Harriet non sa quello che la attende e ignora che la sua decisione cambierà drasticamente la sua vita per sempre. Perché non potrà più tornare indietro, nemmeno quando si renderà conto di correre un rischio mortale.

 

Presentazione del libro

“Per la mia mamma. Sempre.”

Nota per i lettori

L’eredità di Mrs. Westaway inizia nella Brighton di oggi, ma coloro che conoscono la città noteranno una discrepanza: il West Pier è ancora in piedi. Spero che i brightoniani gradiranno la resurrezione del famosissimo molo, benché soltanto in un’opera di fiction.

Una è dolore

Due è gioia

Tre è femmina

Quattro è maschio

Cinque è argento

Sei è oro

Sette è un segreto

Da non svelare mai

 

29 novembre 1994

Sono tornate le gazze. È strano rendermi conto di quanto io le avessi detestate, quando arrivai in questa casa. Ricordo di averle viste dal taxi mentre percorrevo il vialetto di accesso, tutte allineate lungo il muro del giardino ad allisciarsi le penne.

Oggi ce n’era una appollaiata sul ramo ricoperto di brina del tasso appena fuori dalla mia finestra e mi è tornato in mente quello che diceva mia madre quando ero piccola, così ho sussurrato: «Salve, signora Gazza» per scacciare la sfortuna.

Le ho contate mentre mi vestivo, scossa dai brividi accanto alla finestra. Una sull’albero di tasso. Un’altra sulla banderuola del gazebo. Una terza sul muro dell’orto. Tre è femmina.

Mi è sembrato un presagio, e ho avuto di nuovo i brividi. Di desiderio, di dubbio, di attesa…

Però no, ce n’erano altre sul prato gelato. Quattro, cinque… sei… e un’altra che saltellava sul lastricato del terrazzo, becchettando il ghiaccio che ricopriva tavoli e sedie.

Sette. Sette è un segreto da non svelare mai. Be’, sul segreto ci ha preso, ma sul resto proprio per niente. Dovrò svelarlo, invece, e abbastanza presto. Non avrò scelta.

Avevo quasi finito di vestirmi quando ho udito un fruscio tra il fogliame dei rododendri. Per qualche istante non sono riuscita a capirne la causa, poi ecco che da un varco tra i rami è sbucata una volpe che ha attraversato quatta quatta il prato disseminato di foglie, la coda rosso oro che spiccava vividissima contro i colori smorti dell’inverno.

A casa dei miei genitori erano abbastanza frequenti, ma da queste parti è raro avvistarne una, per giunta abbastanza audace da attraversare l’enorme spiazzo esposto davanti alla casa. Ho visto conigli dilaniati e sacchi dell’immondizia strappati dopo le loro scorribande, però è difficile che si azzardino a tanto. Questa qui dev’essere molto coraggiosa, oppure molto disperata, per appostarsi così in vista. Guardando meglio credo sia vera la seconda ipotesi, dato che si tratta di una volpe giovanissima e di una magrezza spaventosa.

Sulle prime le gazze non ci hanno fatto caso, ma poi una sul terrazzo, dotata di più spirito di osservazione, ha registrato la sagoma di un predatore in avvicinamento ed è volata via a razzo dal pavimento gelido chioccolando il suo allarme, un monito che è risuonato forte e chiaro nella quiete mattutina. Dopodiché la volpe non ha più avuto speranze. Gli altri uccelli se ne sono volati tutti in cielo finché non ne è rimasto soltanto uno appollaiato sul tasso, al sicuro dalla portata della volpe che, come un ruscelletto d’oro fuso, è sgattaiolata di nuovo in mezzo all’erba lasciando la gazza solitaria a gracchiare il suo trionfo sul ramo.

Una. Una è dolore. Solo che è impossibile. Io non sarò mai più triste, a dispetto di tutto, nonostante la tempesta che sta per arrivare, lo so. Mentre me ne sto qui seduta a scrivere in salotto, posso sentirlo – il mio segreto – bruciarmi dall’interno con una gioia così violenta che a volte mi sembra possa trapelare da sotto la pelle.

Cambierò quella filastrocca. Una è gioia. Una è amore. Una è il futuro.

Capitolo 1

Più che camminare, la ragazza arrancava tutta curva contro il vento, il cartoccio umido del fish and chips riparato sotto il braccio dalle raffiche che tentavano di strapparglielo per sparpagliarne il contenuto sul lungomare alla mercé dei gabbiani.

Nell’attraversare la strada strinse tra le dita il biglietto stropicciato che aveva in tasca e si guardò alle spalle, scrutando il lungo tratto scuro di marciapiede in cerca di una figura indistinta, ma non c’era nessuno. O comunque nessuno che lei riuscisse a vedere.

Succedeva di rado che il lungomare fosse completamente deserto. Dai bar e dai club che restavano aperti fino a tarda notte i turisti e gli avventori locali si riversavano ubriachi sulla spiaggia per tirare l’alba. Stasera, tuttavia, persino i nottambuli più incalliti avevano deciso di non avventurarsi fuori, e adesso, alle 21.55 di un piovoso martedì, Hal aveva la promenade tutta per sé, con le luci lampeggianti del molo come unico segno di vita, a parte le strida dei gabbiani che volteggiavano sopra le acque oscure e inquiete della Manica.

Con i corti capelli scuri scompigliati fin dentro agli occhi, gli occhiali appannati e le labbra screpolate dal vento salmastro, Hal si strinse meglio il pacchetto sotto il braccio e abbandonò il lungomare per infilarsi in una delle stradine di alti edifici bianchi dove il vento smise di soffiare talmente all’improvviso da farla vacillare e quasi cadere. La pioggia invece non accennava a smettere, anzi, ora che non c’era più vento sembrò aumentare di intensità mentre lei svoltava di nuovo in Marine View Villas.

Quel nome era una bugia. Non c’era nessuna villa, solo una fila un po’ malridotta di casette a schiera dall’intonaco scrostato per via della costante esposizione alla salsedine. E non c’era nessuna vista, né sul mare né su nient’altro. Forse un tempo sì, all’epoca in cui erano state costruite, ma da allora erano venuti su edifici più alti e lussuosi, più vicini alla spiaggia, e qualunque vista potessero aver avuto le finestre di Marine View Villas era adesso ridotta a dei muri di mattoni e dei tetti d’ardesia, persino dalla soffitta di Hal. Ora l’unico vantaggio di abitare all’ultimo di tre piani di strette scale malferme era di non essere costretti ad ascoltare i passi pesanti dei vicini sopra la testa.

Stasera, tuttavia, i vicini sembravano essere fuori casa, anzi, probabilmente mancavano da un pezzo, a giudicare dal cumulo di posta indesiderata nel quale il portone si incastrò. Hal dovette spingerlo con forza finché non cedette, e a quel punto incespicò nell’androne buio e freddo cercando a tentoni l’interruttore a tempo che governava le luci. Non successe nulla: forse un fusibile bruciato o una lampadina fulminata.

Raccolse la posta alla luce fioca che filtrava dalla strada, sforzandosi di distinguere le lettere per gli altri inquilini, e poi cominciò ad arrampicarsi verso il proprio appartamento.

Non c’erano finestre nella tromba delle scale e, superato il primo piano, si ritrovò in mezzo al buio quasi totale. Ma siccome i gradini li conosceva a memoria, dall’asse rotta sul pianerottolo al pezzetto di guida che si era strappato sull’ultima rampa, Hal continuò a salire stancamente pensando alla cena, e poi al letto. Non era nemmeno sicura di avere ancora fame, ma il fish and chips le era costato cinque sterline e mezza, e visto il numero di bollette che aveva in mano, non si trattava di una somma che potesse permettersi di buttare via.

Sull’ultimo pianerottolo abbassò la testa per evitare il gocciolio proveniente dal lucernario, aprì la porta e finalmente si ritrovò a casa.

L’appartamento era piccolo, giusto una camera da letto affacciata su una sorta di largo corridoio che serviva da cucina, da salotto e da tutto il resto. Era anch’esso malridotto, con i muri scrostati, la moquette lisa e gli infissi di legno che sbatacchiavano lamentosi quando il vento soffiava dal mare. Però era stata casa sua per tutti i suoi ventun anni, e per quanto si sentisse stanca e infreddolita, le si sollevava sempre un po’ il morale, al momento di entrare.

Si fermò un istante sulla soglia per pulirsi gli occhiali sui jeans sdruciti, prima di posare il cartoccio di pesce e patate fritte sul tavolino basso.

Rabbrividì per il gran freddo e si inginocchiò davanti alla stufa a gas, girando la manopola finché la fiamma non divampò e il calore cominciò a scongelarle le mani arrossate. Dopodiché scartò il pacchetto inumidito dalla pioggia inalandone il forte odore di aceto che in pochi istanti riempì la piccola stanza.

Mentre si portava alla bocca una patatina tiepida con la forchetta di legno cominciò a passare in rassegna la posta, separando i volantini pubblicitari dei vari takeaway destinati alla raccolta differenziata dai conti da pagare, che ammucchiò da parte in una pila. Benché le patatine fossero ben salate e acidule e il pesce in pastella ancora caldo, Hal provò una sensazione di malessere sempre più forte alla bocca dello stomaco via via che la pila di conti continuava a crescere. Non era tanto il loro numero, bensì la scritta ULTIMO SOLLECITO a preoccuparla, al punto che spinse da parte il pesce in preda alla nausea.

L’affitto doveva pagarlo a tutti i costi, e anche l’elettricità era in cima alla lista. Senza il frigorifero e le luci l’appartamentino sarebbe stato praticamente inabitabile. Quanto al gas… be’, era novembre. La vita senza riscaldamento era scomoda, ma si poteva sopravvivere.

Ciò che le rivoltò davvero lo stomaco, tuttavia, non erano le bollette ufficiali, bensì una busta da quattro soldi, evidentemente consegnata a mano, sulla quale compariva soltanto la scritta a penna: «Harriet Westaway, ultimo piano».

Il mittente non era specificato, ma Hal non ne aveva bisogno: aveva l’orribile sensazione di sapere già da chi provenisse.

Inghiottendo la patatina che le si era piantata in gola, spinse la busta sotto la pila di bollette cedendo al fortissimo impulso di seppellire la testa sotto la sabbia. Desiderò con tutto il cuore di poter passare l’intero problema a qualcuno più vecchio e saggio e forte.

Solo che non c’era nessuno. Non più. Inoltre, lei aveva dentro di sé un nucleo di coraggio duro e testardo. Per quanto piccola di statura, magrissima, pallida e giovane, Hal non era nemmeno la bambina che gli altri di solito davano per scontato che fosse. Non lo era più da oltre tre anni.

Fu quel nucleo di coraggio a far sì che riprendesse in mano la busta e la aprisse, pur mordendosi il labbro.

Dentro c’era un unico foglio con un paio di frasi a stampatello.

Spiacenti di non trovarla in casa. Voremo discutere la sua situazzione finanziaria. Ripasseremo.

Con una sorta di capriola dentro lo stomaco, Hal si frugò in tasca alla ricerca del pezzetto di carta che era comparso mentre era al lavoro quel pomeriggio. Erano identici, a parte le grinze e la macchia di tè rovesciato sul primo quando lo aveva aperto.

Il messaggio che entrambi riportavano non le era nuovo. Erano mesi che ignorava telefonate e SMS di quel genere.

Fu il messaggio dietro ai biglietti a provocarle il tremito alle mani, quando le appoggiò con cura sul tavolino basso, l’una accanto all’altra.

Hal era abituata a leggere tra le righe, decifrando l’importanza di ciò che le persone non dicevano, oltre che di quanto dicevano. Era il suo lavoro, in un certo senso. Tuttavia in questo caso le parole non dette non richiedevano alcuna decodificazione.

Significavano:

Sappiamo dove lavori.

Sappiamo dove abiti.

E torneremo di nuovo.

Il resto della posta era costituito solo da volantini pubblicitari che Hal gettò nella carta da riciclare prima di sedersi stancamente sul divano. Per qualche istante restò con la testa tra le mani, cercando di non pensare alla precarietà del proprio conto in banca, mentre le tornava alle orecchie la voce di sua madre che la sgridava sul suo modo di affrontare gli esami di maturità, quasi se ne stesse lì in piedi alle sue spalle: Hal, lo so che sei stressata, però devi per forza mangiare qualcosa! Sei troppo magra!

Lo so, rispose lei nella sua testa. Andava sempre così, quando si sentiva preoccupata o ansiosa: per prima cosa perdeva l’appetito. Solo che non poteva permettersi di ammalarsi. Se non lavorava, non sarebbe stata pagata. E soprattutto non poteva permettersi di sprecare del cibo, per quanto ormai umidiccio e in via di raffreddamento.

Ignorando il groppo che aveva in gola prese un’altra patatina. Stava per mettersela in bocca quando le cadde l’occhio su qualcosa che era già finito nel bidone della differenziata. Qualcosa che non avrebbe dovuto trovarsi lì. Una lettera in una rigida busta bianca, con l’indirizzo scritto a mano, in mezzo ai vari menù dei takeaway.

Hal si leccò via il sale dalle dita e si sporse in avanti per afferrarla.

«Miss Harriet Westaway, Interno 3c, Marine View Villas, Brighton», c’era scritto sulla busta leggermente macchiata di unto.

Doveva averla gettata lì per sbaglio insieme alle altre cartacce. Be’, almeno questa non poteva essere una bolletta: assomigliava di più a una partecipazione di nozze, benché ciò fosse improbabile. Non le venne in mente nessuno che stesse per sposarsi.

Infilato il pollice sotto al lembo, la aprì con uno strappo.

Il foglio che ne uscì non era un invito, bensì una lettera scritta su carta pesante e costosa, con in cima il nome di uno studio legale. Le si formò una sorta di voragine dentro lo stomaco, via via che un ventaglio di terrificanti possibilità si spiegava dinanzi ai suoi occhi. Che qualcuno le stesse facendo causa per qualcosa che aveva detto durante una lettura di tarocchi? Oppure – oh, Dio – si trattava dell’affitto. Mr Khan, il padrone di casa, aveva già superato la settantina e venduto tutti gli altri appartamenti del palazzo, uno dopo l’altro. Si era tenuto quello di Hal più che altro per pietà e per affetto nei confronti di sua madre, ne era abbastanza sicura, ma il rinvio dell’esecuzione non poteva durare in eterno. Un giorno gli sarebbero serviti i soldi per la casa di riposo, oppure il diabete lo avrebbe stroncato e i suoi figli sarebbero stati costretti a vendere. Che importanza avevano i muri scrostati dall’umidità e il fatto che l’impianto elettrico saltasse ogni volta che accendeva il phon insieme al tostapane? Quella era la sua casa, l’unica che avesse mai avuto. E se lui l’avesse buttata fuori, le chance di trovarne un’altra a quel prezzo non erano solo esili, bensì addirittura inesistenti.

Oppure si trattava di… però no, era impossibile che lui si fosse rivolto a un avvocato.

Spiegò il foglio con dita tremanti, ma nell’abbassare gli occhi sui recapiti sotto la firma si rese conto con un’ondata di sollievo che non si trattava di uno studio di Brighton. L’indirizzo era a Penzance, in Cornovaglia.

Niente a che fare con l’appartamento, grazie a Dio. Ed era altrettanto improbabile che la lettera provenisse da un cliente scontento, essendo un posto così lontano da casa sua. Anzi, a Penzance lei non conosceva proprio nessuno.

Ingollando un’altra patatina, spiegò la lettera sul tavolino e, inforcati di nuovo gli occhiali, cominciò a leggere.

Gent.ma Miss Westaway,

le scrivo su indicazione della mia cliente, sua nonna Hester Mary Westaway di Trepassen House, St Piran.

Miss Westaway è venuta a mancare il 22 novembre, nella propria dimora. Immagino che la notizia possa risultarle traumatica; la prego di accettare le mie più sentite condoglianze.

In veste di legale ed esecutore di Mrs Westaway, è mio dovere contattare i beneficiari del suo testamento. Viste le notevoli dimensioni della proprietà, occorrerà effettuare una procedura testamentaria e far valutare l’immobile per accertarne gli oneri di successione, prima di passare all’assegnazione. Nel frattempo, tuttavia, lei potrà fornirmi copie di due documenti che confermino la sua identità e il suo indirizzo (troverà in allegato un elenco di forme di identità valide) che mi permettano di dare inizio al necessario iter burocratico.

In accordo con i desideri della sua defunta nonna, ho inoltre il dovere di informare i beneficiari del testamento a proposito del suo funerale, che si terrà nella chiesa di St Piran, a St Piran. Essendo le strutture ricettive della zona assai limitate, i membri della famiglia sono invitati a soggiornare a Trepassen House, dove verrà allestita anche una veglia funebre.

Le suggerisco di scrivere alla governante della sua defunta nonna, Mrs Ada Warren, qualora volesse avvalersi dell’invito, e lei farà in modo di prepararle una delle stanze.

La prego nuovamente di accettare le mie condoglianze, rassicurandola sulla mia massima attenzione alla vicenda.

Cordialmente

Robert Treswick

Treswick, Nantes e Dean

Penzance

Le cadde una patatina in grembo ma Hal non si mosse, limitandosi a rileggere più volte la breve lettera per poi passare all’elenco di documenti di identificazione validi, come se ciò potesse delucidarla meglio.

Proprietà immobiliare di notevoli dimensioni… beneficiari del testamento… Udendo un brontolio nello stomaco, Hal prese un’altra patatina e la mangiò distrattamente, cercando di ricavare un senso dalle parole che aveva sotto gli occhi.

Perché un senso non ce l’avevano. Neanche un po’. I nonni di Hal erano morti da più di vent’anni.

Capitolo 2

Chissà per quanto tempo era rimasta seduta lì a scervellarsi sulla lettera, gli occhi che correvano veloci tra il foglio ripiegato e la pagina di ricerca del suo telefono. Quando alzò lo sguardo, tuttavia, l’orologio del microonde segnava mezzanotte meno cinque. Si stiracchiò e con una fitta di ansia si rese conto che il caminetto a gas aveva continuato ad ardere per tutto il tempo. Si alzò e lo spense, restando ad ascoltarne il ticchettio via via che i suoi elementi si raffreddavano, per poi aggiungere mentalmente altri cinquanta penny alla bolletta del gas non ancora pagata, e in quell’istante fu la fotografia sopra la mensola a catturare il suo sguardo.

Era lì da tempo immemore – una decina d’anni almeno – ma adesso la prese in mano per guardarla di nuovo. Ritraeva una bambina sui nove o dieci anni e una donna sulla spiaggia di Brighton: ridevano, gli occhi strizzati contro le raffiche di vento che sollevavano i loro lunghi capelli scuri in una sorta di identica acconciatura piuttosto comica. La donna teneva il braccio attorno alle spalle della bambina, e c’era tra loro un’aria di tale libertà e fiducia che Hal si sentì stringere il cuore da un’angoscia a cui si era quasi abituata, negli ultimi tre anni, e che però non accennava a svanire.

La bambina era Hal, eppure era diversa dalla ragazza che ora stava davanti al caminetto, i capelli corti come un maschio, i piercing alle orecchie, i tatuaggi sulla schiena che sbucavano dal collo della logora maglietta.

La bambina della fotografia non aveva nessun bisogno di tatuarsi la pelle con dei ricordi perché tutto ciò che voleva ricordare era lì accanto a lei. Non si vestiva di nero perché non aveva nessun lutto da piangere. Non teneva la testa bassa e il bavero rialzato quando tornava a casa a piedi perché non aveva niente da cui nascondersi. Era al caldo, ben nutrita, e soprattutto amata.

Il fish and chips si era raffreddato; Hal lo riavvolse nel cartoccio e lo gettò nel bidone all’angolo della stanza. Aveva la bocca secca per via del sale e un doloroso groppo in gola, e l’idea di una tazza di tè bollente prima di andare a letto le risultò improvvisamente di conforto. Avrebbe messo a bollire l’acqua per il tè e usato quella che rimaneva nella teiera per riempire una boule da mettere tra le lenzuola, in modo da scacciare il freddo e conciliare il sonno.

Quando la teiera cominciò a borbottare, Hal frugò nello stipo alla ricerca delle bustine. Tuttavia si ritrovò sottomano qualcos’altro: non la leggera scatola di cartone, bensì una bottiglia di vetro, piena per metà. Pur non avendo bisogno di tirarla fuori per capire cosa fosse, la prese ugualmente, soppesandola, con il liquido che sciabordava al suo interno. Vodka.

Ultimamente non beveva quasi mai – non le piaceva affatto la persona che era diventata, col bicchiere in mano – ma poi le cadde l’occhio sui due biglietti abbandonati sul tavolino e con un rapido movimento svitò il tappo e si versò una generosa dose nella tazza che avrebbe dovuto riempire di tè.

La teiera bolliva già quando portò la tazza alle labbra, inalando l’odore acre dal leggero sentore di benzina, il polso tremolante alla luce fioca proveniente dal lampione in strada. Per un attimo immaginò di avere in bocca quel sapore aspro, bruciante, e la carica di euforia che portava con sé, ma poi provò un senso di ribellione dentro lo stomaco e rovesciò il liquido nel lavandino, dopodiché, risciacquata la tazza, mise in infusione il tè.

Mentre lo portava in camera da letto si rese conto di aver dimenticato la borsa dell’acqua calda. Non aveva importanza. Era troppo stanca per tornare indietro, e il suo tè era bello bollente. Si raggomitolò nel letto vestita a sorseggiarlo, gli occhi fissi al vivido schermo del cellulare.

Sulla schermata di Google Immagini c’era una cartolina colorata a mano, risalente forse agli anni Trenta, che ritraeva una casa di campagna con una lunga facciata di pietra color panna punteggiata di finestre in stile georgiano, tutta ricoperta di edera. Dal tetto di ardesia sbucava una dozzina o più di comignoli, ognuno di una foggia diversa. Sul retro si vedeva il resto della casa, apparentemente costruita con mattoni rossi, in un altro stile. Di fronte all’edificio si stendeva un grande prato sul quale era stata scarabocchiata una scritta che diceva: «Ci siamo goduti un ottimo tè a Trepassen House, prima di guidare fino a Penzance.»

Dunque era questa, Trepassen House. Sì, proprio questa. Non un modesto bungalow, o una villetta a schiera vittoriana dal nome pretenzioso, bensì un’autentica residenza di campagna.

Una porzione, ancorché piccola, di un posto del genere sarebbe potuta servire a ben di più che a pagare i suoi conti: avrebbe potuto restituirle la sicurezza perduta dopo la morte di sua madre. Persino poche centinaia di sterline potevano darle un respiro che non conosceva più da mesi, ormai.

L’orologio in cima al display segnava mezzanotte e mezza, e Hal pensò che doveva dormire, ma non spense il telefono.

Se ne restò seduta a letto, invece, con il vapore del tè che le appannava gli occhiali, cercando altre immagini e facendole scorrere sullo schermo, in preda a uno strano miscuglio di emozioni che la 

riscaldavano ancor di più del tè.

Eccitazione? Sì.

Anche agitazione, parecchia.

Ma soprattutto qualcosa che non osava più provare da anni. Speranza.

Capitolo 3

Il mattino dopo Hal si svegliò tardi. I raggi del sole già alto filtravano obliqui dalle tende della camera da letto dove lei giaceva immobile, con un senso di eccitazione mista a terrore alla bocca dello stomaco di cui si sforzò di ricordare la causa.

Il ricordo arrivò con la forza di un paio di cazzotti nelle viscere.

Il terrore era dovuto ai conti da pagare ammucchiati sul tavolino, e peggio ancora dei conti, a quei due biglietti consegnati a mano…

L’eccitazione, però…

Aveva passato tutta la notte a persuadere se stessa di lasciar perdere. Il semplice fatto che Hester Westaway fosse vissuta lì – e ci fosse anche morta – non garantiva che fosse stata davvero la proprietaria dell’enorme tenuta della cartolina. La gente non possedeva più ville di quelle dimensioni, oggigiorno. Con ogni probabilità adesso era diventata una casa di riposo.

Ma la governante, sussurrò una voce nella sua testa. E quelle righe dove si parlava di preparare una camera per te. Non avrebbero detto una cosa del genere di una casa di riposo, giusto?

«Non importa», disse Hal, spaventandosi da sola al suono della propria voce nell’appartamento silenzioso.

Si alzò, dandosi una sistemata ai vestiti stropicciati, e si infilò gli occhiali per guardarsi severamente allo specchio.

Non importava se Hester Westaway avesse posseduto una stanza, o un’ala, o un cottage in giardino, o l’intera maledetta proprietà. Si trattava chiaramente di un errore di qualche tipo: quella non era sua nonna. I soldi appartenevano a qualcun altro, fine della storia.

Domani avrebbe risposto alla lettera di Mr Treswick per dirglielo.

Ma oggi… Hal diede un’occhiata all’orologio e scosse la testa. Oggi le restava a malapena il tempo di farsi una doccia. Erano le 11.20 e rischiava di arrivare in ritardo al lavoro.

Era sotto la doccia, con l’acqua calda che le tambureggiava sul cranio scacciando tutti gli altri pensieri, quando la voce sussurrò di nuovo al di sopra dello scroscio.

E se invece fosse vero? Hanno scritto proprio a te, non è così? Avevano il tuo nome e indirizzo.

E però non era vero, ecco tutto. Gli unici nonni di Hal erano morti tanti anni fa, prima della sua nascita. E sua nonna non si chiamava Hester, bensì… Marion?

Forse Marion era uno dei suoi nomi, c’è chi ne ha più d’uno, no? Magari usa un nome per la quotidianità e un altro per i documenti. E se…

 

Foto presa dal web

I romanzi di Ruth WareL’invitoLa donna della cabina numero 10 e Il gioco bugiardo, oltre all’Eredità di Mrs Westaway, pubblicati in Italia da Corbaccio, sono dei bestseller internazionali tradotti in più di quaranta lingue, e sono entrati nelle classifiche dei libri più venduti di tutto il mondo, fra cui quelle del Sunday Times e del New York TimesRuth Ware vive nei dintorni di Brighton, in Inghilterra, con la famiglia.

 

Author: Jenny Citino
Jenny Citino è la curatrice del blog letterario "Librichepassione.it" Amante della lettura sin da bambina, alterna questa sua passione con la musica classica, il giardinaggio e la pratica dello Yoga.